il punto di vista
Ecco il nuovo centro politico spiegato da Blair
Il problema di uno schieramento centrista non è la domanda, è l’offerta. Lo slancio del populismo è finito, ma sulla popolarità di democrazia e globalizzazione c’è molto da fare, dice l'ex primo ministro inglese in una conversazione con Campbell e Stewart
Oggi a Londra l’ex premier britannico Tony Blair organizza la “Future of Britain Conference”, un incontro sul futuro delle politiche moderate e centriste. Quando la conferenza è stata annunciata, s’è subito detto: Blair fonda un nuovo partito. Sembrava che dovessero esserci anche ospiti internazionali, francesi macronisti soprattutto, ma lo slancio continentale pare, a guardare l’agenda della giornata, ridimensionato. E i blairiani hanno passato l’ultimo mese a ripetere: non è un nuovo partito, sono idee per chi vuole occupare il centro dello spettro politico. Lo stesso Blair ha spiegato il significato di questo esperimento – e molte altre cose – in un’intervista al podcast “The Rest is Politics”. I conduttori di questo podcast, che è sempre ai primi posti nelle classifiche britanniche, sono Alastair Campbell, ex spin doctor dello stesso Blair (in questo incontro si scambiano molte affettuosità e un imperdibile “senza di me saresti perso” che Cambpell rivolge a Blair), e Rory Stewart, un conservatore moderato che ha più volte cercato, senza successo, di animare l’ala centrista dei Tory. Questo podcast è di per sé già un incontro settimanale per riflettere sul centrismo e il suo futuro: parla del Regno Unito – anche Blair lo fa – ma ci sono spunti che possono essere utili anche nel dibattito europeo.
Ne pubblichiamo alcuni stralci editati per la lettura (la puntata è disponibile sulle app di ascolto).
Il centro oggi
Alastair Campbell (AC): Perché organizzi questa conferenza?
Tony Blair (TB): Il paese si trova in un punto di inflessione in cui rischiamo seriamente di essere relegati alla serie B se non prendiamo provvedimenti forti. Stiamo vivendo un periodo di enormi cambiamenti ma non siamo affatto in forma – dobbiamo rimetterci in forma. Abbiamo ancora delle risorse fantastiche, ma abbiamo bisogno di un piano chiaro, con una serie di politiche chiare per il futuro. Si tratta quindi di una conferenza di idee: vorrei che fossimo una specie di fabbrica di idee su come deve essere una Gran Bretagna moderna.
AC: Ma il fatto che siate costretti a fare questa conferenza non è di per sé già un’indicazione di fallimento della politica nel Regno Unito?
TB: La politica nel Regno Unito ha attraversato un periodo molto difficile, verso gli estremi. Jeremy Corbyn ha preso il controllo del Labour, il Partito conservatore è diventato il partito della Brexit. La conseguenza è che è venuto a mancare un solido terreno di centro di cui si ha bisogno per guidare la politica nel XXI secolo, perché si tratta davvero di capire il mondo e poi di trovare soluzioni pratiche. E credetemi: si può essere radicali e pratici, non è necessario essere radicali ed estremi.
Rory Stewart (RS): Ora, l’attuale premier Boris Johnson è una catastrofe, ma perché sembra così difficile sferrargli dei colpi e perché l’opposizione non ci riesce?
TB: Credo che il Labour abbia attraversato un periodo molto difficile. Il partito si è messo su una posizione di estrema sinistra. Non credo sia mai stato credibile che Jeremy Corbyn potesse essere proposto come candidato premier, ma quando si fa un azzardo del genere, non si può semplicemente dire: “Oh, be’, sai, non ha funzionato, ok”. Sostengo ciò che Keir Starmer sta cercando di fare oggi con il Labour, l’ha smosso in modo significativo e le elezioni suppletive dimostrano che sta avendo un impatto. Ma continuo a pensare che la questione centrale della politica britannica, non importa se per i laburisti o per chiunque altro, sia quali sono le idee che fermeranno la retrocessione del paese e lo porteranno sul sentiero dell’ottimismo.
RS: Forse la polarizzazione rende sempre più difficile introdurre argomenti centristi.
TB: Uno come Boris Johnson, un one man show, risucchia tutta l’energia politica, si è scontrato con Corbyn e l’ha battuto. Quindi penso che il centro non debba essere considerato come la differenza tra i due partiti di destra e di sinistra (una sottrazione, ndt). E sono convinto che sia un problema di offerta, non di domanda.
AC: Stai dicendo che non ha un programma?
TB: Be’, alle ultime elezioni non c’era.
AC: In Francia, per esempio, Emmanuel Macron lo sta facendo il centro?
