Benvenuta, Ucraina. L'Ue ha aggiunto un posto a tavola (anzi due)
Ci sono voluti 120 giorni di guerra per convincere gli europei a dare forma all’aspirazione del governo di Kyiv di appartenere alla nostra famiglia. Una storia che parte dal 2014, ieri è arrivata la “decisione storica” dell'Unione europea
"Il nostro sogno è stare con tutti gli europei e soprattutto di essere uguali a loro”, aveva detto Volodymyr Zelensky il 28 febbraio scorso, firmando la richiesta di adesione all’Unione europea davanti ai sacchi di sabbia al pian terreno del suo palazzo, mentre la periferia di Kyiv era assediata dai soldati russi e l’Ucraina sembrava sul punto di cadere. L’invasione della Russia in Ucraina era al suo quarto giorno e noi europei ancora non sapevamo – anzi: non avevamo capito – di che resistenza e forza erano, sono fatti gli ucraini. Li avevamo lasciati nel 2014, quando il primo atto della guerra di Vladimir Putin si era compiuto con l’annessione illegale della Crimea e l’occupazione del Donbas. In occidente allora si litigava persino sulle responsabilità della Russia, ché Putin non ammetteva che ci fossero i suoi soldati a occupare l’Ucraina: c’erano gli omini verdi. Ancora oggi agli ucraini deportati in Russia viene chiesto: cosa è successo nel 2014? La risposta giusta è: una guerra civile ucraina, se citi la Russia iniziano le botte. Ecco, noi europei nel 2014 litigavamo sulle responsabilità della Russia, mentre Putin negava il suo coinvolgimento in Ucraina e intanto dava medaglie al valore dimostrato in Donbas a militari regolarmente arruolati nell’esercito russo. Li avevamo lasciati nel 2014, gli ucraini, con un paese che non aveva più gli stessi confini che aveva da quando era diventato indipendente nel 1991, con un fronte di guerra aperto in Donbas, con una tregua pericolante negoziata attraverso gli accordi di Minsk, siglati nel settembre del 2014 e poi aggiornati ma sempre fragilissimi nel febbraio del 2015.
Gli occhi altrove. Nel 2015, a un anno dalla fuga dell’allora presidente ucraino Viktor Yanukovych dopo le proteste filoeuropee del Maidan – che vuol dire piazza ma in Ucraina è usato come se da allora non ce ne fossero altre, di piazze – le cronache parlavano già del “senso di abbandono” degli ucraini. C’erano state delle sanzioni, c’erano stati degli invii di armi, c’era stato il tentativo di difendere l’Ucraina con ogni mezzo dall’aggressione di Putin, ma gli occhi erano già altrove. Nel febbraio del 2015, ci eravamo fatte raccontare da Matthew Kaminski, oggi direttore di Politico America, com’era l’umore in Ucraina dopo un anno di guerra e di prove di pace: Kaminski, che quelle zone le conosceva e le aveva raccontate su molte testate internazionali, ci aveva detto che Europa e Stati Uniti avrebbero dovuto rendersi conto che “è in corso una guerra e che Putin è un presidente di guerra, e questo lo ha reso di nuovo popolare nel suo paese: è riuscito a convincere i russi di essere sotto attacco dell’occidente, e così il suo consenso è tornato enorme”. Kaminski precisava che non aveva nemmeno senso definire quel che stava accadendo come “la crisi ucraina”: non è l’Ucraina in crisi, “è che c’è stata un’invasione”. Un altro elemento di quella conversazione risuona oggi in modo sinistro e riguarda il dibattito che già ci fu allora per inviare armi a Kyiv: “L’occidente non vuole prendere atto del fatto che la Russia, uno stato nucleare, ha invaso l’Ucraina, c’è stata un’aggressione e Putin non tornerà indietro – diceva Kaminski – ma l’Europa e gli Stati Uniti continuano a non affrontare la realtà: Kyiv non ha bisogno di armi per aggredire la Russia, ne ha bisogno per difendersi dalla Russia”. Il giornalista, che è nato in Polonia ed è andato con la famiglia in America negli anni Ottanta, parlava anche di quale potesse essere l’esito della guerra: era appena rientrato da Kyiv, gli aggettivi che più utilizzava erano “esausto” e “deprimente”. “Il finale sarà brutto – concludeva Kaminski – Bisogna capire per chi sarà più brutto, se per gli ucraini o per i russi”. E già allora non serviva inoltrarsi per le strade di Kyiv, sentire la disillusione a ogni angolo o sperare che chi, tra coloro che erano nel Maidan un anno prima, diceva “siamo più forti perché siamo nel giusto” avesse ragione, per sapere che “il finale brutto” sembrava ancora una volta sulle spalle dell’Ucraina.
