C'è tutto nel grande romanzo russo di Giuliano Da Empoli
Putin dipinto con le sue parole, le sue nottate, i suoi sguardi tra paranoia e razionalità. La rivendicazione orgogliosa del potere come antidoto all’umiliazione del popolo
Qualche sospetto sul nesso tra guerra imperialista e cultura & anima russa lo abbiamo affacciato qui per tempo, quando andava di moda ripetere a macchinetta la banalità: “ma quanto è bravo Dostoevskij!”. Abbiamo dunque i titoli per esaltare il grande romanzo russo che mancava, quello scritto in francese da Giuliano da Empoli, spinto d’improvviso da un mostruoso talento di romanziere e storico (Le mage du Kremlin: lo ha pubblicato Gallimard con forte successo di vendite, uscirà a breve in traduzione italiana, chi non lo compra e legge d’un fiato è scemo).
Ma prima vorrei parlare di un articolo di Edward Lucas, specialista britannico di questioni di sicurezza e giornalista, comparso il 20 giugno sul Times di Londra. Scrive Lucas che per capire contenuto e contesto del decisionismo bellico putiniano “dobbiamo afferrare non solo i suoi elementi economici e militari, ma la fervente ostilità della cultura revanscista che li nutre e sostiene”. Con precisione analitica, Lucas elenca almeno sei punti specialistici.
Primo. La Z e i colori arancio e nero del simbolo di San Giorgio, restaurato da Putin nel 2005. Servono semiologi esperti, oltre alle benemerite spie, per capire la scelta di una lettera che nel cirillico non esiste, messaggio di guerra ai latini variamente interpretabile, un po’ alla Dan Brown (Lucas conosce il wit britannico).
Secondo. Guardate i dipinti del pittore accademico e di regime sovietico e poi putiniano Ilya Glazunov: parlano di accerchiamento dall’ovest, di tradimento, di umiliazione fino a vette di misticismo ortodosso ineguagliate. Oppure guardate film precedenti la stessa èra Putin come il “Barbiere siberiano” (1998) o “Il Monello” (1997-2000), gangster movies di alienazione e xenofobia dispiegate. Servono storici dell’arte e critici cinematografici.
Terzo. Riabilitazione non solo di Stalin, ovvio, ma di Lavrentij Beria, il cekista torturatore inteso come manager efficiente. Dove sono i critici letterari?
Quarto. Servono storici che sappiano cosa fu il trattato di Polyanovka (1634), attualissima premessa antica del conflitto russo-lituano. Il manifesto di Putin, estate 2021, non era solo uno sgorbio storico amatoriale, era un manifesto di guerra.
Quinto. La propaganda non è più quella di un tempo, come la nostalgia. Secondo un analista ex Nato, Ben Nimmo, la sua regola è quella delle quattro Ds: distort (distorci), dismiss (nega), distract (depista), e dismay (sgomenta il nemico). Difficile in una società aperta distinguere tra opinioni legittime e disinformazione mirata. Scrive Lucas: verità fatti logica sono concetti che possono risultare scivolosi, basti pensare alla sovrapposizione tra Ufo, aggiungiamo noi scie chimiche e terrapiattismo, no vaxismo e negazionismo climatico estremo (il mio, più o meno). Servono epistemologi, aggiunge, studiosi della conoscenza.
Sesto. Il capitolo del paranormale. Baba Vanga era una veggente bulgara cieca, morta nel 1996, la cui maggiore predizione è: “Nessuno può fermare la Russia”. Armeisky Sbornik è l’organo ufficiale dell’esercito russo, prevede lo psychic combat, il combattimento paranormale (febbraio 2022).
Individuare gli agguati, interrogare i prigionieri, dare ordini ai delfini: il paranormale aiuta. Servono esoteristi e forse esorcisti. Conclusione witty: niente di questo compenserà la mancanza di un’artiglieria pesante ucraina, ma qualcosa può servire a prevenire la prossima guerra.
Lucas è uno specialista a suo modo geniale, ma Da Empoli è un romanziere totale alla prima prova, oltre che un saggista e un decrittatore del potere contemporaneo, e racconta tutto, ma proprio tutto, in una misteriosa e fantastica storia vera e letteraria, letteraria e realista, diciamo, che è una lunga confessione notturna al narratore da parte del mago di Putin, Vadim Baranov nella finzione magica, Vladislav Surkov nella realtà storica. Da Empoli immagina un talento postmoderno, artistoide, un Eduard Limonov che ce l’ha fatta, uno che voleva non più rappresentare ma plasmare, fare la realtà, dunque uno sobrio e indifferente, un cinico. Di Surkov, il vero, non si sa bene che fine abbia fatto nella Russia di Putin, si sa solo che si è allontanato o è stato allontanato dal circolo del potere, con quali conseguenze è ignoto. Di Baranov si sa che è finito in un libro straordinario, nel quale si riscattano le sue origini presovietiche, il nonno sapiente aristocratico cacciatore, e quelle sovietiche, il padre funzionario di grado elevato.
