La bandiera europea a Kyiv, la volontà di vincere e la fotografia geopolitica con il filtro dell'ottimismo
I commentatori e la diplomazia internazionali si stanno chiedendo non solo quanto durerà ancora la guerra, ma anche cosa la farà finire – l’endgame. Passa prima di tutto da una vittoria, poi si parlerà di condizioni
Milano. La bandiera europea è stata portata ieri dentro al Parlamento ucraino riunito in plenaria, mentre i deputati ritmavano un applauso che pareva una marcia e mentre arrivavano le notizie degli attacchi notturni dei russi sui civili, nel sud, la rappresaglia contro la conquista ucraina dell’Isola dei serpenti. Il percorso dell’Ucraina diverge sempre più da quello della Russia: la prima si difende come può e s’avvicina alla sua aspirazione occidentale un passo via l’altro, la seconda colpisce e bombarda e mente, tutto insieme, ogni giorno, con violenza indiscriminata. E la guerra si fa lunga, anche se nessuno lo vuole, non chi combatte, non i diplomatici, nemmeno Vladimir Putin, perché per quanto compensi l’isolamento con la brutalità il tempo non è più nemmeno dalla sua parte. I commentatori e la diplomazia internazionali si stanno chiedendo non solo quanto durerà ancora la guerra, ma anche cosa la farà finire – l’endgame.
L’Economist ha messo in copertina il tema centrale, “come si vince la guerra lunga”, e non ha messo il punto interrogativo, il che è quasi rassicurante. La premessa del magazine britannico è semplice: “Più Putin pensa di poter avere successo in Ucraina, più diventerà bellicoso, combatterà domani con qualsiasi arma che vede oggi funzionare”. Il modo migliore per prevenire la prossima guerra “è batterlo in questa”: “L’Ucraina e i suoi sostenitori hanno le armi, i fondi e il materiale per sopraffare Putin”, scrive l’Economist, hanno anche una forza di attrazione e di unità insperata ma potente, ed è qui che compare l’unico punto interrogativo: gli alleati hanno tutto quel che serve, ma “avranno la volontà?”. Volontà e resistenza sono i fattori imprescindibili per affrontare la guerra lunga, conta quasi più la prima che la seconda.
Su Foreign Affairs, Daniel W. Drezner, esperto e docente di Affari internazionali, allarga ancora di più l’inquadratura: conta anche, per definire l’endgame, la proiezione che ogni potenza fa di se stessa nel futuro, o meglio se ogni potenza crede “in un destino ottimista o pessimista per la propria nazione”. L’ansia del declino, dell’implosione, dei problemi irrisolvibili internamente e quindi anche all’estero determina, secondo Drezner, molte strategie (o tattiche): se pensi che un punto di flessione è vicino, farai di tutto, anche in modo brutale, per evitare di arrivare fin lì; se pensi che invece l’assetto futuro sarà favorevole, sai come remunerare la pazienza strategica, la collaborazione, la solidarietà. Secondo questo esperto, America, Russia e Cina sono, in modi e con esiti diversi, pessimisti, anzi quando l’ansia del declino ha preso il sopravvento, ha iniziato a incrinarsi l’ordine globale. Il declinismo è un’arma a doppio taglio: la si usa per negare l’eccezionalismo americano, la usa Putin per costruire il suo (dis)ordine alternativo, la usano gli equidistanti per dire che la Russia aggredisce sì, ma l’America non è più l’alleato solido che era una volta (agli equidistanti comunque non andava bene).
A fotografare il mondo con il filtro del pessimismo, sembra che l’ottimismo sia rimasto soltanto a Kyiv e in molte capitali europee. Lì si resiste, lì si guarda al futuro con pazienza strategica, lì si riaprono le scuole il primo settembre in presenza, lì si scommette su un nuovo assetto democratico. Ed è sempre lì che l’endgame passa prima di tutto da una vittoria, poi si parlerà di condizioni.