TB: Sì, è in un momento di difficoltà, ma ha comunque vinto di nuovo. C’è un forte partito a sinistra e un forte partito a destra entrambi populisti, ma ha comunque ottenuto il maggior numero di voti e certo, ora deve costruire una giusta coalizione. Ma è stato rieletto. Se si guarda a Olaf Scholz in Germania: è stato eletto direi come successore di Angela Merkel. E direi che Joe Biden ha vinto negli Stati Uniti perché sembrava essere l’unico democratico che avrebbe potuto occupare il centro. Quindi mi sento di dire che l’estrema sinistra nella maggior parte delle democrazie occidentali oggi sia una minoranza e che non può vincere.
AC: Anche l’estrema destra.
TB: Anche l’estrema destra. Ma ai miei tempi da premier Nigel Farage e Jeremy Corbyn erano figure estreme. Se mi aveste detto allora, nel 2007, che uno dei due avrebbe preso il controllo di una parte significativa della politica britannica, uno il Partito conservatore e l’altro il Partito laburista, avrei detto: no, non succederà. Ci sono delle ragioni che spiegano questo cambiamento perché un’altra cosa di cui sono assolutamente convinto è che il populismo sfrutta il risentimento, ma non lo inventa.
AC: Quindi c’è stata la Brexit...
TB: Proprio perché c’era questo risentimento. Il punto è che la Brexit non era il modo giusto per gestirlo, questo risentimento.
Far funzionare la Brexit
AC: Ma come si fa a fare opposizione alla Brexit?
TB: L’opposizione dovrebbe dire che la decisione non si può annullare – è fatta, per questa generazione. Ma va gestita e io se fossi in loro mi accanirei contro i conservatori. Se pensiamo alle promesse fatte: ci è stato detto che l’accordo con l’Irlanda del nord era un accordo eccellente che risolveva il problema, ma ora sappiamo che non solo non è affatto eccellente, ma che loro sapevano benissimo che non lo era. Ci è stato detto che avremmo avuto un accordo commerciale semplice e rapido con gli Stati Uniti, ma non abbiamo nemmeno i contorni di questo accordo. Ci è stato detto che si temeva un forte calo del pil – voglio dire, le cifre sono tutte lì, erano tutte lì. E’ questo che deve fare il Labour: non si può cambiare e tornare indietro sulla decisione, ma si può far sì che possa funzionare. Se la Gran Bretagna un giorno vorrà rientrare in Europa, dovrà farlo da una posizione di forza e non in ginocchio, supplichevole.
La rivoluzione tecnologica progressista
AC: Cosa dicono i progressisti sulla tecnologia e come si può sfruttare la tecnologia come forza progressista?
TB: La linea progressista sulla tecnologia è che, se la si usa in modo appropriato, per esempio, si può trasformare il sistema sanitario, si può accumulare e analizzare i dati in modo molto più ampio per aiutare il sistema sanitario, è possibile organizzare l’istruzione in modo completamente diverso. La tecnologia può aiutare con i trasporti. La tecnologia è anche l’unica risposta al cambiamento climatico. Quindi la tecnologia può fare grandi cose, ma ovviamente può anche essere usata per controllare i cittadini in modo autoritario e perverso. Questa è la sfida. Non voglio dire che tutto ciò che riguarda la tecnologia è buono, ma siamo di fronte a un cambiamento paragonabile alla rivoluzione industriale del XIX secolo: cambierà tutto, quindi che ci piaccia o no, la tecnologia va conosciuta e maneggiata – e sfruttata.
La delusione democratica
RS: C’è una critica che ti viene mossa, in particolare dove mi trovo ora io, in medio oriente. Molti giovani qui ti direbbero: “Aspetta un attimo, la polarizzazione, molto del populismo che stiamo vedendo è colpa dei centristi occidentali che hanno deluso molti popoli”. La guerra in Iraq, la crisi finanziaria del 2008, la crescente disuguaglianza in tutto l’occidente. Ti direbbero, in sostanza, che questo progetto liberaldemocratico occidentale ha deluso le persone, e che se stiamo assistendo a questa polarizzazione è perché quel modello non piace più.
TB: Si può essere completamente in disaccordo con ciò che abbiamo fatto dopo l’11 settembre, l’Iraq, l’Afghanistan e così via. Non credo che questa sia una grande preoccupazione in Africa e in medio oriente ora. Penso che la grande sfida lì oggi è come arrivare a società religiosamente tolleranti e a economie basate sulle regole. Il nostro Institute of Global Change ha fatto un grande sondaggio in medio oriente da cui emerge che i giovani vogliono essere connessi al resto mondo. Giusto? Non vogliono essere esclusi.
RS: Purtroppo no, mi dispiace doverlo dire. C’è un calo del sostegno alla democrazia e una crescente popolarità in medio oriente per i modelli autoritari.
