Il Foglio del weekend
Il giornalismo di guerra negli alberghi di guerra
Inferno di solitudine per gli scrittori in fuga, trincea e rifugio d’amore per i reporter. Da Teheran a Kyiv, il racconto dell’orrore parte da qui
Non c’è giornalismo di guerra senza alberghi di guerra. Anzi, non ci può essere guerra, punto e basta. Perché la guerra non esiste se non c’è qualcuno a raccontarla. Non importa come, da che parte, in quale versione, se in modo veritiero, per fare propaganda, o per fare letteratura. Se della guerra non se ne parla, se non fa notizia, è come se non esistesse. La guerra in Ucraina non esisterebbe – per essere più precisi esisterebbe, ma sarebbe ignorata dai più se non ci fossero televisioni e giornali a parlarne. La riprova? Al pubblico russo, per diverse settimane, non è stato nemmeno detto che c’era una guerra. Solo un’operazione speciale. Un’operazione di polizia per ripulire l’Ucraina dai nazisti. Per converso, chi s’era accorto, dalle nostre parti, che era in corso, da anni, una guerra nel Donbas? All’audience in Russia invece, di quella guerra gli facevano una capa così tutte le sere, in tutti i siti internet…
Chi racconta la guerra da qualche parte deve pure alloggiare. E’ sempre stato così. In tutte le guerre. Ci vuole un posto cui far capo, dove incontrare gente e attingere notizie, da cui inviare i servizi e il materiale raccolto. Alcuni hotel di guerra sono diventati leggendari. Abbiamo già frequentato in queste pagine, la scorsa settimana, l’Hotel Imperial di Vienna dove il fior fiore dei corrispondenti in Europa si erano ritrovato per coprire l’ingresso di Hitler nella Vienna dell’Anschluss. Poco prima tout le monde era all’Hotel Florida nella Gran Via di Madrid, a seguire la Guerra civile in Spagna. Lì era la sala stampa, il punto in cui raccogliere notizie, il posto dove conoscere i protagonisti, e anche il nido d’amore di tutti i reporter stranieri. Ernest Hemingway e Martha Gellhorn avevano due stanze comunicanti, la 108 e la 109. Lì si vedevano con il bravissimo e attivissimo addetto stampa e censore del governo repubblicano, Arturo Barea Ogazón, che si sarebbe perdutamente innamorato della bellissima giornalista e militante austriaca Ilse Kucsar, poi sua collaboratrice. Lì avevano preso alloggio il giovane profugo dall’Ungheria André Friedmann, noto come Robert Capa e la sua fidanzata di buona famiglia ebraica polacca, che conosciamo come “la ragazza con Leica”, in arte Gerda Taro. Morì con la Leica in mano, schiacciata dai cingoli di un carro armato, che non aveva ancora compiuto 26 anni. Lì si poteva incontrare tutti i giorni, nella cafeterìa, non nella hall (dove ogni tanto cadevano proiettili d’artiglieria) l’inviato della Pravda Kolc’ov (prima che Stalin lo richiamasse a Mosca per farlo fucilare). In Per chi suona la campana Hemingway lo chiama Kharkov. C’erano Malraux, Orwell e Ilija Ehrenburg (inviato per la Izvetija e chissà quale altro servizio sovietico). Arrivò persino Erroll Flynn. E sempre al Florida risiedeva (“Camera con bagno”: così avrebbe intitolato uno dei suoi articoli per la stampa Usa), l’altro Nobel americano, John Dos Passos. Litigava con Hemingway, e continuava a chiedere disperatamente notizie del suo traduttore in spagnolo, José Robles Pazos (non sapendo che era già stato fucilato come sospetta “quinta colonna” franchista). Hemingway non era carino con i suoi compagni d’albergo, specie le donne. Le chiamava combat whores, puttane da combattimento.
