I fronti della guerra
L'offensiva russa procede con le torture nei campi di smistamento
I sopravvissuti ai centri delle deportazioni raccontano le botte e le perquisizioni. Le parole per salvarsi, la barba e i tatuaggi
La linea del fronte nel Donbas si muove poco, non c’è ancora stato il colpo del “knockout” da parte dei russi, nonostante la riorganizzazione militare voluta da Vladimir Putin sia stata avviata da due mesi. Questo non significa che il colpo non arriverà, ma nel frattempo il morale basso degli ucraini di cui si è molto discusso è già meno basso e la capacità di adattamento alle nuove tattiche militari cresce. Il governo di Kyiv aspetta le armi fornite dall’occidente, ma mentre noi ci interroghiamo su queste commesse Putin procede con il suo manuale di guerra: colpire civili indiscriminatamente in tutto il paese e annientare il popolo ucraino con la violenza delle deportazioni e delle torture. Lo dimostrano le ultime testimonianze pubblicate in questi giorni dal New York Times e dalla Bbc: a parlare sono i sopravvissuti dei cosiddetti “campi di smistamento” gestiti dai russi.
Secondo le autorità ucraine, la deportazione e le torture sono una tattica pianificata in anticipo per sottomettere le aree ucraine conquistate (e poi per annetterle). Poiché le conquiste non sono sempre durevoli, come dimostra la battaglia di Kherson, i russi cercano di portare via più cittadini ucraini possibili perché potrebbero organizzare la resistenza: “O vieni con noi o ti uccidiamo è la frase che dà inizio alla procedura”.
Le testimonianze raccolte dalla Bbc riguardano il campo di smistamento di Benzimenne, nell’oblast di Donetsk, nel Donbas: Andriy, 28 anni, è andato via da Mariupol, sapeva che i russi lo avrebbero schedato e perquisito, perciò prima di partire aveva cercato di cancellare tutti i messaggi e i post sui social riguardanti la guerra ma la rete non funzionava bene e quindi non era riuscito a eliminare ogni cosa. Ripensandoci, mentre era in coda per i controlli, ha pensato: “Sono fottuto”. Non si sbagliava: la sua barba ha fatto pensare ai militari russi che Andriy fosse del battaglione Azov, è finito nel tendone degli interrogatori, gli hanno mostrato un post su Instagram in cui scriveva di essere fiero di avere un presidente come Zelensky: “Ci avevi detto che non ti interessavi alla politica”, gli ha detto un russo, “ma sostieni il governo nazista”. E’ arrivato il primo colpo alla gola, l’inizio del pestaggio.
La storia di Andriy è simile a quella di Dmytro, al quale è stato chiesto cosa pensasse degli “eventi del 2014”. Lui ha risposto una cosa generica, che quegli eventi erano conosciuti come parte della guerra russo-ucraina. Quattro colpi in faccia: Dmytro dice che sembrava quasi una procedura, come se esistessero delle tabelle in cui a ogni frase pronunciata corrispondono pugni, calci, schiaffi. La risposta giusta, che Dmytro è stato costretto con la forza a ripetere, era: “La Russia non era coinvolta in quegli eventi, era una guerra civile ucraina”. Ma il motivo per cui è stato smistato è un altro: un libro che aveva nello zaino aveva una “H” nel titolo. “Ti abbiamo beccato!”, gli hanno detto i militari, quella “h” indicava che stesse leggendo un libro su Hitler, per cui l’operazione di denazificazione diventava necessaria.
Maksym ha invece avuto l’ardire di rispondere nel modo non corretto a una domanda semplice: perché vuoi andartene da Mariupol? Maksym, quarantottenne, operaio nel settore dell’acciaio un tempo florido, era nudo, stavano controllando se avesse ferite (prova che aveva combattuto) o tatuaggi (prova di appartenenza a chissà quale setta) quando ha risposto: “Veramente siete voi a essere sul territorio ucraino”. Un colpo al torace, l’aria che manca, meglio svenire a terra o almeno vedere dove mi portano? La destinazione era una cella, dove uno era tumefatto: aveva un tatuaggio di Poseidone che è stato preso per il tridente ucraino. L’obbligo era di rimanere in piedi per ore: se ti accasciavi, ti rimettevano in piedi a calci.
I sopravvissuti che hanno raccontato queste storie sono stati smistati in territorio russo ma poi sono riusciti a scappare e vivono ora nei paesi europei. In Estonia c’è una nave da crociera ancorata che si chiama Isabelle: oggi è un centro di accoglienza, a volte si rincontrano famiglie che erano state divise proprio nei centri di smistamento. Parlano solo di quando torneranno a casa.