372 secondi
Il falò di Boris Johnson
Il “gregge” dei Tory, Darwin e l’eredità del premier a tempo. E la gioia oscena del Cremlino
In 372 secondi, Boris Johnson ha annunciato le sue dimissioni da leader del Partito conservatore britannico, ha detto che resterà come premier fino a che non sarà scelto il suo successore e ha sintetizzato la sua visione della politica, del potere, della leadership, rivolgendosi direttamente agli inglesi, che hanno dato ai conservatori “la più grande maggioranza dal 1987”, e non al suo partito, che lo ha affossato seguendo “l’istinto del gregge”.
Il capo viene travolto dalle pecore, perché, come scrive il Financial Times, “la forza di gravità ha avuto il sopravvento”, la legge della fisica vince sulla volontà feroce di non lasciare “il lavoro più bello del mondo”, ma si tiene un pezzo di quel che considera suo, la premiership, fino a quando “il nostro brillante sistema darwiniano” consegnerà un altro leader in grado, o forse in grado soltanto secondo il gregge, di prendere il suo posto perché nessuno, in ogni caso, “è insostituibile”. C’è tutto Johnson in questi 372 secondi, l’ambizioso, lo sfrontato, il mentitore, il vincitore, il più brillante del suo mondo ed eppure il meno compatibile in questo suo mondo. E c’è tutto il Partito conservatore che si è stufato del suo capo istrionico, incontrollabile e scandaloso, e che ora si sente dire proprio da lui che è “eccentrico”, da che pulpito, cacciare il proprio premier mentre c’è una crisi economica, c’è una guerra, c’è una maggioranza così grande che si può rivoluzionare ogni cosa. Resta dunque l’ultimo atto, l’ultima prova di forza.
Molti non hanno ancora accettato il fatto che Johnson resterà a Downing Street fino a quando la base dei Tory non voterà il prossimo leader. Dall’ex premier John Major fino all’ex superconsigliere vendicatore Dominc Cummings passando per molti esponenti conservatori, s’è alzato il coro: Johnson deve andarsene subito. Ci sarebbe anche il nome di un sostituto che corre sulle bocche di molti: Dominic Raab, che fino a due giorni fa difendeva Johnson, che è considerato lealissimo, che ha detto che non si vuole candidare alla leadership dei Tory e che è sufficientemente innocuo da poter essere un buon reggente. In questo coro c’è il risentimento nei confronti di Johnson, ma ci sono anche delle questioni pratiche di gestione del potere: se l’accusa che ha costretto Johnson a cedere alle pressioni è quella di non essere né serio, né competente, né appropriato, se quindi è l’assenza di integrità il peccato imperdonabile, come si può continuare a prendere ordini da lui? Fosse soltanto una questione di credibilità, come pareva all’inizio di quest’ultimo scandalo in cui Johnson ha mentito, ritrattato, s’è scusato e si è di nuovo giustificato, ci sarebbero i margini per un accordo. Ma il gregge si è mosso – compatto, inesorabile, seguendo il solco della prima lettera di dimissioni, quella del cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak – per una ragione ben più profonda e morale che non si può ignorare nei due, tre o forse quattro mesi che separano Johnson dai saluti ufficiali a Downing Street.
I conservatori però non sono riusciti a ottenere da Johnson la fuoriuscita completa, nonostante la forza di gravità, l’unità, la determinazione. Perché? Le ricostruzioni del vertice a Downing Street di mercoledì notte forse ci spiegheranno come è andato il negoziato: per ora sappiamo soltanto che c’erano due gruppi, uno che diceva di tenere duro e l’altro che ripeteva o te ne vai tu o me ne vado io; sappiamo che s’è consumato un altro scontro personale e ne ha fatto le spese Michael Gove, alleato e nemico a seconda delle stagioni, che è stato licenziato da Johnson probabilmente perché non ha fatto in tempo, sbagliando i calcoli, a dimettersi prima lui; sappiamo anche che qualche ora dopo, Johnson si è presentato davanti ai cronisti e ha detto: me ne vado a metà. Qualcuno ipotizza, al di là della volontà di Johnson di vendere cara la pelle, che non si fosse candidato nessuno per il ruolo di reggente (a parte Raab) perché tutti i maggiorenti del Partito conservatore non si vogliono bruciare in questi mesi di transizione, vogliono diventare leader.
Questo spiega come si è organizzato negli ultimi mesi il Partito conservatore, che dal dicembre scorso, quando sono diventate pubbliche le immagini delle feste a palazzo in pieno lockdown (il partygate), trama per destituire Johnson. Tormentandosi, perché la maggioranza in Parlamento è davvero grande e chissà quando e se ricapiterà, ma anche contando le truppe, contandosi, raccogliendo fondi, preparandosi, mordendosi uno con l’altro, perché l’istinto del gregge conservatore è irrimediabilmente cannibale. Ora ognuno vuole giocarsi la sua chance, e così ha lasciato a Johnson questi ultimi mesi, che si prospettano quantomeno instabili, ma che potrebbero anche riservare stravolgimenti non previsti.
Il darwinismo del sistema inglese selezionerà infine il più adatto, mentre Johnson farà i conti con il suo partito (deve anche far funzionare un governo con persone che lo hanno pubblicamente tradito) e con la propria eredità. Che nonostante i toni battaglieri dei 372 secondi non è così brillante: Johnson ha fatto la Brexit, certo, ma l’ha fatta male e sta andando male; Johnson ha cercato di ampliare le opportunità per gli inglesi meno abbienti, ma il suo sogno britannico è un progetto incompiuto; Johnson ha avuto la possibilità di cambiare tutto e ha cambiato poco. Il johnsonismo è una stella solitaria e stentorea a casa sua: nel mondo invece, ha brillato da ultimo per tutti noi con il suo legame speciale con Kyiv, e infatti il Cremlino gioisce della sua caduta.