Nel 2014 l’occidente non volle prendere atto del fatto che la Russia avesse aggredito e invaso l’Ucraina
La cosiddetta pace di Minsk. L’11 febbraio del 2015 era stato siglato l’accordo di Minsk 2, quello del cessate il fuoco cui ancora oggi si fa riferimento quando si parla di possibili condizioni per la pace con Putin. Della nottata di negoziati ci erano rimasti: gli occhi stanchi dell’allora cancelliera tedesca Angela Merkel, l’aria preoccupatissima dell’allora presidente ucraino Petro Poroshenko, le risate oscene di Putin assieme al suo sodale, nonché padrone di casa, Aljaksandr Lukashenka. Il cessate il fuoco era previsto per il 15 febbraio, quattro giorni dopo l’accordo. Nei giorni successivi, i giornalisti che lavoravano in Ucraina raccontavano che a Debaltseve, lo snodo ferroviario vicino a Donetsk che era diventato il simbolo della battaglia più recente, la tregua era durata in tutto quaranta minuti. C’era chi aggiungeva che il cessate il fuoco valeva dappertutto, tranne che a Debaltseve, la cui conquista per i separatisti era “una questione morale, non abbiamo il diritto di smettere di combattere”. Il colonnello Andriy Lysenko, un portavoce dell’esercito di Kyiv, aveva dichiarato che i separatisti avevano colpito “88 volte” le loro postazioni soltanto in un giorno (di tregua). Stando a un video allora trasmesso dall’emittente russa Life News (era una tv vicina al Cremlino: secondo i servizi segreti ucraini si trattava di un’organizzazione paramilitare, nemmeno su questo fronte, quello dell’informazione, è cambiato molto), almeno ottomila soldati ucraini erano intrappolati nelle vicinanze di Debaltseve, perché l’unica strada d’accesso era controllata dai separatisti che avevano annunciato di aver circondato le forze ucraine. I separatisti sostenevano che molti di questi soldati si erano già arresi, che altri erano scappati, che altri ancora erano stati uccisi. Poroshenko smentiva, ripeteva che Debaltseve era ancora sotto il controllo dell’esercito ucraino, ma entrambe le parti avrebbero dovuto iniziare il ritiro dell’artiglieria pesante dalla linea del fronte, e nessuno l’aveva fatto. Bisognava valutare i dettagli assieme agli osservatori dell’Osce che erano entrati nel paese sempre in seguito agli accordi firmati a Minsk e ai quali però era vietato l’accesso a Debaltseve: molti di questi funzionari erano dovuti scappare dall’est ucraino, erano stati rinchiusi in caserme o altri locali e poi lasciati uscire soltanto con la promessa di non farsi vedere mai più, proprio come è accaduto, in forme ancora più violente, nel marzo scorso.
