Buio pesto alla Knesset

Bennett scioglie la Knesset e porta il paese alla quinta elezione in tre anni

Giulio Meotti

Quando il premier ha annunciato la fine della coalizione del suo governo, il Parlamento israeliano è rimasto senza luce. Il ruolo della religione nella caduta del governo e nel futuro dello stato ebraico. La versione del giornalista israeliano Nahum Barnea

Il primo ministro israeliano, Naftali Bennett, scioglie la Knesset e porta il paese alla quinta elezione in tre anni. Il ministro degli Esteri, Yair Lapid, guiderà la transizione, che potrebbe durare diversi mesi. I due leader, provenienti da parti opposte dello spettro politico israeliano, avevano unito le forze lo scorso anno per estromettere l’allora premier Benjamin Netanyahu. La prospettiva di nuove elezioni offre a “Bibi”, il primo ministro più longevo della storia israeliana, una concreta possibilità di riconquistare il potere. La decisione pone fine a un periodo insolito nella politica israeliana, dove una coalizione di centro, destra, sinistra e un partito arabo-islamico si erano uniti per la prima volta per formare un governo. Ma i partiti si sono scontrati sulle politiche relative agli insediamenti in Cisgiordania, ai palestinesi e alle questioni di religione e stato. La coalizione aveva perso la maggioranza ad aprile dopo che un legislatore del partito di Bennett si era dimesso. Nuove elezioni si terranno tra la fine di ottobre o l’inizio di novembre.

   
“L’Italia è il nostro modello”, dice al Foglio scherzando Nahum Barnea, il più famoso giornalista israeliano, storica firma del quotidiano Yedioth Ahronoth. Tre anni fa era uscita la notizia che Netanyahu aveva chiesto all’editore di Yedioth, Arnon Mozes, di mettere Barnea al guinzaglio. “All’opera c’è un misto di trumpismo di Netanyahu e di frammentazione dell’arena politica. Bibi è riuscito in qualcosa di unico nella storia israeliana: è stato capace di costruire un fronte politico che non è una coalizione, ma un blocco leale a Netanyahu più che ai rispettivi partiti. Ci sono quattro partiti, dagli ultraortodossi ai coloni al Likud, e sono tutti leali a Bibi. Netanyahu ha fatto passare l’idea che il patriottismo è dalla sua parte. Come se Bibi fosse il leader naturale, dopo essere stato dodici anni al potere e una generazione di israeliani non abbia mai conosciuto una alternativa. Bibi è un genio nel marketing della sua stessa immagine e visione di Israele. Per quattro turni elettorali non è riuscito a creare una maggioranza e non so se questa volta sarà in grado di farcela, ma potrebbe essere possibile”.

   
Bibi ha dalla sua la demografia israeliana, ci dice Barnea. Anche se i religiosi in Israele sono riusciti a imporre alcune regole, come il rispetto nei pubblici servizi delle regole alimentari, è stato un patto non scritto a salvaguardare l’armonia: la scelta compiuta da David Ben Gurion quando decise di non scrivere nessuna Costituzione e di lasciare alla lotta politica la convivenza fra laici e religiosi, fra le élite e la Torah. Il primo politico abbastanza spregiudicato da usare l’arma religiosa fu Menahem Begin, che vinse le elezioni del 1977 col voto religioso sefardita contro il potere dei vecchi socialisti, Ben Gurion, Golda Meir, Moshe Dayan, Ygal Allon. Netanyahu ha raccolto questa eredità, che oggi però ha dalla sua numeri impressionanti. La popolazione israeliana aumenterà del 70 per cento, arrivando a quasi 16 milioni, nel 2050, con gli ultraortodossi che rappresenteranno un terzo di tutti gli ebrei israeliani, secondo una nuova stima elaborata dal National Economic Council. Entro il 2050, Israele salirà a 15,68 milioni,  l’80 per cento dei quali ebrei. Ci saranno 3,24 milioni di arabi, lo stesso 21 per cento di oggi. Ma la popolazione ultra-ortodossa crescerà a 3,8 milioni dal 12,6 per cento di oggi. Anche la popolazione ebraica della Cisgiordania raddoppierà dai 458.000 di oggi a 1,1 milioni nel 2050. “Coloni, ortodossi e religiosi, questo è il grande bacino di voti di Bibi”, dice Barnea. “E ha lo stesso istinto di Trump nel saperlo intercettare e manipolare. Oggi avevamo un governo abbastanza di destra e buono per i coloni, ma c’era questa idea che fosse ‘venduto’ ai Fratelli musulmani”.

