dal nostro inviato
Qui a Odessa neanche le brave signore deprecano la difesa armata
Le organizzazioni italiane associate nell’appello “Stop the War Now” hanno trascorso l'ultimo giorno in Ucraina a Mykolaïv, scaricandovi gran parte degli aiuti trasportati dall’Italia. Valeva la pena andare sul posto, se non per cambiare idea almeno per aggiustarne il calibro
Odessa, dal nostro inviato. La quarantina di partecipanti della “carovana della pace” delle tante – 175, tante davvero – organizzazioni italiane associate nell’appello “Stop the War Now” ha trascorso il suo secondo e ultimo giorno pubblico martedì a Mykolaïv, scaricandovi gran parte degli aiuti trasportati dall’Italia. E vedendo e toccando molte delle persone cui gli aiuti sono destinati. Il prossimo è più e diversamente prossimo così da vicino che a 2.687 km di strade tortuose da Roma, 2.564 dalla Assisi di Tonio Dell’Olio, 3.150 da Cassano allo Ionio, diocesi del vescovo Francesco Savino.
Ai check point i militari avvertono di “fare attenzione”: alle cinque di mattina una decina di razzi era caduta sulla città, e altri sui dintorni. A Ochakiv, lo sbocco sul mare del Bug, uccidendo – salvo errore, il luogo era stato chiuso, non abbiamo potuto andarci – un bambino di tre anni e un adulto, ferendo gravemente un altro bambino di tre mesi. A quell’ora, prima dell’alba, le persone normali dormono nelle loro case. Sono morte dunque nelle loro case tre persone normali: l’obiettivo della guerra. Mercoledì mattina, quando i volontari ripartivano da Odessa alla volta dell’Italia, un condominio di Mykolaïv è stato colpito da un missile, facendo altri tre morti e nove feriti. Il nostro prossimo. Mykolaïv, di là Kherson e gli occupanti, di qua Odessa, aveva quasi mezzo milione di abitanti, ne ha metà, e parecchi fra questi sfollati. Vuotare la terra della sua gente distruggendo e spaventando è un pilastro strategico della guerra ultramoderna.
C’è stato poco tempo per commentare l’incontro ecumenico del giorno prima, e la distanza acuminata delle posizioni. Tuttavia si ascolta e si parla bene con certi uomini di Chiesa (specialmente con la leva vescovile del 2015). Al vescovo Savino sono bastati un giorno e una notte di Odessa per riconoscere francamente che non si trova una sola persona, nemmeno la brava signora che ieri sera gli ha dato la cena, disposta a deprecare la difesa armata. Anche per questo valeva la pena di venire: se non per cambiare idea – e poi gli ideali sono più testardi delle idee – certo per conoscere meglio le idee reciproche, e aggiustarne il calibro.
Chi è il mio prossimo è straordinariamente chiaro in posti come Mykolaïv. I volontari, donne e uomini, hanno scaricato i loro scatoloni e i loro pacchi – anche il vescovo, vicepresidente della Cei, buono scaricatore – e possono ora uscire dal cortile nel vialone di periferia, dove si è formata una coda paziente di molte centinaia di persone a ritirare il pasto quotidiano. Stiamo a guardare, più discretamente che possiamo: solo alcuni devono essere poveri del mondo di prima, i più sono impoveriti di colpo, hanno perso tutto, casa averi ricordi giochi, ne sono offesi e umiliati.
Qui, di fronte alla coda per il pane quotidiano, non c’è, per il momento, l’ambiguità della parabola: noi siamo il prossimo dalla parte favorita e straniera, quella che fu del samaritano, e le persone in coda sono il prossimo derubato e bastonato. Però il visitatore che guarda, e tasta il biglietto di ritorno in tasca, e si vergogna della vergogna altrui, non può fare a meno di perdere un po’ della propria sicurezza e immaginare se stesso nella fila, con una faccia così grigia e tirata e un abbigliamento di carità o di fortuna. E proprio in quel pensiero vedo nella coda – Goffredo Fofi! Mi balza il cuore in petto – per un momento, certo. Naturalmente non è lui. Goffredo è vecchio come me, più di me, sarà a casa sua, ha appena pubblicato un libro in memoria di quelli che se ne andarono prima perché erano i migliori. Ma l’emozione è stata così forte che, dopo aver aspettato che ritiri il suo pacchetto, vado incontro all’uomo – è parecchio più giovane, parecchio più alto, e tuttavia… – e gli chiedo di farsi una foto con me, spiegandogli che siamo piuttosto amici da più di cinquant’anni, non proprio lui, ma uno che gli somiglia. E’ contento di farlo, e dopo sentiste che stretta di mano forte e incoraggiante, a me e agli altri nostri.