Un cambiamento: l’esercito. Quando Putin ha iniziato l’invasione dell’Ucraina pensava, e noi con lui, che non avrebbe incontrato troppa resistenza. Aveva sottovalutato il carattere ucraino, ma anche il fatto che le forze militari di Kyiv non erano quelle del 2015, che cioè come si diceva brutalmente anche dalle nostre parte, non si sparavano più sui piedi. Qualche settimana prima dell’invasione russa, il capo di stato maggiore ucraino, il generale Valery Zaluzhny, aveva detto che il suo esercito era pronto ad “accogliere il nemico non con i fiori, ma con gli Stinger, i Javelin e le armi anticarro. Benvenuti all’inferno!”. Zaluzhny, 48 anni, padre di due figli, originario dell’oblast di Zhytomyr colpita con violenza, nel 2014 aveva partecipato alle operazioni di difesa contro i russi nel Donbas. Quando l’Ucraina era parte dell’Urss, le truppe erano integrate e addestrate nell’armata sovietica. Zaluzhny fa parte della prima generazione di soldati cresciuti nella stagione in cui anche l’esercito ha preso le distanze dalla russificazione e ha cercato di orientarsi verso il modello occidentale. E’ Zaluzhny, grande sostenitore dell’appartenenza dell’Ucraina alla famiglia europea, che ha supervisionato la modernizzazione dell’esercito, rendendolo interoperativo con l’Alleanza atlantica e imparando a utilizzare armi ed equipaggiamenti forniti dai paesi occidentali. L’esercito ucraino, grazie anche ai 2,7 miliardi di dollari in assistenza militare da parte degli Stati Uniti (ricorderete che Donald Trump sospese questi fondi pretendendo da Zelensky un’indagine contro il figlio di Joe Biden: Trump finì all’impeachment per questo), è molto diverso da quello del 2014, anche se di base è molto meno tecnologico e meno equipaggiato degli eserciti della Nato. In più, quattrocentomila soldati, tra cui 13 mila soldatesse, in questi anni hanno fatto cicli di turni sul fronte del Donbas e questo ha permesso di aggiornare il proprio addestramento. E’ questo l’esercito che si deve difendere dalla guerra di Putin.
Secondo i dati dell’Unhcr, dall’inizio del conflitto sono morti oltre quattromila civili, almeno 229 bambini
121 giorni di guerra. Mentre gli americani, prima del 24 febbraio, ripetevano che la Russia avrebbe invaso l’Ucraina, il presidente Zelensky ripeteva: non create il panico, se arriveranno, saremo pronti. Se si domandava agli ucraini: avete paura? Rispondevano: la guerra c’è già, da otto anni. Oggi in molti ripetono che l’attacco russo che si aspettavano era molto diverso, era confinato al Donbas, e mai avrebbero davvero immaginato i missili contro Kyiv. Nonostante l’effetto sorpresa, la Russia ha rinunciato a molti obiettivi. Nei primi giorni della guerra i russi puntavano alla capitale, dove prendere Zelensky e insediare un governo fantoccio. Non ci sono riusciti, nonostante i tanti sabotatori mandati per le strade della capitale, che gli ucraini chiamano “gli scarafaggi”. Il fattore umano è stato determinante finora: gli ucraini combattono per la loro patria, i russi non sanno per cosa. Kyiv ci ha stupiti per l’arte di trasformare la guerra in slogan, l’impossibile in possibile, tutto con ironia, la tragedia si raccontava da sola, come di fronte agli orrori di Bucha. La prima battaglia che gli ucraini hanno vinto ribaltando le sorti della guerra è quella per l’aeroporto di Hostomel, che Mosca avrebbe voluto utilizzare per mandare mezzi e uomini diretti nella capitale. A inizio aprile, Mosca ha annunciato l’inizio dell’ “operazione di liberazione” del Donbas, che, tradotto, vuol dire: ritirata dal nord e da Kyiv. La grande offensiva contro la regione orientale è stata condotta parallelamente a quella a sud, dove la Russia è riuscita a chiudere l’accesso al mare d’Azov all’Ucraina, blocco completato con la fine dell’assedio di Mariupol, durato dal 24 febbraio al 20 maggio. Nel Donbas la Russia ha iniziato a trasformare il conflitto in una guerra lenta, di logoramento che ha il duplice obiettivo di sfiancare Kyiv e di allontanare l’attenzione degli occidentali. Per questo gli ucraini continuano a dire: abbiamo bisogno soltanto di tre cose: armi, armi, armi. La frase che si sente ripetere più spesso è che “sarà una guerra lunga” e le conseguenze le stiamo vedendo ovunque, non soltanto in Ucraina, con la guerra che ha prodotto 8 milioni di profughi scappati nei paesi vicini e altri 8 milioni sfollati nel loro paese. Secondo i dati dell’Unhcr, dall’inizio del conflitto sono morti 4 mila civili, almeno 229 bambini. La conseguenza diretta sul mondo intero è la carenza di grano generata dal blocco del mar Nero voluto dalla Russia.