  
Martedì leader e media ultraortodossi si sono rallegrati per l’imminente scioglimento della Knesset e la caduta del governo guidato dal primo premier della storia a portare la kippà (Naftali Bennett), il copricapo religioso ebraico. Perché il suo governo è uno dei pochi nella memoria recente a non includere i partiti ortodossi. Il rabbino Shalom Cohen,  leader spirituale del partito Shas, che rappresenta gli ebrei sefarditi e mizrahi, ha ringraziato Dio. “Un governo che ha danneggiato e cercato di distruggere l’ebraismo e la santità di Israele”, ha detto Cohen. Ce l’hanno con Avigdor Lieberman, falco ma laico, che ha sollevato la loro ira attraverso una serie di politiche, inclusa una norma che aumentava le tasse sui piatti usa e getta – utilizzati in modo massiccio dalle famiglie ortodosse – e un’altra che condizionava le agevolazioni fiscali per l’assistenza all’infanzia a entrambi i genitori impiegati, norma che ha colpito duramente le famiglie ultraortodosse perché molti uomini non lavorano e studiano nei seminari religiosi. E una proposta di legge che avrebbe consentito di eseguire conversioni all’ebraismo da parte di altre autorità religiose oltre al Gran Rabbinato. Infine, anche la prima defezione dal governo Bennett si è consumata sulla religione. Idit Silman, presidente della coalizione e parlamentare del partito Yamina di Bennett, è passata con il Likud di Netanyahu dopo che si è scontrata con il ministro della Sanità, Nitzan Horowitz, di sinistra e che aveva incaricato i funzionari del suo ministero di dare seguito a una sentenza della Corte Suprema e permettere ai pazienti di portare pane lievitato negli ospedali durante Pesach, la Pasqua ebraica. Silman è contraria alla norma perché in contrasto con la Legge ebraica, la Halakà.

  
Poi un altro parlamentare di Yamina, Nir Orbach, ha presentato al primo ministro un ultimatum per rimanere al governo: l’annullamento del piano del governo di annullare i sussidi per gli asili nido per gli studenti delle scuole ebraiche e approvare quattromila nuove case per gli insediamenti ebraici. Insomma, il governo cade sulle questioni religiose.

 
“Israele è normale ma anche diverso da altri paesi, abbiamo ancora problemi che sono esistenziali, dall’Iran ai palestinesi, che altri paesi non hanno, come Italia o Francia”, prosegue Barnea. “Abbiamo movimenti molto interessanti con i paesi arabi della regione, non so cosa accadrà nel futuro, se la strada seguirà i governanti, ma grazie all’Iran ci sono più opzioni. La domanda ora è se Bibi sarà in grado di ottenere una maggioranza. Se non ce la farà, sarà difficile riuscire a continuare a restare il leader della destra. Siamo comunque a una svolta”. 

  
In una scena che nessuno sceneggiatore avrebbe mai pensato, mentre il primo ministro Bennett annunciava il crollo della coalizione lunedì sera, le luci si sono spente nella sala della Knesset dove lui e Yair Lapid si stavano rivolgendo alla nazione. Bennett stava promettendo un “trasferimento ordinato” del potere a Lapid, quando la Knesset è piombata nel buio. Anche questo, avranno pensato i timorati di Dio, sarà stato un segno del destino.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.