Dal nostro inviato
Le sculture di Odessa, l'orrore e la memoria che invade il presente
Nello studio di Mikhail Reva, nella città ucraina, “in cui si viene per i palazzi e per le statue: per la leggenda, la mitologia”. Il groviglio di chiodi forgiati, memoria delle crocifissioni, ora è un monumento per Mariupol, dice l'artista al Foglio
Odessa, dal nostro inviato. Di mattina vado a prendere caffè e cappuccino al chiosco in mezzo al viale. C’è sempre un po’ di fila. Penso che tocchi a me, urto contro un tipo grande, con una bella faccia da lucumone sbarbato, ci scusiamo a vicenda, ci facciamo i complimenti, come succede fra stranieri benigni. Ho un appuntamento con Ugo Poletti e sua moglie, Antonina Semenova, mi hanno invitato allo studio di Mikhail Reva, nato nel 1960, scultore e pittore eminente in Ucraina e fuori. Ha studiato ed esposto a San Pietroburgo, a Mosca, a Roma, a New York…
Ha lavorato il marmo di Chiampo, con Angelo Farinon, stampa i suoi libri a Treviso…
Antonina farà da traduttrice e qualcosa di più, perché è a sua volta un’artista. Lo studio è vicino: Reva compare, mi vede e si mette a ridere – è il lucumone del cappuccino, come se fossimo amici da una vita. La prima sala ha una versatilità affascinante: si capisce che l’autore non intende tenere a bada il proprio piacere di maneggiare materie e ispirazioni.
C’è una magnifica noce di cocco fossile che fa da ripiano a una sedia dal telaio di metallo – indica un puntino immaginario nei ghirigori di una noce di cocco tagliata e lucidata, vecchia di milioni o centinaia di migliaia di anni: “Noi siamo qui”, e mi invita ad accomodarmici: mi esimo, ho appena urtato un bellissimo carapace di tartaruga le cui zampe e testa sono fatte di bottiglie trasparenti. Ride, e mi mostra che basta girarci attorno e la sedia si tramuta in un triciclo. Sulla parete di fronte c’è un lavoro di oreficeria a sbalzo, rame e oro: “L’altare dei sogni infantili”. Sono quelli che chiama “Esperimenti”. Ma accanto, da un piedistallo leggero si alza, quasi avvitandosi, un groviglio di chiodi forgiati, una “memoria delle crocifissioni”. “Ora è un monumento per Mariupol”. Nella seconda sala stanno sculture più imponenti e drammatiche. Specialmente, il bozzetto in bronzo e il gran gesso di un portale.
Trovo una familiarità: sono infatti di Reva molte delle sculture in cui mi sono imbattuto camminando per Odessa. La mela, il frutto proibito, nel Parco greco; l’Albero dell’amore e l’Ora di Odessa nel giardino di città; La dodicesima sedia – quella di Il’f e Petrov; la fontana “Sorgente della vita”; il monumentale Angelo della grazia, all’ingresso del centro per i bambini disabili; l’acrobatica “Più libri meno paura” davanti alla Biblioteca scientifica… “Una città in cui si viene per i palazzi e per le statue: per la leggenda, la mitologia”. Lui è prodigo di racconti come di sculture, ha un’energia, un entusiasmo addirittura – l’entusiasmo non si finge. Gli artisti si dividono in due tipi, un po’ come gli scrittori grassi e magri secondo Tomasi di Lampedusa: gli artisti che ho amato erano o silenziosi e come ritirati in sé, o contagiosamente espansivi. Reva è formidabilmente dei secondi.
E’ nato in Crimea, a sei anni è diventato abitante di Odessa, “cosmopolita, dunque”, e ora scava alla ricerca della spiegazione. Il parco Preobrazhensky qui accanto, dice, dove vai a passeggiare, non ne porta più nessun segno, ma era stato il primo e più grande cimitero di Odessa, centinaia di migliaia di defunti, di ogni popolo e di ogni fede, e negli anni 30 cancellato e ricoperto dal regime comunista e dalla sua Nkvd. Solo da poco si ricostruiscono i nomi dei sepolti. Sorte analoga toccò ancora negli anni 70 al cosiddetto Nuovo cimitero ebraico – ora è il parco dell’Artiglieria. Odessa conserva la sua trama di spirito ebraico, di storia greca e turca, di polacchi, di poeti, avventurieri e opportunisti: ma gli attori umani di quella mescolanza sono stati spesso spazzati via senza riparo. Gli abitanti di Odessa hanno a cuore il destino di ogni singolo mattone della città, dopo averne visto tante macerie.