Cenni di Europa dentro l’Ucraina. L’olio di semi di girasole è il simbolo dei rapporti commerciali tra l’Unione europea e l’Ucraina: grazie all’accordo di libero scambio, i dazi sull’olio sono stati tolti e le esportazioni verso l’Europa sono più che raddoppiate, e nel 2020 valevano 1,2 miliardi di euro. Il Deep and Comprehensive Free Trade Area (Dcfta), che fa parte dell’Association Agreement, fu la causa scatenante della crisi del 2013, che portò alle proteste del Maidan e alla fuga di Viktor Yanukovych. L’accordo fu poi firmato nel 2014, ma è entrato pienamente in vigore soltanto nel settembre del 2017, dopo la ratifica di tutti gli stati europei. Secondo i dati ufficiali dell’Ue, il mercato europeo è il più grande partner di riferimento dell’Ucraina, vale il 40 per cento dei suoi scambi commerciali per un valore di 43,3 miliardi di euro (nel 2019). Le esportazioni dei principali prodotti ucraini – ferro, acciaio, prodotti minerari, agricoli e chimici, e macchinari – sono quasi raddoppiate dal 2016 al 2019 e le aziende ucraine che hanno scambi con l’Ue sono passate da circa 11.700 a 14.500; anche le esportazioni europee verso l’Ucraina, soprattutto macchinari, prodotti chimici, mezzi di trasporto e prodotti manifatturieri, sono raddoppiate. Per avere questo accesso al mercato europeo, l’Ucraina ha dovuto rivedere i propri standard, soprattutto nel comparto agricolo, e ha progressivamente attuato un’armonizzazione del suo sistema economico in materia di competizione, smantellando pezzo a pezzo quel che restava del modello sovietico. Per stimolare queste riforme, l’Ue ha dato un sostegno diretto a centomila aziende ucraine medio-piccole e diecimila aziende agricole e ha partecipato alla modernizzazione dell’infrastruttura tecnologica. L’europeizzazione dell’Ucraina è passata anche attraverso gli undicimila e cinquecento studenti che dal 2015 sono venuti in Europa a fare l’Erasmus.
La visita a Kyiv di Draghi, Macron e Scholz ha cambiato tutto il dibattito europeo sulla candidatura
La freddezza sull’allargamento. L’ultimo paese a entrare in Europa è stata la Croazia, nel 2013. Le procedure di adesione dei Balcani sono di fatto congelate, quella controversa della Turchia è un tabù. Quest’ultimo decennio è stato per i paesi già membri dell’Ue molto complicato, c’è stato addirittura il primo divorzio, quello inglese, c’è stata la crisi greca con la Grexit che ha aleggiato sul continente per molto tempo, c’è stata l’ascesa dei movimenti e dei partiti nazionalisti che hanno fratturato il progetto europeo dall’interno. L’esperienza con alcuni paesi dell’est, come la Polonia e l’Ungheria, ha sedato ulteriormente le ambizioni di allargamento, perché nonostante anni di riforme e di armonizzazioni ci si è ritrovati con un blocco di paesi apertamente ostile nei confronti delle regole e degli ideali europei. Sappiamo che le forze esterne, a partire da quelle russe, hanno approfittato di questo momento di crisi per offrire alternative ideali (non fattive né finanziarie) ai paesi più riluttanti e questo non ha fatto altro che deprimere la voglia di invitare qualcun altro a entrare. Il dibattito sull’allargamento ha un significato molto profondo per l’identità del progetto europeo: non c’è soft power più potente della capacità dell’Ue di attirare popoli e nazioni e di unirsi a loro, integrarli, rispettandone le diversità. Se l’Ue rinuncia a questo suo soft power, fa un torto non soltanto ai corteggiatori ma anche al significato stesso della sua evoluzione da alleanza economica ad alleanza politica, sociale e culturale. La paura dell’Ue di non avere la forza di tenere tutti insieme ha però avuto il sopravvento in questi mesi. Tra i leader europei c’è stato chi ha sostenuto che accelerare il processo di adesione dell’Ucraina avrebbe potuto creare molto discontento. Attualmente sono cinque i paesi che attendono e che hanno lo status di candidato: Albania, Repubblica della Macedonia del nord, Montenegro, Serbia e Turchia e in questi anni alcuni di loro hanno cercato di fare di tutto per vedersi