Statalismo
Addio al liberismo economico in Russia. Si avvicina il periodo dell'autarchia
L'epoca di Putin vede una sempre maggiore influenza dello Stato nell'economia del paese, anche a discapito dei potenti. Il caso di Vladimir Mau e il riflesso dell'Italia fascista
Milano. Da qualche tempo in Russia l’élite economica legata allo stato è messa fuori gioco. L’ultimo a essere fatto fuori con l’accusa di frode è Vladimir Mau, già rettore della Accademia presidenziale per l’Economia nazionale e la Pubblica amministrazione e consigliere del presidente. In passato il putinismo si manteneva un equilibrio fra quelli che si occupavano per conto dello stato di economia e gli altri organi dello stato, come i servizi di sicurezza e l’esercito. Ora non più, come mai? Fino a non molto tempo fa alcuni etichettavano la politica economica del putinismo come liberista, perché il bilancio dello stato era in attivo, perché la politica monetaria era sobria, perché i movimenti di capitale erano liberi, così come libero era il commercio con gli altri paesi. In parallelo, alla politica economica liberista, si aveva, sempre in Russia, un sistema politico che diventava autocratico, ma in modo diverso dal passato, perché si articola attraverso le elezioni e la manipolazione mediatica. Da qualche tempo, anche grazie all’accelerazione legata alle sanzioni sorte a partire dall’aggressione dell’Ucraina, la politica economica del putinismo è diventata l’opposto di quella precedente: è in misura crescente statalista e autarchica. Ecco che i proventi di Gazprom sono usati al fine di promuovere lo sviluppo delle infrastrutture non più dirette soprattutto in Europa. Ecco che sono espulse, attraverso una nazionalizzazione, dalla ricerca del gas le imprese occidentali e asiatiche. Ecco che i movimenti dei cambi non sono più liberi, perché, avendo lo scopo di rafforzare il rublo, i russi che hanno le valute debbono venderle, e i russi che le vogliono comprare non possono farlo.
Non meraviglia che con questo cambio radicale della politica economica si abbiano dei sommovimenti all’interno dell’élite. In Russia quelli che si occupavano per conto dello stato di economia, i tecnocrati, sono stati quasi tutti messi fuori gioco. Nella fase liberista, invece, i tecnocrati agivano più o meno liberamente, a differenza degli altri organi dello stato, come i servizi di sicurezza e l’esercito, i siloviki, che erano sotto il controllo e, allo stesso tempo, influenzavano il Cremlino.
Il passaggio da una politica economica liberista ad una più statalista che, con il trascorrere del tempo, diventerà autarchica ha un precedente storico nell’Italia degli anni Venti. Il fascismo aveva allora come esponente economico il ministro Alberto de’ Stefani, che era a favore della liberalizzazione dell’economia. Fu sostituito dopo qualche anno da chi era a favore di una politica economica più vicina agli interessi già consolidati.
Vladimir Mau, aveva scritto nel 2011 insieme Yaroslav Kuzminov, allora capo dell’Alta scuola di Economia, un programma per lo sviluppo della Russia che si concretizzava in un arco decennale. Uno sviluppo che non poteva basarsi sullo sfruttamento delle materie prime e della cospicua rendita che ne ricava soprattutto chi ha il potere. Uno sviluppo che non poteva non basarsi su una società civile florida e incentivata a innovare. Insomma, il programma di Mau e Kuzminov era il contrario di quello che sta accadendo ora, un decennio dopo.
Come nel caso italiano di quasi un secolo fa, in Russia i poteri in essere si sono consolidati a danno di quelli potenziali. Si deduce che un sistema di potere che non riesce a modernizzare il paese grazie a delle leggi che consentono uno sviluppo economico decentrato, ha come destino lo statalismo prima e l’autarchia poi? E’ questo un percorso inevitabile? Sembra di sì, fintanto che il sistema politico non è elastico, o forte, o lungimirante al punto da promuovere lo sviluppo a favore delle forze non ancora influenti a danno di quelle che sono già influenti.
In una fase iniziale un sistema politico, che dopo qualche tempo si manifesta incapace di modernizzare il paese, trova, proprio perché c’è chi non crede nel destino, degli esponenti della vecchia élite disposti a lavorare all’interno del sistema per spingerlo nella direzione voluta. Questo spiega la presenza di molti modernizzatori, fra cui l’economista Sergei Guriev, nella prima fase del putinismo. Guriev è poi emigrato quando ha visto che le cose procedevano in direzione contraria a quella da lui voluta. Un fenomeno non diverso da quello dell’Italia, questa volta degli anni Trenta, quando i tecnici di formazione social-riformista, come Beneduce, accettarono di assumere delle posizioni di responsabilità pensando di poter migliorare le cose non dall’opposizione, che peraltro non poteva essere che dall’estero, quindi poco efficace, ma dall’interno.