TB: Ma il punto è questo. Dopo la Primavera araba, hanno pensato che questi esperimenti di democrazia non avessero dato risultati per i cittadini di lì. Ora, questo è un precetto fondamentale da tenere presente in politica. Se non si ottengono risultati, non importa se si è una democrazia o un’autocrazia, alla fine si fallisce. Ma credo che alla fine – ci vorrà un po’ di tempo prima che una società come la Tunisia riesca a gestire la sua democrazia e a fare progressi. Ma i cittadini tunisini preferirebbero vivere in una democrazia. Faccio un altro esempio. Se la Russia fosse una democrazia funzionante, la guerra in Ucraina non sarebbe mai esistita. Quindi, questa è una catastrofe anche per la Russia, oltre che per gli ucraini e per il mondo. Un altro esempio: la politica Covid zero della Cina non funzionerà, non ha funzionato e sta causando enormi disagi in tutta la Cina. E di fatto alle catene di approvvigionamento del mondo, cosa che non sarebbe mai accaduta in una democrazia, perché quella politica sarebbe stata messa in discussione. Ma questi paesi non sono democrazie e sentono che le democrazie sono in declino e loro si sentono in ascesa.
RS: Credo che pensino di poter farla franca, qualsiasi cosa facciano.
TB: Sì, ma proprio per le cose che ho detto su Cina e Russia, la democrazia, avendo al proprio interno un sistema di sfida, è in realtà un sistema migliore. Hai ragione quando dici che ci sono persone che dicono: “Il problema della democrazia è che le società non sono abbastanza mature, le istituzioni non sono abbastanza mature”. Non funziona nel modo in cui dovrebbe. Ma l’unica cosa certa è che, che si tratti di una democrazia o no, deve essere in grado di ottenere risultati. Ma torniamo al punto di partenza, che è la globalizzazione. La maggior parte dei paesi in cui sto lavorando al momento vuole essere connessa a livello globale. I cittadini vogliono i collegamenti dei trasporti e i collegamenti a Internet. E i governi vogliono assicurarsi che i cittadini possano vedere i benefici dell’essere parte dell’economia globale. Non vogliono esserne separati.
Sulla guerrra e sulla Cina
TB: L’aspetto importante è la globalizzazione. Ci sono vulnerabilità all’interno del nostro sistema che dovremmo correggere e che avremmo dovuto correggere. Dopo la Crimea avremmo dovuto liberarci dalla dipendenza dal petrolio e dal gas russo. Avremmo potuto e dovuto farlo. Oggi quello che diciamo sulla Cina, sui chip o le terre rare, è la stessa cosa. Bisogna prepararsi e affrontarle subito. Spero che i cinesi non traggano alcun conforto da ciò che è accaduto in Ucraina per quanto riguarda Taiwan.
AC: Ne sei sicuro? TB: Sì, la Cina non è la Russia. E il sistema cinese non ha intenzione di entrare in un confronto con l’occidente se non in un momento che sceglie lei. Non credo che possa contare su quel che sta accadendo per farsi idee rispetto a Taiwan.
AC: E’ quello che dicevamo sull’Ucraina.
TB: Certo, penso che sia necessario avere una strategia nei confronti della Cina, che a mio parere dovrebbe essere una combinazione di forza e coinvolgimento. Dobbiamo essere abbastanza forti da affrontare qualsiasi cosa venga dalla Cina, ma non credo nel disaccoppiamento dalla Cina. Penso che si debba rimanere impegnati con loro e mantenere aperte le linee di dialogo perché la Cina non è la Russia e non è l’Unione Sovietica.
RS: Tragicamente, sarà molto più difficile agire contro la Cina che contro la Russia, perché la Russia rappresenta forse l’uno per cento del problema per un’azienda europea, ma il cinquanta per cento dei profitti delle aziende europee di beni di lusso e di automobili proviene dalla Cina, il cinquanta per cento della loro crescita proviene dalla Cina. Quindi il danno economico che verrebbe imposto all’occidente se cercasse di muoversi, di agire contro l’intervento cinese a Taiwan sarebbe enorme. E i cinesi presumibilmente lo sanno.
TB: Ma funzionerebbe anche il contrario: il danno all’economia cinese sarebbe enorme. E la Cina ha problemi significativi in diversi settori della sua economia al momento. L’accordo tra il Partito comunista e il popolo cinese si basa molto su ciò di cui abbiamo parlato prima, ovvero ottenere risultati. Il Partito comunista deve garantire l’aumento del tenore di vita e la crescita della classe media. Se si finisce per entrare in un conflitto che mette a repentaglio tutto quel che si è raggiunto, il Partito comunista cinese non è lo stesso del Cremlino. Sono d’accordo, bisogna prepararsi al peggio, ma non vedo le nostre relazioni con la Cina nello stesso quadro di come dobbiamo affrontare la Russia di Putin.