garantire l’accesso nell’Ue. La Macedonia del nord ha dovuto trovare un compromesso con la Grecia sul nome della nazione e questo ha scatenato proteste molto forti. Ora, a bloccare l’ingresso della Macedoania del nord, e anche dell’Albania, è la Bulgaria per questioni linguistiche e storiche. Il governo di Sofia, guidato dal partito anticorruzione di Kiril Petkov, è stato sfiduciato proprio per questioni legate all’allargamento: Petkov aveva adottato posizioni possibiliste nei riguardi di Skopje e di Tirana – aveva anche cambiato linea sulla Russia, portando un paese tradizionalmente filorusso a opporsi alla guerra di Putin, si teme che questo possa cambiare. Alcuni paesi hanno aspirazioni europeiste più determinate di altri, che invece rimangono sibillini. La Serbia, per esempio, non ha mai chiarito la sua ambiguità, dice di voler entrare nell’Ue, ma la sua amicizia con Russia e Cina sembra più forte delle sue simpatie europee: avete presente le manifestazioni con la Z, simbolo dell’aggressione russa in Ucraina, per le strade di Belgrado? Ecco, questo non ha incoraggiato gli europei a spalancare le braccia a Belgrado. Poi ci sono i potenziali candidati come la Bosnia Erzegovina, che in questi ultimi mesi teme il ritorno della violenza e degli scontri etnici. Tutti questi paesi nel vedere l’Ucraina passare avanti, potrebbero sentirsi traditi, potrebbero domandarsi: serve proprio una guerra per essere definiti europei?
La moral suasion di Draghi. Al centotredicesimo giorno di guerra, Mario Draghi, Emmanuel Macron e Olaf Scholz sono andati a Kyiv a incontrare Zelensky – con loro c’era anche il presidente romeno Klaus Iohannis, ma per lui non era la prima volta. I tre leader dell’Europa occidentale erano attesi nella capitale ucraina con la preoccupazione di dover subire pressioni sull’accettare condizioni che di fatto non salvano l’Ucraina dall’aggressione russa. Draghi, Macron e Scholz hanno fugato molti dubbi: la visita a Irpin, dove le tracce della brutalità dell’esercito di Putin sono ovunque e dove non è possibile credere ai termini anestetici con cui abbiamo preso a definire questa guerra sanguinosissima, ha reso chiaro, se ce ne fosse bisogno, qual è il compito dell’Europa. “Deve avere lo stesso coraggio che ha avuto Zelensky”, ha detto Draghi, che ha escluso “una pace forzata” che “non è realistica” e porta “a nuovi conflitti”. Il premier ha detto che il presidente ucraino non ha chiesto armi, ma “l’integrità territoriale” è la premessa ai negoziati, anche se “non si vedono margini o forse non li vedo io”, ha aggiunto, ricordando però che è in corso “un’iniziativa diplomatica mondiale che non c’era un mese fa”. Il coraggio è (anche) accogliere l’Ucraina nel consesso europeo: l’Italia era già a favore, a Kyiv lo sono diventate anche Francia e Germania, che erano state fino a quel momento riluttanti. Draghi ha ribadito che l’Italia “vuole l’Ucraina nell’Ue, vuole che abbia lo status di candidato e sosterrà questa posizione nel prossimo Consiglio europeo”, in corso in queste ore. Anticipando le solite recriminazioni sulle lungaggini europee, il presidente del Consiglio ha detto: “Zelensky sa che è una strada da percorrere, non solo un passo”. Macron ha così infine detto che “tutti e quattro i nostri paesi sosterranno lo status di candidato dell’Ucraina e nei prossimi giorni costruiremo l’unanimità dei 27”. Cosa che poi è avvenuta. Anche il sostegno della Germania all’adesione ucraina è una vittoria della strategia della persuasione di Draghi. Come per Macron è stato coniato un verbo che vuol dire: far telefonate inutili, per Scholz ce n’è uno che significa: fare promesse che non puoi del tutto mantenere. Il cancelliere tedesco ha una posizione piuttosto confusa, ha fatto grandi annunci anche dal punto di vista militare ma soltanto il 35 per cento di quel che ha promesso è arrivato a destinazione, ed esercita un freno consistente sull’embargo energetico. L’appoggio alla candidatura dell’Ucraina nell’Ue hanno marcato un cambiamento anche nel suo approccio. Il parere