Tutte le persecuzioni e tutte le sofferenze si sono avvicendate su questa terra. E ora la storia si ripete. C’è una guerra fra lo spirito di libertà e di schiavitù. Non c’è una persona normale che voglia rinunciare alla libertà per tornare a essere schiavo, la Russia lo sta imparando.
Reva è una forza della natura, di quella natura che bisogna seguire, dice, non imitare. Il Covid l’aveva fermato, con l’intera famiglia, in un villaggio di mare del Messico. Ci è rimasto per due mesi e mezzo, e ne ha tratto, ciottoli conchiglie o utensili – una pennellessa da imbianchino le cui setole sono chele di aragoste – una moltitudine di manufatti di cui le persone si rallegravano come di qualcosa che era lì da sempre e non si era rivelata. Mikhail, figlio di un capitano di lungo corso e già allievo di collegio nautico anche lui e imbarcato, ne ha tratto anche la mole di rifiuti che va soffocando il mare, al cui respiro è abituato a regolare il proprio. Racconta sua figlia Masha, che segue le orme dei suoi: “Mio padre e io abbiamo cominciato a raccogliere la monnezza dei Caraibi e a capire”. Eravamo ospiti del paradiso, dice Mikhail, e abbiamo visto che il paradiso sta morendo. Il virus gli ha mozzato il fiato, la guerra vuole finirlo. Ora il mare di Odessa è chiuso da cartelli rossi con il teschio, arte contemporanea: minare il mare, noi sottocosta, loro in altura, come il Gran Re persiano che frustava l’Ellesponto per castigarne la disobbedienza.
Nel 2009 Reva aveva presentato il suo primo progetto di un futuro monumento a Babi Yar, Babij Jar, la gola vicino a Kyiv in cui in due giorni, alla fine di settembre 1941, militari nazisti e complici ucraini trucidarono 33.771 ebrei. (Nemmeno un mese dopo, quel numero venne uguagliato o superato a Odessa). Ha immaginato un gran tallit bianco, con le bande laterali azzurre, lo scialle che coprisse l’intero luogo, preghiera per i morti e memoria per i vivi. “Il progetto più importante della mia vita”, disse, e da allora ha continuato a lavorarci. Ora dice che quel progetto, e la sua “Porta della passione”, gli sta nel cuore ancora di più.
Lo ascolto, un uomo robusto che ha da poco superato i 60 anni, e aveva potuto credere di essere scampato al peso del Novecento. Di coltivarne la memoria, ma come un fuoruscito. Si era sporto con sicurezza sul tempo nuovo, aveva immaginato e scolpito “Il primo breakfast del Terzo millennio”.
Nel 1995 Reva aveva collaborato, con una calda amicizia, all’installazione al porto di Odessa della grandiosa scultura di Ernst Neizvestny intitolata al “Golden Child”. Neizvestny (1925-2016), un grande dell’epoca sovietica, ebreo, era emigrato negli Usa nel 1976. Appena pochi anni fa, Reva ne aveva scritto parole che colpiscono: “Neizvestny rappresenta un tempo diverso – un tempo crudele di destini spezzati, amici e famiglie perdute, milioni di umani morti di repressione e di guerra… l’intero orrore del Ventesimo secolo”. Ora l’orrore ritorna, e la memoria non è più consegnata ai monumenti ma invade il presente, si fa famelica, esige di saldare conti mai chiusi. Reva l’ha visto con i suoi occhi, questo capovolgimento d’epoca e di sentimenti: lavorava a New York allora, e l’11 settembre del 2001 vide le Torri trafitte e abbattute, e sentì l’oppressione dell’impotenza. Pochi giorni fa, Reva ha incollato con lo scotch alle saracinesche chiuse dei chioschi del mercato Alexandrovsky, come fanno i giovani artisti e i militanti, una serie di decine di grafiche che ha disegnato e dipinto dopo l’invasione, una convocazione di tutti gli stili a fronteggiare quel ritorno, quella promessa brutalmente tradita. Imparò da un gran ritrattista di Vitebsk, Pyotr Izrailevich Puko (1915-2000) la capacità di disegnare: impresa svelta, qualche minuto per arrivare al punto – la scultura è paziente, lenta. “Se non sai disegnare non sei libero”. I suoi schizzi sono, mi pare, fra le cose più belle. Anni fa furono le “Serie di Odessa”, i vicini, la passeggiata a mare, gli innamorati, le madri e i figli, la vita dei cortili. Ora sono le figure di “Guerra e vita”, la primavera di Mariupol, il caos, il requiem, il cuore inchiodato della guerra… Mi guardo dal chiedere a Mikhail, di quelle decine di grafiche impetuose e così diverse: Ma le hai fatte tutte tu? – perché lui mi avrebbe risposto, come Picasso a Guernica: No, le ha fatte Putin.
