L'incontro ad Ankara
I nove accordi sul tavolo di Erdogan e Draghi. Ma per i corridoi del grano ucraino si deve ancora attendere
In conferenza stampa il presidente turco fa un commento contro la Grecia che mette in imbarazzo il presidente del Consiglio. Dalla sicurezza all’energia, i calcoli del leader di Ankara (anche in vista delle elezioni)
Ankara. Mario Draghi e Recep Tayyip Erdogan, dopo dieci anni, provano a rafforzare una difficile strategia nel bacino del Mediterraneo, dall’Africa al medio oriente oltre che nell’area dei Balcani e nel Mar Nero. Hanno provato a gettare le basi per una più stretta collaborazione nel fronteggiare le nuove sfide geopolitiche e le emergenze dovute alla guerra in Ucraina. Accolto come un faraone con al seguito cinque ministri, Luigi Di Maio, Lorenzo Guerini, Luciana Lamorgese, Giancarlo Giorgetti e Roberto Cingolani, ha firmato nove accordi di cooperazione in materia di sicurezza, commercio, difesa, energia, trasporti e cultura. Il vertice intergovenativo Turchia-Italia che si è concluso martedì 5 luglio segna un passaggio importante nel rilancio della cooperazione bilaterale tra i due storici alleati i cui rapporti sono diventati sempre più difficili.
Difficile è stata anche la relazione con l’Unione europea per la politica di Ankara spregiudicata nel Mediterraneo orientale, in particolare nei confronti della Grecia per le dispute sulle delimitazioni dei confini marittimi e sullo sfruttamento delle risorse energetiche nei fondali prospicienti Cipro e Creta. Proprio sulla Grecia il presidente turco ha cercato di trascinare Draghi sul suo terreno quando ha prospettato la possibilità che Italia e Turchia costituiscano un meccanismo congiunto per il controllo dei flussi migratori nel Mediterraneo orientale lamentandosi con il capo del governo italiano del fatto che Atene applica una politica basata sui respingimenti mirante a indirizzare i rifugiati verso la Turchia e l’Italia. “Siamo continuamente impegnati assieme all’Italia a salvare queste persone dal mare, respinte dalla autorità greche. Abbiamo salvato vite umane e l’Italia ha fatto lo stesso perché ha il nostro stesso problema”, ha detto il leader turco chiedendo su questo il parere di Draghi, il quale appariva un imbarazzato e ha dato una risposta che è parsa elusiva sul ruolo dell’Italia e i rapporti con Atene.
Il vertice, nonostante alcune trapelate incomprensioni, rappresenta anche un’importante occasione per coordinare gli sforzi sulle conseguenze del conflitto in Ucraina, in particolare sulla crisi alimentare e su quella libica. Ha segnato un possibile nuovo inizio nelle relazioni bilaterali dopo l’incidente diplomatico del 2021, quando Draghi definì Erdogan “un dittatore con cui si era costretti fare accordi”. L’obiettivo del vertice era rivisitare e implementare le relazioni bilaterali in tutte le sue dimensioni e approfondire e sviluppare la cooperazione.
Non v’è dubbio che l’invasione russa abbia rafforzato la centralità strategica di Ankara. Ma a guidare le scelte di politica estera di Erdogan sono le esigenze di politica interna se non addirittura personali e non tanto il contesto internazionale. Entro giugno 2023, anno del centenario di fondazione della Repubblica di Turchia, il presidente dovrà affrontare le elezioni più critiche della sua carriera e non è un caso dunque che la politica estera in questi ultimi anni abbia perso ogni visione strategica di lungo termine perché è dettata dalle necessità di politica interna. In particolare, in questa fase in cui il leader turco vede scemare il consenso dei cittadini verso la sua persona e il suo partito, a causa della grave crisi economico-finanziaria, che registra una inflazione al consumo del 170 per cento, e di un’opposizione più unita e molto più agguerrita, cerca di attrarre capitali e investimenti da ogni paese a partire da quelli più vicini, compresi i suoi storici nemici. Muove le corde dell’ideologia nazionalista e della sopravvivenza della nazione che sarebbe minacciata dal separatismo curdo. Spera di cementare così i suoi sostenitori e recuperare l’elettorato che lo sta abbandonando.
Vincere queste elezioni significa per Erdogan riscrivere una nuova costituzione e consegnare alla storia del passato la repubblica kemalista. Si è posto al centro della scena internazionale nella crisi Ucraina sfruttando i suoi stretti legami con Mosca e Kyiv per svolgere un ruolo di mediatore; nella Nato ha fatto pesare il via libera a Svezia e Finlandia ed è impegnata negli sforzi per l’apertura del “cosiddetto corridoio del grano” che dal porto di Odessa dovrà consentire il transito dei mercantili carichi di cereali attraverso il Mar Nero. Ankara controlla gli Stretti per il Trattato di Montreux del 1936 e ha chiuso il Bosforo e i Dardanelli al traffico delle navi militari.
E’ evidente che l’operazione umanitaria per il trasporto di oltre 20 milioni di tonnellate di grano bloccato nei silos in Ucraina non può avvenire senza l’iniziativa turca. Erdogan punta a relazioni transazionali con tutti i paesi anche con l’Unione europea, di volta in volta incentrate su singoli obiettivi nella distinzione e nel rispetto degli indirizzi strategici dei vari attori. Il leader turco nelle relazioni vuole tenere fuori stato di diritto e diritti umani f per concentrarsi sugli interessi di ciascuno paese nel rispetto della propria sfera di influenza.
L'editoriale dell'elefantino