Il Florida a Madrid, per seguire la Guerra civile di Spagna. Ernest Hemingway e Martha Gellhorn avevano due stanze comunicanti
Grandi avventure, la Storia con la maiuscola in diretta, giornalismo e spionaggio, grandi passioni politiche e grandi amori, alcuni finiti tragicamente. Pare che Randolfo Pacciardi corteggiasse pesantemente la statuaria Martha Gellhorn, la donna di cui Hemingway scrisse che “aveva due gambe strepitose, che cominciavano alle ascelle”. Vittorio Vidali, il leggendario comandante Carlos delle Brigate internazionali, era accompagnato dall’inseparabile Tina Modotti. Palmiro Togliatti, allora inviato in Spagna dell’Internazionale comunista col nome di Ercoli, aveva seguito il governo spagnolo a Valencia. Molti anni dopo avrebbe raccontato di quell’esperienza in una lettera alla Jotti, confessando, anche lui, un amore spagnolo, una militante che gli faceva da assistente. L’unico assolutamente riservato, che non si lasciò mai andare, a quanto ne so, ad alcuna rivelazione personale sul suo incarico militare in Spagna, è Luigi Longo.
Nel mio piccolo, prima di passare a fare il corrispondente da Pechino e frequentare il Beijing Fandian, quasi all’angolo con piazza Tiananmen, mi ero fatto le ossa, con colleghi inviati da tutto il mondo, al Park Hotel di Teheran. Lì avevo conosciuto Michel Foucault, inviato per il Corriere della Sera, malgrado facesse tutt’altro mestiere, e il polacco Ryszard Kapuściński, Il Park aveva una posizione strategica, nel centro di una città immensa e dal traffico micidiale, dove potevano volerci ore per spostarsi dal nord della reggia imperiale al sud delle baracche dei mostazafin, i miserabili, i diseredati, ma non lontano dall’Ambasciata americana, dal Majilis, il Parlamento, e dal Bazar. C’era il coprifuoco. Gli orari del ristorante, in cui peraltro si mangiava malissimo, facevano a pugni con gli orari in cui dovevo tramettere il pezzo. C’erano code di ore perché si liberasse una linea telefonica per Roma. Fu l’esperienza più angosciosa degli esordi della mia carriera di inviato all’estero. A che serve avere le notizie, esserne stato testimone diretto, se poi non si riesce a tramettere al giornale? La parte alimentare era un problema molto minore. Avevo scoperto che sulla Eslambol vendevano caviale di contrabbando, il migliore, il grigio imperiale del Caspio coi chicchi grossi come piselli, a pochi dollari al chilo. Era fresco, ma in camera c’era per fortuna un frigo. Col pane barbari iraniano caldo, accompagnato da una tazza di tè scuro, è una delizia assoluta, irripetibile (credo che non esista più, e comunque non potrei in alcun modo permettermelo). Al Park avrei conosciuto il mio primo interprete, che poi divenne il primo ambasciatore della Repubblica islamica in Italia (per poco, scappò e fece perdere le tracce poco dopo, per evitare di essere ucciso dai sicari di Khomeini) e la mia interprete degli anni successivi, una ragazza dagli occhi verdi, da cui rimasi affascinato a prima vista. Frequentavo, come poi in Cina, e poi in qualche misura pure in America, le élite istruite, meno il popolo vero, gli islamici dei quartieri poveri, il sostegno fanatico degli ayatollah. Ricordo lo sguardo pieno di odio (o di invidia?) del giovanissimo pasdaran armato messo di guardia all’albergo subito dopo la Rivoluzione. “No, da noi le ragazze non sposate non dovrebbero appartarsi con degli uomini”, mi spiegava pacatamente, ma era evidente che l’istinto era spararci a tutti e due. Il Park l’avrebbero poi chiuso, sarebbe divenuto casa di riposo dei pasdaran mutilati. Ci saremmo spostati a Nord, all’Intercontinental.