positivo della Commissione europea allo status di candidato per l’Ucraina è arrivato il giorno successivo al rientro dei tre leader europei nelle loro rispettive capitali. Per avviare i negoziati di adesione, in un processo che durerà molti anni, Kyiv dovrà rafforzare l’indipendenza della giustizia e gli organismi anticorruzione, attuare la “de-oligarchizzazione”, adottare la legge per la protezione delle minoranze. “Molto è stato fatto, ma rimane un importante lavoro”, ha detto von der Leyen. Nel suo parere, la Commissione ha insistito sulla “reversibilità” del processo. Se l’Ucraina dovesse fare passi indietro, “il Consiglio europeo potrebbe decidere di revocare lo status di candidato”, ci ha spiegato un funzionario europeo. La condizionalità e la reversibilità sono “un lucchetto alla porta d’ingresso”, aveva detto un diplomatico di uno dei paesi titubanti. Ma negli ultimi giorni si è costruita l’unanimità necessaria per aggiungere un posto a tavola (in ingresso) all’Ucraina.
Il governo di Sofia, guidato dal partito di Petkov, è stato sfiduciato proprio per questioni legate all’allargamento
Ricostruiremo tutto. Il premier Draghi, in visita in Ucraina, ha detto che ci sarà uno sforzo collettivo per la ricostruzione dell’Ucraina: mezzo paese non è in grado di funzionare. Zelensky, ha detto che ci vorranno 550 miliardi di euro per ricostruire il suo paese e il saggista americano David Frum ha scritto sull’Atlantic che “ricostruire l’Ucraina diventerà il più grande progetto europeo da quando la Germania dell’ovest ha assorbito la Germania dell’est all’inizio degli anni Novanta”. Il Centre for Economic Policy Research ha provato a fare alcuni calcoli (i costi possono solo aumentare nel frattempo visto che l’offensiva russa non si è fermata né tantomeno si è riorganizzata soltanto nell’est dell’Ucraina) e ha individuato una forbice di costi da sostenere che va dai 200 ai 500 miliardi di euro: il numero più alto è oltre tre volte il prodotto interno lordo dell’Ucraina prima dell’invasione di Putin; il numero più basso è più o meno quattro volte il budget europeo per gli aiuti internazionali. Il Vienna Institute for International Economic Studies ha stimato che le regioni afflitte dalla guerra valgono più o meno il 30 per cento della produzione del paese che è quindi andato perduto: il 30 per cento delle aziende ha chiuso, il 45 per cento ha dovuto ridurre la propria produzione. Secondo la Banca mondiale il pil annuo dell’Ucraina nel 2022 si ridurrà del 45 per cento. Il costo della guerra si preannuncia molto alto ma a Kyiv toccherà dover dimostrare di meritarsi gli aiuti necessari alla ricostruzione. Proprio come è accaduto dal punto di vista militare – l’Ucraina ha dovuto dimostrare di essere in grado di resistere a quella che pareva l’armata russa invincibile e poi di saper imparare in fretta a maneggiare armi fornite dagli alleati occidentali – anche sulla ricostruzione grava la cattiva fama del paese. Sentiremo spesso dire: siete sicuri di dare a uno dei paesi più corrotti del mondo, con una sistema di potere oligarchico proprio come in Russia, tutti i nostri soldi? Poiché questo avverrà quando le bollette saranno aumentate e l’inflazione pure, la questione diventerà molto problematica: già non si voleva morire per Kyiv, figurarsi se si vorrà dar loro fondi che non sanno nemmeno gestire nel modo giusto, corrotti come sono. Alla ricostruzione fisica l’Ucraina dovrà appaiare anche una ricostruzione istituzionale, fatta di maggiore trasparenza e di maggiore controllo. Questa in realtà potrebbe essere anche l’occasione per il paese di costruire anche la sua membership europea: dovendo rifare parte delle ferrovie, per dire, conviene farle già secondo gli standard previsti dall’Ue. Nelle dispute commerciali si potrebbero già utilizzare le regole europee, che darebbero anche più certezza agli investitori stranieri. E via così. In questo modo il paese distrutto dalla guerra di Putin diventerebbe nel suo post guerra il candidato perfetto per entrare e prosperare dentro l’Unione europea.