Baranov è un bell’uomo, il racconto ospita una fantastica storia d’amore (Ksenia) che si intreccia con l’ascesa sfavillante e la tremenda caduta di Michail Khodorkovski dal favore imperiale, a Putin insediato e spinto a verticalizzare il potere della corte e suo personale dall’immaginazione politica del consigliere speciale, inventore della “democrazia sovrana” oggi alle sue prove di guerra, si spera finali, ma non c’è da scommetterci un soldo bucato. Il narrato è come si dice di prima mano, di mano felice. Si capta e si sente la Mosca oppressiva, violenta, gradassa, godereccia, infame, in disfacimento degli ultimi anni di Boris Eltsin e di Berezovskij e degli altri oligarchi. La Mosca liberata dalla sconfitta nella Guerra fredda, “grande catastrofe geopolitica”, dalla quale si risolleverà con ciò che ai russi da sempre serve e piace: ordine all’interno e grandezza, anche di cartapesta se necessario, all’esterno. La libertà come stucchevole estranea della storia nazionale cede al bisogno di sovranità, di indipendenza morale, di identità popolare e statale.
Ma entrare nel meccanismo, portarci il lettore a ogni riga, dipingere Putin con le sue parole, le sue nottate, i suoi sguardi tra paranoia e razionalità fredda, la sua cultura di spione e uomo di stato, il suo retroterra etico, il suo machiavellismo per dummies, il tutto in connessione con la storia del suo consigliere, tra gli alti e bassi di una vicenda oscura e violenta, ma trasparente nei significati ultimi, questo non poteva che essere opera di un autore di romanzo. Putin diventa Putin quando dopo l’oscuro 11 settembre di Mosca, centinaia di morti, dice una battuta sola ma decisiva: staneremo i terroristi e daremo loro la caccia dovunque si nascondano, “anche nei cessi”. Ridiventa Putin quando scopre e comunica a Baranov che Stalin è ancora più popolare di lui, l’unico, malgrado i successi di Russia Unita, l’elezione a presidente, il consolidamento del nuovo potere verticale, l’abolizione virtuale e per questo tanto più efficace di ogni possibile opposizione; manca l’ultimo passaggio, la fucilazione del capo delle ferrovie se non funzionino i treni, la confessione in tribunale dei purgati, una violenza di stato che esprima fino in fondo la sacrale autorità dello zar.
Al fondo del romanzo sta la trama, non l’idea, la trama, orwelliana di mettere in scena pensiero e dominio unico sulla scorta di una rivendicazione orgogliosa del potere come antidoto all’umiliazione del popolo, della nazione, esposti alle dinamiche proprie del capitalismo oligarchico postsovietico. Chi ha letto il lungo saggio di Masha Gessen sa di cosa sono capaci l’uomo o la donna russi. Chi legge il romanzo di Da Empoli questa cosa che si “sa” la “vede”, la “ascolta”, la “tocca”, la ottiene come un regalo letterario assoluto, come un discorso filato e tutto connesso sorretto da un’immaginazione speciale, da senso storico, da intelligenza antropologica, molto oltre il messaggio di una teoria della politica, forse l’unico modo di penetrare a fondo nell’Operazione speciale lanciata il 24 febbraio dal Cremlino.
Da Empoli, Giuliano. E’ una mia amichevole conoscenza di bistrot. Vive prevalentemente a Parigi, scrive anche in un francese coltivato nel gusto ma di una precisione svizzera (è italiano e svizzero). Mi era sempre sembrato più che brillante, ma un tanto cerebrale nella saggistica dedicata alla dittatura dell’algoritmo e agli ingegneri del caos. Per me la genesi di questo romanzo che sarebbe piaciuto a Nabokov, a Le Carré, a James M. Cain, ha qualcosa di misterioso. Forse non l’ha nemmeno scritto lui, gli è stato dettato direttamente da Surkov o da Baranov. Certo è precisamente, con tutta l’ammirazione per Emmanuel Carrère, scrittore formidabile con una sua leggerezza, quel racconto russo e di tutte le Russie che da trent’anni, quarant’anni aspettavo, incredulo che il passaggio dal comunismo ad altro, e ritorno, non avesse trovato il suo cantore. La prognosi geopolitica che deriva da questo eccezionale esperimento letterario è riservata: le radici dell’invasione dell’Ucraina, e della sequenza di contese ispirata a una ideologia tornante e trionfante, eterna e massiccia come un monumento al passato che non passa, sono così profonde che c’è da mettersi le mani nei capelli.
L'editoriale dell'elefantino