Mi sono fatto le ossa al Park Hotel di Teheran. Lì avevo conosciuto Michel Foucault, inviato per il Corriere della Sera
Habent sua fata tabernae, mi viene da dire parafrasando Orazio. Gli alberghi hanno sempre avuto un rapporto stretto con il giornalismo e la letteratura. Simenon dice di aver incontrato Hitler in ascensore al Kaiserhof di Berlino, dove lui occupava, prima di diventare cancelliere, l’intero quinto piano col suo quartiere generale, il suo staff politico, e le SS che gli facevano da guardia del corpo. A Mosca i giornalisti bazzicavano il Metropol, gli uomini dell’Internazionale il Lux. Si svolge da un hotel all’altro di Saigon la vicenda del The Quiet American di Graham Greene, il quale prima ancora che esperto nei Servizi, faceva il corrispondente. E’ all’Hotel Sevilla-Biltmore dove “le camere si succedevano come le celle di una prigione lungo un balcone rettangolare”, nella stanza 510 al quinto piano, o al ristorante Floridita che ne Il nostro uomo all’Avana l’agente dell’Intelligence Service Hawtorne ha gli appuntamenti con il rappresentante di aspirapolveri che si spaccia per informatore indispensabile.
Dal Don Chisciotte di Cervantes in poi, qualsiasi vicenda romanzesca che si rispetti si svolge, o ha a che fare con un albergo. Hotel Savoy si intitola, non a caso, il primo dei romanzi brevi di Joseph Roth, del 1924. Racconta di una tappa in quella “fuga senza fine” che fu la sua vita. Il protagonista, reduce da una lunga prigionia di guerra in Siberia, in fuga come tanti verso occidente, dalle “terre di mezzo” al confine con la Russia, cioè dalla guerra, dai pogrom, dalla povertà, si ferma in un ameno albergo di Lodz, dove trova un microcosmo della sua epoca. Ancora oggi è a Lodzź che arrivano i profughi dall’Ucraina che attraversano il confine con la Polonia. Un albergo vale l’altro. “L’Hotel, che amo come fosse il mio paese natale, si trova in uno dei grandi porti europei… proprio come altri tornano a casa, alle mogli e ai bambini, io torno alle luci dell’hotel e alla sua lobby, alle sue cameriere e ai suoi facchini, e al suo concierge…”, dice il narratore di un altro racconto di Roth. Tutta, ma proprio tutta la letteratura in tedesco della prima metà del Novecento si svolge negli alberghi. Per crederci date anche solo un’occhiata all’indice di The Hotel as Setting in Early Twentieth-Century German and Austrian Literature: Checking in to Tell a Story di Bettina Matthias (Camden House 2006). Ma attenti, si tratta di un dotto studio accademico. Molto più leggibile, anzi decisamente gustosa la rassegna sugli Hotel letterari. Viaggio intorno al mondo negli alberghi degli scrittori della scrittrice e antiquaria parigino-napoletana Nathalie de Saint Phalle (Passigli, 1992). Tanto che, se vi andasse di leggere un solo libro sull’argomento, raccomanderei questo. Anche se fa una certa impressione, nel denso novero di citazioni, l’assoluta preponderanza degli scrittori suicidi in una camera d’albergo. Tremenda la concentrazione di quelli in fuga dal Terzo Reich: da Ernst Weiss che si suicidò in una camera d’albergo di Parigi, a Walter Benjamin suicida in una locanda di Port Bou, mentre era in attesa di passare dalla Francia occupata in Spagna, a Ernst Toller che si impiccò nel 1939, col laccio della sua vestaglia blu nella camera 517 dell’ Hotel Mayflower, su Central park a New York, tutto in fiore a maggio, e Stefan Zweig il quale si avvelenò, nel 1941, insieme alla moglie Lotte, in una stanza d’albergo di Rio de Janeiro. L’uno e l’altro erano ormai apparentemente salvi dalle grinfie naziste. Zweig aveva appena completato il manoscritto di Il mondo di ieri. Una stanza d’albergo può essere un inferno di solitudine. La nostalgia per i mondi perduti, il brusco mutamento dei paradigmi, sono insopportabili, non scorgere più alcuna luce in fondo al tunnel può essere letale. A volte uccide più della guerra.
