assalto al campidoglio
Tre testimoni raccontano come Trump ha cercato di ribaltare l'esito del voto
Nella quarta udienza sui fatti del 6 gennaio vengono mostrate molte prove molto chiare. Tutto sta a sapere se il Dipartimento di Giustizia deciderà di istruire un processo vero. Le pressioni fatte dall'ex presidente e di Ryudy Giuliani e una caramella alla menta
Non importa cosa abbia o non abbia fatto Donald Trump. In genere, nelle inchieste che lo hanno coinvolto, dal RussiaGate fino al secondo impeachment, è sempre riuscito a salvarsi: vuoi perché mancava la prova regina che potesse condannarlo, vuoi perchè non c’erano i voti necessari a destituirlo, vuoi perchè questo, vuoi perchè quello, Donald Trump è sempre riuscito a sgusciare via dalle mani di chi gli dava la caccia. Perché con lui non importa quanti quintali di prove hai. Contano sempre e solo quelle che non hai.
L’inchiesta della Commissione del Congresso sui fatti del 6 gennaio però sembra decisa a non lasciarsi sfuggire niente e a inchiodare Donald Trump alle sue responsabilità di ispiratore (se non architetto) di un tentato colpo di stato e di un tentato sovvertimento dell’ordine democratico in America.
Di prove, per ora, la Commissione ne sta mostrando molte e tutte molto chiare; tutto sta a sapere se saranno quelle giuste e se il Dipartimento di Giustizia deciderà poi di istruire un processo vero.
Nel corso della prima udienza abbiamo sentito l’ex procuratore Bill Barr dire che l’idea di Trump per cui le elezioni erano state rubate era ‘una stronzata’; nel corso della seconda udienza abbiamo sentito l’ex presidente della campagna Trump 2020 dire che Rudolph Giuliani era fuori controllo e che voleva che Trump dichiarasse la vittoria a poche ore dall’inizio dello spoglio; nella terza udienza abbiamo visto come e quanto Trump abbia provato a fare pressione su Mike Pence; nella quarta, cioè in quella di ieri, la commissione si è concentrata sui tentativi di Trump di ribaltare l’esito del voto.
A raccontarci come sono stati tre testimoni: due politici (repubblicani, entrambi) e una persona assolutamente normale, finita per puro caso nel tritacarne della propaganda trumpiana.
ll primo, Brad Raffensperger nel 2020 era il Segretario di stato della Georgia, quello che ricevette da Donald Trump la celebre telefonata nella quale gli si diceva, con semplicità disarmante (“come se stesse chiedendo una tazza d’acqua” scrive CNN) di trovargli 11mila voti per ribaltare l’esito dello stato. Solo che quei voti, semplicemente non c’erano. E Raffensperger impiego 67 minuti al telefono con Trump per dire che se non c’erano non si potevano fabbricare.
Una richiesta analoga fu fatta da Rudy Giuliani a Rusty Bowers, il secondo testimone: all’epoca delle elezioni era Presidente della Camera dell’Arizona. Giuliani gli disse di avere “molte teorie sul fatto che le elezioni erano state rubate, ma nessuna prova”. Alcuni giorni dopo gli fu chiesto di invalidare un numero di voti sufficiente a ribaltare l’esito delle elezioni. Ma Bowers rispose di no: “Non intendo vincere barando, non intendo violare il mio giuramento sulla Costituzione”.
Ma la testimonianza più significativa di tutte, forse, è stata quella di Shaye Moss: un’impiegata dell’ufficio elettorale della contea di Fulton (quella di Atlanta); lei Donald Trump non lo ha mai visto in vita sua. Così come non ha mai visto Rudy Giuliani. Eppure, per un caso beffardo Moss è finita al centro di una delle più crudeli teorie del complotto che circolano sul voto del 2020.
Mentre stava facendo il suo lavoro, cioè contare i voti, si scambiò con una volontaria (che era sua madre) un oggetto che aveva l’aspetto di un piccolo parallelepipedo. Le telecamere presenti nell’ufficio ripresero, ovviamente, la scena. Giuliani e i suoi montarono un caso, sostenendo che le due si fossero scambiate una chiavetta USB con migliaia di voti falsi. Da quel giorno, e da quell’intemerata di Giuliani, la vita di Moss è praticamente finita: non passa giorno senza che lei, sua madre e sua nonna non vengano minacciate di morte, aggredite, insultate.
Alla richiesta della commissione su cosa fosse quel parallelepipedo Moss ha risposto con un filo di voce: “Una caramella alla menta”.