Il Foglio Weekend
L'uomo che creò Putin
La fine dell’Urss, l’ascesa degli oligarchi, e il trionfo del piccolo zar riluttante. Il romanzo del Cremlino raccontato da uno dei suoi protagonisti, immaginario ma non troppo. Alla scoperta di Giuliano da Empoli
Tutto quello che avreste voluto sapere su Putin ma non vi hanno mai detto. Come spesso succede la verità la si può trovare più agevolmente nella finzione, e così per chi volesse addentrarsi in quel grande vaudeville che è stata l’ascesa di Vladimir Putin in Russia può leggere “il mago del Cremlino”, il romanzo di Giuliano da Empoli uscito da poco per Mondadori. E’ la storia – immaginaria - di Vadim Baranov, grande consigliere e spin doctor, personaggio di finzione ma ispirato a Vladislav Surkov, uno dei grandi consiglieri del Cremlino, di cui non si hanno più notizie. Il romanzo, che è uscito prima con Gallimard in Francia dove ha venduto oltre cinquantamila copie e ottenuto ottime critiche, è il grande flusso di coscienza di questo personaggio che incarna un’autobiografia russa dell’ultimo secolo. Nipote di un nobile zarista, figlio di un alto funzionario dell’Urss, Baranov decide di giocarsi anche lui le sue carte al servizio dell’autocrate di turno, e così si butta su una carriera di consigliere nella nuova Russia che nasce sulle macerie di Gorbaciov e della Perestrojka.
Il padre lo voleva ambasciatore ma lui è un creativo, comincia dal teatro e poi si dà alla televisione, ma non sospetterà che dopo l’incontro con Boris Berezovskij, boss della tv di Stato e gran cialtrone, che finirà impiccato con una sciarpa di cachemire, arriverà la chiamata del piccolo e apparentemente insignificante capo del Kgb, che all’epoca nessuno sospettava futuro Zar. Il monologo di Baranov ripercorre gli ultimi tre stadi della storia recente russa e soprattutto il mondo che nasce sulle ceneri dell’Urss, quando Mosca è una specie di grottesca Las Vegas dove ci si può arricchire in una notte, basta andare alla festa o all’orgia giusta, magari proprio nel palazzo di Berezovskij. Una Russia che ha voglia di buttarsi alle spalle il grigiore rispettabile dell’Unione Sovietica. “Prima regola: non essere noiosi. Tutto il resto era secondario. I notabili sovietici avevano tentato di asfissiare il paese sotto una cappa di noia impenetrabile. Ora potevamo permetterci tutto, fuorché la monotonia”. Come un Barney Panofsky moscovita, Baranov capisce che i nuovi russi agognano la libertà, e cosa c’è di più libero del trash?
“Facevamo una televisione barbara e volgare, com’è nella natura del mezzo. Gli americani non avevano più nulla da insegnarci, anzi eravamo noi a spingere più in là le frontiere del trash”. Il passaggio della grande storia su piccoli e medi uomini cade come percolato da una serie di episodi, di segni, di presagi minimi. Quando muore il padre del protagonista, uno che aveva passato una vita in vista solo di un “bel funerale”, cioè onori del partito e rispettabilità e auto Zigulì di Stato, implode tutto. All’ospedale, nessuno se lo fila. Tutti gli occhi sono invece per una megera ingioiellata moglie di oligarca che racconta di cose mai sentite: Sardegna, aragoste, Cartier. Anche Vladimir Putin, l’ometto dall’aria “minerale” che ascende alle massime cariche quasi recalcitrante, è ancora legato al mondo di piccoli lussi sovietici come la vertuška, il telefono speciale che viene installato solo ai grandi ufficiali, corredato da elenco in pelle di tutti i fortunati, ovviamente tutti controllati dal regime. O al paniere di beni di lusso, la kremliovka, con le vivande riservato agli alti funzionari del Comitato centrale (“i pirožki al salmone e le costolette di agnello, le caramelle Lenov e le arance dell’Azerbaijan”).
La Russia di Baranov è quella delle possibilità, è una specie di teatro dell’assurdo e del possibile, declinato come omaggio alla follia grandiosa che fa la differenza dell’identità russa. “I russi non sono e non saranno mai come gli americani. Non gli basta mettere da parte i soldi per comprarsi la lavastoviglie. Vogliono far parte di qualcosa di unico. Sono pronti a sacrificarsi per questo”. Voi europei smidollati, dice Baranov, avete sognato il comunismo ma noi l’abbiamo realizzato, e tenuto in vita per settant’anni. Voi americani fenomeni avete prescritto il liberismo ma noi soli l’abbiamo realizzato: nessuno può dire di aver abitato il vero liberismo se non ha vissuto nella Mosca degli anni Duemila, con le Mercedes 600 nere con lampeggiante abusivo che sfrecciano sferzando i passanti come i nobili zaristi duecento anni prima in carrozza. Se a Wall Street c’è il toro, a Mosca c’è l’orso, ma il liberismo russo rappresenta anche lo stadio del non ritorno dell’umiliazione nazionale e identitaria che poi prepara il putinismo. Ecco dunque la Russia impresentabile coll’esercito ormai corrotto e imbelle, e il presidente Boris Eltsin sbevazzone, che viene preso in giro da Clinton, il grande ammaestratore della madre Russia, colui che ha portato la Nato alle porte dell’Orso, quando si pensava alla fine della storia e alla Russia come un ex nemico ora placido fornitore di idrocarburi.