Ricorda il primo giorno citando “Bella ciao”, o forse senza accorgersi di citare: “Mi sono svegliato e ho sentito che stavano bombardando la mia città”. Si è riparato, lui e i suoi, le sue, sua moglie reduce da un’operazione, sua madre, sua suocera, 88 e 82 anni, in un bagno di casa, solo per stare insieme, poi ha deciso che voleva portarle via. Ha più di 60 anni, può uscire. Metà Odessa se n’è andata, la metà preziosa, bambini, donne, vecchi. Le ha accompagnate sulla costa croata, è rimasto un po’ con loro, poi è tornato. Intervistato in Italia, aveva detto: un artista è, in ogni sua fibra, il nervo scoperto del tempo. Un sismografo, impegnato a trasformare quell’energia devastante nella magia delle immagini.
Appassionato alle avanguardie russe, avevo una predilezione per la Torre di Tatlin – era il 1919, era dedicata alla Terza Internazionale, sarebbe stata un congegno tecnologico senza eguali, l’Urss non ebbe i soldi per tirarla su, per fortuna: avrebbe schiacciato Leningrado e sarebbe rovinata su se stessa, come il suo contenuto. Così, non realizzata, non era piantata sulla terra come la Torre Eiffel, ma si avvitava verso il cielo, come una perenne rampa di lancio inusata. Soprattutto, era l’emulazione dichiarata dell’incidente che aveva fatto la gloria della Torre di Pisa, della qualità – nascere storta, e restare così – di ogni penultima rivoluzione. Vedo una passione simile in certe grandi architetture di Reva, a Kiev specialmente. Ho guardato il suo album fotografico: un giovane somigliante un po’ a Liam Neeson, più bello. Lui cita il Kant del cielo stellato sopra di noi e la legge dentro, e Isaak Babel’: “Ho messo insieme la mia città natale dalle bottegucce, le persone, l’aria, le locandine. La ricordo ancora, la sento e la amo; la sento come si sente l’odore della madre, l’odore dell’affetto, delle parole e dei sorrisi; la amo perché ci sono cresciuto, sono stato felice, triste e sognatore – appassionatamente, incredibilmente sognatore…”. Ha disegnato lui il selciato ondulato su cui è stato collocato il composito monumento del moscovita Georgy Vartanovich Frangulyan, che dal 2011, dopo un fervido fundraising cittadino, fronteggia il quarto piano della casa d’infanzia di Babel’. Oggi, accanto al gran Babel’ tutto di bronzo, occhialini compresi, e alla sua ruota spezzata, sorgono le tende del comitato che accoglie gli sfollati dalle regioni occupate dell’Ucraina. C’è scritto: WORLD CENTRAL KITCHEN, e lui sembra sorriderne.
Babel’ e il suo Benja Krik: cammini e ti chiedi chi di questi sconosciuti potrebbe essere il nuovo re di Moldavanka – uno che ti segue da un po’, forse, e ti fermi per farti sorpassare, e intanto metti una mano sulla tasca di dietro dei calzoni, sul portafoglio. Ormai conosco tutte le statue e i clochard di Odessa, perché cammino, e loro se ne stanno al loro posto.
Tutte le nostre nazionalità stanno combattendo per la libertà. La lingua russa? chiedo. “Ma noi stiamo parlando russo”, protestano all’unisono lui e Antonina. Ho sempre parlato russo, dice, è la lingua dei miei sentimenti e dei miei pensieri. Nemmeno il più accanito nazionalista mi ha mai fatto un’obiezione.
Il fatto è che la propaganda russa vuole cancellare tutto ciò che è ucraino. E’ come aver a che fare con un minotauro perduto nel suo labirinto, che improvvisamente scorga da una fessura una città felice dei suoi tanti popoli, lingue, piatti: ha un desiderio solo, bombardarla. La guerra è questa smania di annichilire il mondo di prima. Di regnare in una terra bruciata – la loro idea di espansione.