(1954-2022)
Shinzo Abe è stato assassinato. Storia di un leader
L'ex premier è stato colpito da due proiettili mentre teneva un comizio elettorale. Le conseguenze di un gesto insensato e la sua eredità, per molto tempo confusa nel populismo di destra
Shinzo Abe è stato assassinato. Uno dei volti internazionali della politica nipponica, di sicuro il più riconoscibile, è stato ucciso oggi, mentre parlava a un comizio elettorale davanti a una stazione della città di Nara. La morte dell’ex primo ministro, il più longevo della storia del Giappone, è uno choc collettivo per la società nipponica che ieri mattina ha riscoperto la violenza insensata, le armi da fuoco, e soprattutto l’odio politico. Abe stava presentando il candidato locale del Partito liberal democratico, il suo partito, quello che aveva a lungo guidato, alle elezioni che si terranno dopo domani per la Camera alta della Dieta, il parlamento giapponese. Ci sono questi tre minuti di video che da ieri circolano ossessivamente sui social e ci fanno tornare a un’epoca che sembrava non esistesse più.
Quella in cui la politica e una delle sue manifestazioni per eccellenza – un comizio elettorale – poteva trasformarsi in un momento pericoloso perfino in Giappone, il luogo più sicuro del mondo, dove le armi da fuoco praticamente non esistono. Il sospettato che ha premuto il grilletto di un’arma rudimentale, fatta in casa, si chiama Tetsuya Yamagami. Ha una quarantina di anni, è di Nara, e la polizia ha fatto sapere che non c’è una motivazione politica nel suo gesto, solo “risentimento”.
L’attuale primo ministro Fumio Kishida questa mattina ha sospeso la campagna elettorale, è tornato a Tokyo e ha rilasciato una breve dichiarazione – quando la morte di Abe non era stata ancora confermata – e lo ha fatto piangendo. Più delle parole che ha pronunciato (un “atto barbarico durante la campagna elettorale, che è il fondamento della democrazia, non dovrebbe mai essere tollerato”, ha detto), Kishida si è mostrato visibilmente commosso rompendo uno dei princìpi fondamentali della società giapponese: non mostrare le proprie emozioni. Molto dello stile di governo moderno, aperto al resto del mondo, Kishida lo deve a Shinzo Abe. Che è stato una figura complessa e controversa, ma ha contribuito a dare stabilità al paese quando ne aveva più bisogno, a ricucire i rapporti con alleati riluttanti, ad azzardare politiche economiche per rilanciare un Giappone afflitto da decenni dalla “morte lenta”, la deflazione. Ha funzionato? Non del tutto.
Si era dimesso da primo ministro per due volte, nel 2007 dopo un anno alla leadership, e poi di nuovo nel settembre del 2020. Entrambe le volte la colite ulcerosa cronica aveva costretto Abe ad allontanarsi dal Kantei, il palazzo del governo di Tokyo, e dedicarsi a cure specifiche. Due anni fa lo aveva fatto nel delicatissimo momento della pandemia.
Ma non aveva mai smesso davvero con la politica, e la sua corrente nel Partito liberal democratico era ancora influente. Da quando era tornato a farsi intervistare dai media internazionali sembrava più falco di quanto non lo fosse prima. Ieri uno dei primi messaggi di cordoglio è arrivato dalla presidente di Taiwan Tsai Ing-wen non a caso: Abe aveva più volte lasciato intendere che il Giappone avrebbe dovuto difendere l’isola autogovernata da una eventuale attacco cinese. Eppure, uomo dalle mille contraddizioni come ogni buon politico, Shinzo Abe era stato anche quello che nel momento di peggior crisi diplomatica tra Cina e Giappone era riuscito a ricucire il rapporto con il leader Xi Jinping. E perfino Vladimir Putin ha scritto parole sorprendentemente affettuose nei confronti di Abe, che per anni aveva provato ad avere un dialogo con il leader del Cremlino e risolvere la questione dei Territori del nord, una disputa territoriale tra Tokyo e Mosca che va avanti sin dalla fine della Seconda guerra mondiale. Non era andata bene neanche lì, e il tavolo era saltato all’improvviso. Uno dei suoi rimpianti era stato quello di non essere riuscito ad avere un colloquio con il leader nordcoreano, Kim Jong Un, che aveva incontrato quando ancora era un allievo di Junichiro Koizumi e con il quale aveva un conto in sospeso: i resti dei cittadini giapponesi rapiti dai nordcoreani negli anni Settanta e Ottanta, in memoria dei quali Shinzo Abe indossava sempre, nelle occasioni pubbliche, il fiocchetto blu sul bavero della giacca.
Di persone che lo odiavano e lo contestavano in Giappone ce n’erano tante, ma forse erano di più all’estero. Quello che ha davvero frenato l’azione di governo di Abe è stata la sua storia familiare e il suo non voler scontentare troppo i revisionisti e i gruppi dell’estrema destra giapponese. Forse era una questione di Tradizione, un modo per non rinnegare suo nonno, Nobusuke Kishi, primo ministro del Giappone tra il 1957 e il 1960, considerato un criminale di guerra sfuggito alla giustizia perché aveva collaborato con gli americani (a portare il suo cognome oggi è il fratello più piccolo di Abe, Nobuo Kishi, attuale ministro della Difesa giapponese). Abe era accusato di essere un revisionista, come quelli dell’associazione di cui faceva parte, la Nippon Kaigi, eppure c’era qualcosa di strano nel suo volere davvero il ritorno del Giappone imperiale – cioè modificare la parte più importante della Costituzione giapponese scritta dagli americani, l’articolo 9 in cui si vieta al paese di avere un esercito. Nei suoi anni al governo non aveva mai fatto davvero il passo definitivo per la riforma della Carta, che mai avrebbe passato la prova del referendum popolare. Il nazionalismo, insomma, era solo una parte della sua storia. In Giappone più di qualcuno diceva: tornerà. E lo dicono anche oggi.