La guerra di Putin ha trasformato l'Ucraina nell'Israele d'Europa
I destini incrociati di due paesi assediati dai nemici dell’occidente: entrambi lottano per difendere la propria esistenza e la democrazia, mantenendo comunque entro i propri confini una bolla di normalità
Li vogliono cancellare entrambi dalla carta geografica. Li vogliono minacciare entrambi con le armi nucleari. Li vogliono costringere ad abbandonare le proprie terre. Li vogliono annientare entrambi con metodi terroristici. E alla fine dei conti, per ragioni diverse, con sfumature diverse, con storie diverse, entrambi i paesi oggi rappresentano due avamposti formidabili, per l’occidente, nella lotta quotidiana contro i nemici delle democrazie liberali. I due paesi in questione possono apparire distanti tra loro ma se si ha il coraggio di alzare la testa dalla superficie del dibattito pubblico si capirà con facilità che l’aggressione con cui sta facendo i conti da più di tre mesi l’Ucraina ha molti punti di contatto con l’aggressione con cui fa i conti da molto più tempo un altro paese messo sotto assedio dai nemici dell’occidente come Israele. Le storie possono apparire diverse ma i punti di contatto sono molti e non sono solo simbolici. Israele, come l’Ucraina, si difende come può contro coloro che, ai suoi confini, non accettano nel modo più assoluto la presenza, in quei territori, di una democrazia occidentale desiderosa di proteggere fino alla morte i propri valori.
Israele, come l’Ucraina, ha accanto a sé, a pochi passi dalla sua quotidianità, dalla sua routine, un paese che sogna di spazzarla via dalla mappa geografica: in medio oriente quel paese si chiama Iran (chiedere per credere agli ayatollah), in Europa quel paese si chiama Russia (“Chi ha detto che tra due anni l’Ucraina esisterà ancora sulle mappe mondiali?”, ha detto mercoledì scorso il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitri Medvedev). Israele, come l’Ucraina, ha accanto a sé un paese che per sostanziare la sua minaccia, il voler cancellare i propri nemici dalle mappe, ha esposto sui propri davanzali la propria artiglieria nucleare: in un caso, quello della Russia, in modo esplicito, palese, in un altro caso, quello dell’Iran, in modo implicito, meno palese, attraverso l’immagine non di ciò che già c’è ma di ciò che potrebbe essere una volta completati i propri percorsi di arricchimento dell’uranio impoverito.
“Non c’è nessun altro paese al mondo che abbia avuto così tanta influenza sulla cultura ebraica e sul sionismo prima dell’Olocausto” ha scritto Israel Hayom, il più diffuso giornale israeliano. E nei primi mesi della guerra è stato lo stesso presidente ucraino, Zelensky, a dire che “Israele è un modello per l’Ucraina”
Entrambi, Israele e Ucraina, cercano, come raccontato magnificamente su queste pagine da Adriano Sofri (che come avrete letto venerdì scorso ha partecipato al Gala di riapertura del Teatro dell’Opera di Odessa) e da Michele Masneri (sapevate che a Kyiv c’è Glovo?), di creare all’interno dei propri confini una bolla per nulla fittizia di normalità. E così come Israele ha imparato a educare i suoi cittadini alla precarietà assoluta della vita, facendo diventare l’incertezza della propria esistenza un tratto chiave della forza del paese, allo stesso modo l’Ucraina nelle ultime settimane ha mostrato anche sotto le bombe segnali di vitalità, persino di normalità.
Il Teatro dell’Opera di Kyiv ha riaperto la scorsa settimana e ha visto il tutto esaurito. Le campanelle delle scuole, anche sotto le bombe, non hanno smesso di suonare laddove la guerra ha lasciato ai genitori la possibilità di scegliere se lasciare i propri figli a casa o se mandarli in classe anche a pochi metri di distanza dalle bombe russe. Il numero di ucraini che rientrano in Ucraina è da mesi superiore al numero di Ucraini che scappano dall’Ucraina (sono 2,3 milioni gli ucraini tornati in patria dall’inizio della guerra secondo Frontex). Il punto è sempre lo stesso: difendere la propria democrazia dai nemici esterni anche a costo di rischiare ogni giorno la propria vita. Si potrebbero aggiungere a questi piccoli affreschi anche alcune storie interessanti non solo dal punto di vista simbolico. La fede ebraica di Zelensky è nota, ma meno note forse sono alcune storie incrociate ricordate alcune settimane fa sul Foglio dal nostro Giulio Meotti. Dall’Ucraina venivano otto padri fondatori dello Stato ebraico che sono oggi tutti impressi sulle banconote israeliane. Sono primi ministri come Levi Eshkol e Moshe Sharett. Presidenti come Ephraim Katzir. Padri del sionismo come Aaron David Gordon. E poi, ancora: Naftali Herz Imber, l’autore della Hatikwa, l’inno nazionale israeliano. Lo scrittore sopravvissuto alla Shoah Aharon Appelfeld. Il poeta Haim Bialik. Il fondatore dell’Histadrut, il leggendario sindacato ebraico, Avraham Hartzfeld. O come Yaakov Dori, nato Dostrovsky, l’ultimo comandante della Haganah. O come il primo capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Tsahal, di Odessa, capo di stato maggiore delle Forze armate che sconfissero gli eserciti arabi invasori quando fu istituito lo Stato ebraico. “Non c’è nessun altro paese al mondo che abbia avuto così tanta influenza sulla cultura ebraica e sul sionismo prima dell’Olocausto” ha scritto Israel Hayom, il più diffuso giornale israeliano. E nei primi mesi della guerra è stato lo stesso presidente ucraino, Zelensky, a dire che “Israele è un modello per l’Ucraina”.
Nel caso specifico, Zelensky si riferiva alla capacità di Israele – paese che in verità è uscito lentamente dal suo stato di neutralità sul conflitto, iniziando solo a fine maggio a inviare materiale bellico al presidente ucraino – di saper coniugare sicurezza armata e normalità della vita, ma come è evidente le simmetrie tra i due paesi sono tante e non casuali. Entrambi lottano per difendere la propria esistenza. Entrambi lottano per difendere la propria democrazia. Entrambi lottano per rivendicare la propria tortuosa strada verso l’autodeterminazione. Putin voleva invadere il Donbas per denazificare l’Ucraina ma il risultato è stato l’opposto: trasformare l’Ucraina nell’Israele d’Europa. Non un grande lavoro.
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