Ogni guerra ha il suo Hotel célèbre. In Afghanistan ora i giornalisti vanno al Serena, dove pare non sia cambiato molto, tranne che a far guardia ora sono i talebani. A Sarajevo l’Holiday Inn, l’edificio più alto di tutti gli altri sull’arteria principale, che durante i quattro anni di assedio da parte dei serbi-bosniaci divenne tragicamente nota come “Sniper Alley”, strada dei cecchini. A Saigon si facevano concorrenza il Continental Palace e il Caravelle, con vista sui tetti dell’ambasciata americana da cui partirono gli ultimi elicotteri dell’evacuazione. A Beirut fu il Commodore. A Baghdad gli Hotel cui facevano capo i corrispondenti esteri, dove si intrecciavano i loro servizi e i loro amori erano il Palestine e l’Al Rasheed. C’è un libro di Kenneth Morrison e Abdallah El Binni che li censisce e ne fa la storia. Si intitola War Hotels. A Kyiv si può scendere al Radisson Blu, allo Hyatt o all’Intercontinental. La rete di comunicazioni, funzionante anche dopo l’inizio dell’invasione russa, anche grazie al servizio dei satelliti di Elon Musk, ha ampliato la scelta. Si può lavorare anche da case private. L’Ucraina non è la Siria. L’amica Barbara Schiavulli, reporter di guerra di lungo corso, e in quanto tale esperta in alberghi di guerra, mi fa notare che fino a non molto fa in Ucraina c’erano 38.000 esperti in software delle comunicazioni (contro appena 700 in Italia).
Ogni sera gli inviati delle nostre tv ci parlano e ci mostrano immagini da Kyiv, da altre città attaccate coi missili, da quelle assediate o sul fronte dei combattimenti. Bravi, si spostano, anche su grandi distanze. Ci fanno vedere, sentire, quasi toccare con mano, se non sentire il puzzo di bruciato, delle macerie e dei cadaveri. Di quel che succedeva in Siria, e nel cosiddetto “Stato islamico” a cavallo tra Siria e Iraq non si capiva niente. In Afghanistan, specie negli ultimi anni, era difficile per i reporter allontanarsi da Kabul, anzi dalla Green zone. Capita talvolta di avere l’impressione di rivedere sempre la stessa immagine, lo stesso sfondo. Anche essere embedded, al seguito di unità combattenti, non garantisce veridicità. Del resto è sempre stato così. Fabrizio del Dongo, il protagonista della Certosa di Parma di Stendhal, assiste, nel bel mezzo, alla battaglia di Waterloo, ma non vede nulla, non riesce a capirci niente. Non per niente si dice Fog of war, nebbia di guerra.
La preponderanza degli scrittori suicidi in una camera d’albergo. Ernst Weiss, Walter Benjamin, Stefan Zweig con la moglie Lotte
Bravi. Non se ne stanno chiusi nei loro alberghi (anche se devono tornarci all’ora del coprifuoco), o nei rifugi (anche se è prudente andarci se suonano le sirene). Parlano con gente vera. Ci mostrano macerie vere. Ci hanno mostrato immagini che avremmo preferito non guardare. Messe in scena, attori, falsi costruiti a tavolino, avevano detto i russi. Ripreso pari pari da tutti i loro media, tutti controllati dal Cremlino. L’anima della guerra, si sa, è l’informazione (o disinformazione che si voglia). L’unica cosa assolutamente evidente è che la comunicazione di Putin è molto, ma molto meno convincente di quella dell’Ucraina di Zelensky.