che ne è dei pro choice

La sentenza della Corte e dieci anni di strategia repubblicana. Ma i democratici la vogliono nell'urna

Paola Peduzzi

È un raro caso in cui i perdenti vogliono parlare della sconfitta e i vincitori, che lavorano da decenni a vari livelli istituzionali al ribaltamento della Roe vs Wade, invece  vanno cauti sulla vittoria. Le scelte dell'establishment, Trump e la pressione sugli stati

I democratici americani vogliono sfruttare il ribaltamento della sentenza sull’aborto deciso dalla Corte suprema per mobilitare l’elettorato soprattutto femminile e soprattutto delle periferie alle elezioni di metà mandato, a novembre. I repubblicani invece, tranne qualche eccezione (Mike Pence, l’ex vicepresidente, per esempio), vogliono che si continui a parlare di inflazione e costo della vita in aumento: andiamo cauti, dicono.

 

E’ un raro caso in cui i perdenti – i democratici – vogliono parlare della sconfitta e i repubblicani, che lavorano da decenni a vari livelli istituzionali a questo ribaltamento, invece preferiscono tacere della vittoria. Gioiscono, certo, ma temono gli effetti di questo evento epocale sul proprio elettorato, che da anni si muove in modo poco lineare tra moderazione ed estremi. Fun fact, come dicono loro: Donald Trump, un newyorchese pro choice per buona parte della sua vita che ha nominato tre giudici della Corte suprema che hanno garantito il ribaltamento della Roe vs Wade e che sabato a un comizio ha detto che la sentenza di venerdì è “la vittoria della vita”, è il più cauto di tutti, dice che l’impatto sull’elettorato delle periferie potrebbe essere negativo e che è meglio lavorare a leggi restrittive sull’aborto ma che non lo vietano del tutto. Alle contraddizioni di Trump e dei repubblicani nei loro rapporti con il trumpismo siamo abituati, ma qui c’è di mezzo molto di più: un diritto che c’era e non c’è più.

  

Il progetto dei conservatori per ribaltare la Roe vs Wade è di lungo corso, Trump ha messo a punto l’atto finale ma con l’aiuto di alcuni architetti: uno fra tutti, Mitch McConnell. Il leader dei repubblicani al Senato impedì all’Amministrazione Obama di sostituire Antonin Scalia, morto all’improvviso nel febbraio del 2016, dicendo che bisognava aspettare il voto previsto per il novembre di quell’anno (269 giorni dopo il decesso del giudice conservatore): la Corte suprema deve essere lo specchio del paese. Le primarie erano appena iniziate, i democratici erano divisi tra Bernie Sanders e Hillary Clinton, i repubblicani non sapevano ancora che avrebbero consegnato il loro destino a Trump. I democratici non avevano la maggioranza, senza la collaborazione dei repubblicani non avrebbero portato a termine la nomina e la cortesia istituzionale pareva ancora uno strumento da salvaguardare. Lo stesso McConnell, quattro anni più tardi, organizzò la nomina alla Corte di Amy Barrett, scelta da Trump per sostituire Ruth Bader Ginsburg, che era morta a settembre di quell’anno elettorale, 46 giorni prima delle presidenziali del 2020. Lo specchio del paese tanto caro a McConnell, l’ambizione di avere una Corte suprema rappresentativa del paese, si deformò in un istante, così come si erano già deformati a poco a poco tutti gli altri strumenti istituzionali di check and balance (è appena un po’ ironico pensare che oggi Trump disprezza quella stessa Corte cui ha dato un contributo decisivo e permanente perché non ha voluto prendere in considerazione la pretesa di ribaltare l’esito delle elezioni del 2020).

 

La deformazione è l’arte di McConnell: dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio, i democratici chiesero di riaprire i lavori al Campidoglio in una sessione straordinaria per il  secondo impeachment di Trump. La Camera votò a favore del nuovo processo, ma McConnell fece in modo di rimandare la riapertura del Senato quando Joe Biden aveva già giurato come presidente degli Stati Uniti. “Non siamo un tribunale morale”, disse McConnell, salvo poi dire, dopo aver tatticamente votato contro il nuovo impeachment di Trump, che lui considerava il suo ex presidente “praticamente e moralmente responsabile” dei fatti accaduti il 6 gennaio (oggi Trump detesta anche McConnell).

 

L’arte della deformazione di McConnell ora si riverbera su tutto il partito nel momento in cui però non sono in discussione procedure senatoriali o equilibri di potere: c’è un diritto non più garantito, dopo cinquant’anni. Ed è in corso una selezione della nuova classe dirigente dei conservatori in vista delle elezioni di metà mandato, cosa che alla luce della sentenza sull’aborto diventa ancora più dirimente visto che la legislazione sull’interruzione di gravidanza viene demandata agli stati. Il Wall Street Journal, che è un quotidiano conservatore, ha fatto ieri un’anatomia delle scelte che i repubblicani devono prendere in questi mesi: fino a dove spingersi? Prevale l’idea di adottare un approccio graduale, di mantenere l’eccezione per i casi di incesto e di stupro, anche perché le rilevazioni dicono che la maggioranza degli americani preferisce questa strada. E’ quella che in realtà avrebbe preferito anche il presidente della Corte Suprema, John Roberts, a dimostrazione del fatto che il diritto all’aborto in America è venuto giù con un tonfo secco, ma è il frutto di una deformazione che nemmeno i repubblicani sono sicuri di saper maneggiare. E’ anche per questo che i democratici ora ambiscono all’impensabile: vincere nelle urne il dibattito sull’aborto.
 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi