L'Iran costruisce i tunnel per la prossima escalation con Israele
Tra le conseguenze della crisi di governo
Joe Biden aveva promesso di resuscitare l'accordo sul nucleare, ma il governo Bennett si è dissolto proprio nel momento in cui gli iraniani accelerano il programma atomico
Ieri il capo dei pasdaran Hossein Salami ha detto: “Gradualmente, stiamo diventando una delle potenze mondiali di alto livello, questo è un processo già in corso”. Si riferisce al programma atomico e alla possibilità che, in tempi relativamente brevi, l’Iran diventi una potenza nucleare. Quattordici giorni fa la Repubblica islamica ha spento ventisette telecamere dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica che servivano a monitorare le attività nelle centrali, a garantire che non ci fossero progetti militari in corso. Il giorno prima, una dichiarazione congiunta di Regno Unito, Francia e Germania aveva avvertito che l’Iran sta trasformando parte delle sue scorte di uranio in “materiale arricchito e irradiato”, che è un pessimo segnale perché “nessuna di queste attività ha una giustificazione per l’uso civile che sia credibile”.
Attraverso le immagini satellitari, l'intelligence israeliana e quella americana stanno guardando con molta attenzione il cantiere per scavare una rete di tunnel a sud della centrale di Natanz, in una zona desertica nel centro del paese, e dicono che si tratta del più importante progetto visto finora per costruire nuove strutture che possano ospitare centrifughe per l’arricchimento sotto le montagne, tanto in profondità da resistere anche alle bombe antibunker. In sostanza, sono gallerie capaci di resistere a un eventuale piano militare dell’aviazione israeliana per smantellare il programma atomico iraniano con la forza. Secondo gli esperti, nel momento in cui ci sarà la volontà politica di fare il passo, gli iraniani – dal punto di vista tecnico – sono pronti a portare l’arricchimento dell’uranio al novanta per cento (ciò che serve per la bomba) in poche settimane.
I colloqui sul nucleare iraniano cominciati a Vienna a novembre si erano arenati, poi – una settimana dopo l’invasione russa dell’Ucraina – la finestra per tornare all’accordo si è riaperta e le condizioni sembravano propizie: per rendere possibile un embargo europeo sul gas russo e far fronte all’aumento del prezzo dell’energia, gli Stati Uniti avevano appena alleggerito le sanzioni contro il Venezuela. L’Iran è il quarto paese al mondo per dimensione dei giacimenti e quel petrolio – con l’accordo – sarebbe automaticamente tornato sul mercato.
Fin da quando era candidato alla Casa Bianca, Joe Biden aveva promesso di resuscitare il Jcpoa, l’accordo voluto da Barack Obama e stralciato da Donald Trump: un accordo che ha molti nemici negli Stati Uniti, anche tra i parlamentari democratici. Il documento con il nuovo Jcpoa – per quanto riguarda le questioni di merito – è pronto da tempo, e chiuderlo mentre l’attenzione generale era concentrata sui crimini commessi da Vladimir Putin in Ucraina sembrava più semplice (politicamente) che in altre fasi. Ma quella finestra di opportunità si è già richiusa, come hanno fatto capire sia l’inviato speciale dell’Amministrazione Biden Robert Malley sia la delegazione iraniana: il governo di Naftali Bennett si è dissolto proprio nel momento in cui gli iraniani accelerano il programma atomico, comportandosi come se l’accordo non fosse più sul tavolo, e si preparano per affrontare un’escalation con Israele.
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