In Scandinavia non ci sono più Istituti Confucio. In Italia invece aumentano

Chiusa la collaborazione con l'Università di Helsinki

Giulia Pompili

La vicerettrice dell’università della capitale finlandese ha detto: “Vogliamo scegliere i nostri insegnanti e fargli noi stessi dei contratti. Vogliamo anche che l’insegnamento della lingua cinese sia basato sulla ricerca”.

L’ultimo Istituto Confucio esistente nella penisola scandinava chiuderà a gennaio 2023. L’Università di Helsinki, in Finlandia, che ospitava sin dal 2007 un Istituto Confucio in collaborazione con la Renmin University cinese, la scorsa settimana ha pubblicato un avviso sul suo sito internet: il corso non verrà rinnovato. Dal prossimo anno accademico, chiunque volesse studiare mandarino all’Università di Helsinki lo potrà fare, ma con insegnanti formati e selezionati dallo stesso ateneo. La vicerettrice dell’università, Hanna Snellman, ha detto alla tv statale finlandese Yle: “Vogliamo scegliere i nostri insegnanti e fargli noi stessi dei contratti. Vogliamo anche che l’insegnamento della lingua cinese sia basato sulla ricerca”. E poi: “Dobbiamo rafforzare le competenze in lingua cinese poiché c’è un bisogno più grande che mai”. Secondo quanto riportato da Euractiv, una delle motivazioni dietro la chiusura c’è proprio il metodo d’insegnamento che scivola spesso nella censura e nella propaganda. I docenti dei Confucio, finanziati  dal governo cinese, insegnano direttamente dentro alle università e non, come funziona per  altri istituti di cultura come il British Council o il Goethe Institut, in corsi privati e indipendenti. Negli ultimi anni, i Confucio sono stati accusati di aver portato avanti il soft power cinese rendendo interi dipartimenti accademici tecnicamente dipendenti dai finanziamenti di Pechino. E questo limita, ovviamente, la libertà accademica, soprattutto su quel che riguarda il dibattito sull’attualità e sui temi sensibili per Pechino. All’interno delle università dell’Ue ne sono stati chiusi decine – nel 2020 hanno chiuso quelli delle università in Svezia e Danimarca, nel 2021 in Norvegia – e in America ne sono rimasti soltanto 18. 


Ma il problema non è solo la censura accademica e la propaganda. Nella capitale della Finlandia l’Istituto Confucio della più importante università di Helsinki era sotto osservazione già da almeno tre anni. Nel 2019 le autorità del Belgio hanno vietato l’ingresso nell’Area Schengen per otto anni al professore cinese Song Xinning, che all’epoca era l’ex direttore dell’Istituto Confucio alla Vrije Universiteit Brussel e negli anni precedenti aveva lavorato in quello dell’Università di Helsinki. L’accusa era: spionaggio e supporto all’intelligence cinese. Qualche mese dopo, la Vrije Universiteit aveva annunciato la chiusura definitiva del suo rapporto con l’Istituto Confucio. L’anno successivo, il tribunale belga che si occupa di diritto degli stranieri, a cui si era appellato Song, aveva annullato il provvedimento dichiarando inconsistenti le accuse di spionaggio delle autorità. Fu un caso molto discusso, perché certe attività d’informazione non solo sono difficili da dimostrare, ma spesso sono del tutto legali, soprattutto se non si tratta di informazioni sensibili. E’ per questo che le attività degli Istituti Confucio dentro agli atenei sono ancora più complicate da controllare, e le università ormai preferiscono mantenere  collaborazioni con le università cinesi a un livello più formale. 


L’Italia è uno dei pochissimi paesi in cui gli Istituti Confucio, invece di chiudere, aumentano, almeno nelle loro forme più soft come le Aule Confucio, arrivate perfino nelle scuole medie e superiori. Eppure il dibattito sull’influenza cinese nell’istruzione e l’accademia italiana è fermo. A fine marzo Chen Zhen, docente a contratto del Politecnico di Milano, ha fatto una lezione non richiesta a uno studente di Taiwan spiegandogli  che non avrebbe dovuto definirsi “di Taiwan”, ma cinese. All’inizio della settimana il Collegio di disciplina del Politecnico ha fatto sapere che il docente è stato “sanzionato”. Quell’episodio era finito online, ed era diventato un caso mediatico. Nell’accademia italiana ce ne sono molti altri (lezioni saltate, dibattiti fermati, parole cancellate) di cui nessuno ha voglia di parlare. 
 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.