La Nato e la rivoluzione di Madrid. L’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia ha avuto come conseguenza anche una rivoluzione radicale all’interno della Nato. Sia la Russia sia la Cina guardano con preoccupazione alla tre giorni della prossima settimana, il 28, 29 e 30 giugno, quando al Summit di Madrid l’Alleanza atlantica svelerà tutte le trasformazioni in programma per rafforzare la Difesa comune. “Abbiamo deciso di rendere più forte l’Alleanza”, ha detto a un evento organizzato da Politico, l’altro ieri, il segretario generale Jens Stoltenberg. “Sta aumentando la competizione tra democrazie e autoritarismi. Mosca e Pechino contestano apertamente l’ordine internazionale basato sulle regole. Terrorismo e proliferazione nucleari, attacchi informatici e catastrofi climatiche, tutto ciò influisce sulla nostra sicurezza. E di fronte a questa nuova realtà, la Nato si sta adattando”. Una delle giornaliste più informate sulle vicende di sicurezza, Deborah Haynes, ha detto su Sky news che prima del 24 febbraio i trenta paesi membri della Nato faticavano ad approvare qualsiasi tipo di cambiamento in termini di strategia di difesa. Poi tutto è cambiato all’improvviso. Il Summit di Madrid sarà una cornice per un “cambiamento radicale della postura Nato”. L’obiettivo è quello di esercitare una deterrenza efficace e convincere quindi Putin a non attaccare nessuno dei paesi dell’Alleanza (“La Russia dovrebbe interpretarlo come: anche se ci provassero verrebbero spazzati via dalla terra nelle prime ore”, ha detto Kusti Salm della Difesa estone). Si parla di una espansione e di un rebranding dei 40 mila uomini di risposta immediata a disposizione della Nato, forse “sestuplicati”, dicono fonti di Sky. Ci saranno più truppe dislocate sul fianco orientale dell’Europa – proprio al confine con l’Ucraina: non necessariamente con nuove basi militari ma truppe di pronto intervento. Il Summit dichiarerà la Russia la “minaccia più importante e diretta” dell’Alleanza, e saranno disposti nuovi aiuti militari per l’Ucraina. Per la prima volta nella storia Australia, Giappone, Corea del sud e Nuova Zelanda parteciperanno a un Summit della Nato come partner – segnale evidente che la difesa collettiva è globale, e non regionale. Secondo alcune fonti, la diplomazia del Regno Unito in queste ore sta lavorando alacremente con la Turchia, l’unico ostacolo che resta per annunciare ufficialmente a Madrid l’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato. Sarebbe un messaggio potentissimo, che cambierebbe i rapporti di forza con Mosca (e Pechino).
Al vertice di Madrid della Nato si compirà un’altra trasformazione epocale delle alleanze occidentali
In un lungo articolo sull’Atlantic in cui si racconta la generazione perduta dei giovani ucraini, Anna Nemtsova incontra alla fine un ragazzo di ventiquattro anni che ora abita a Kyiv. In tempi normali, in un’estate normale, ora sarebbe a casa sua a Mariupol, a trovare sua madre e sua sorella e ad andare in spiaggia nel fine settimana assieme a loro. L’ufficio in cui stanno conversando si affaccia sul Maidan, e Anton guardando quella piazza sembra intravvedere un senso di opportunità, la possibilità di ricostruire un’Ucraina nuova, quella sognata dalla sua generazione e delineata nel 2014 con le proteste in piazza, le bandiere europee, l’integrazione con l’occidente, l’ambizione di poter godere della libertà. L’apertura dell’Ue all’Ucraina, il primo passo della formalizzazione di questa aspirazione e di questa appartenenza, è la promessa del Maidan che finalmente, un pochino, viene mantenuta.
ha collaborato Giulia Pompili