In un incontro di Stato che si trova anche su YouTube, Eltsin “inizia a concionare, visibilmente non del tutto sobrio. Mentre il vocione del nostro presidente risuona nell’aria, Clinton scoppia a ridere. Il problema è che Clinton non si ferma. Non riesce a trattenersi: il vecchio orso, barcollante, ridicolo, lo fa proprio sbellicare. Clinton ha le lacrime, il viso paonazzo, continua a sganasciarsi. Inchiodati di fronte alla televisione tutti noi russi lo imploriamo interiormente di smettere. Conosciamo Eltsin, le sue abitudini, le sue debolezze. Ma è il presidente della Federazione Russa, per Dio, lo Stato più esteso del pianeta, una superpotenza nucleare! Niente, Clinton non riesce a smettere. Ora barcolla anche lui, dà grandi pacche sulle spalle di Eltsin che, per quanto ciucco, appare perfino leggermente imbarazzato. Una nazione intera, centocinquanta milioni di russi, sprofonda dalla vergogna sotto il peso degli sghignazzi del presidente americano”.
Il viaggio alle Nazioni Unite di Putin, la prima grande kermesse all’estero, è decisiva nel forgiare la sua paranoia revanscista, col piccolo dittatore in nuce deluso che il corteo sia più modesto di quelli che gli riservano in patria, e che alla fine alle Nazioni Unite ci son duecento delegazioni e diventi, tu, zar di tutte le russie, un omino in mezzo alla folla. Altre umiliazioni. “Ogni volta la stessa storia. Mi trattano come se fossi il presidente della Finlandia. Peggio, perché́ la Finlandia per loro è un paese civile, mentre noi siamo la Russia selvaggia, una specie di barbone alcolizzato che si aggira fuori dal portone. Magari hanno ragione loro. Siamo stati noi per primi a comportarci da mendicanti, un sorriso per tutti e il piattino delle elemosine bene in vista.” “L’unica arma che ha un povero per conservare la sua dignità è incutere paura”.
Così, per sanare l’umiliazione, per ritrovare una grandeur impossibile nella realtà, Putin deciderà, nel romanzo, di servirsi di Baranov per creare una nuova immagine di sé e del Paese. Una nuova realtà. Non più la Russia dolcemente corrotta degli oligarchi 1.0, terra di conquista e di McDonald’s, ma quella feroce che conosciamo oggi. “Clinton è rimasto deluso, certo. Pensava che ormai tutti i presidenti russi non sarebbero stati altro che bonari portieri d’albergo, messi a guardia delle più vaste risorse di gas del pianeta per conto di qualche multinazionale americana”.
Da Empoli, dica, non sarà mica putiniano. “No di certo. Non è più possibile, anche volendo, oggi. Mentre scrivevo il libro c’era ancora forse spazio per una riflessione, per un’ambiguità, ma oggi sarebbe proprio impossibile”. Il libro, con incredibile tempismo (la storia si dipana fino alla guerra all’Ucraina) “è stato iniziato tanti anni fa, quando mi imbattei nella figura di Surkov, e poi l’ho continuato, e l’ho consegnato al mio editore francese nel 2021”. E a Mosca ci ha vissuto? “No, mai, ci sono stato quattro volte, la Russia è però una mia grande passione”. Ci tornerà? ‘Be’, adesso è molto difficile, con le nuove leggi che puniscono qualunque attività antirussa, rischierei 15 anni di carcere, preferirei evitare. Mi dispiace però molto per i russi, per un sistema che non hanno avuto la forza di cambiare”. E’ il suo primo romanzo, dopo una sfilza di saggi tutti a tema politico. “E pensare che proprio questa volta volevo scrivere qualcosa che prescindesse dall’attualità”. Già, come si legge nel romanzo, tu puoi anche non pensare al potere ma quello penserà a te. Comunque dal libro si capisce la frequentazione che l'autore ha col potere e la politica.
Da Empoli infatti, che ha 48 anni, oggi vive a Parigi dove insegna politica comparata a Science Po, e tiene un corso su “poesia e prosa in politica”, “da una frase del vecchio Mario Cuomo, ‘si fa campagna elettorale in poesia e si governa in prosa’. Analizziamo la differenza tra la retorica della campagna elettorale e la realtà del governo”. Tipo innamoramento e amore: Alberoni della politica. “Già”, ride da Empoli, che però sguazza da sempre tra queste due passioni, politica e letteratura, ingredienti principali della sua, di storia. Il padre era infatti Antonio da Empoli, consigliere economico di palazzo Chigi ai tempi di Craxi, la madre svizzero-tedesca, protestante, appassionata di letteratura. “Sono nato a Parigi, dove mio padre aveva un impiego all’Ocse, poi a Bruxelles, e a un certo punto torniamo a vivere a Roma, a Vigna Clara, Roma Nord, un posto scelto da mia madre che voleva grandi spazi e un po’ di natura. Nel 1986, io ero in seconda media, mio padre viene gambizzato da un commando terroristico, davanti casa”. Scampoli di anni Settanta fuori tempo massimo, Unione Comunisti Combattenti, gruppo nato da una scissione delle Brigate Rosse. “L’autista lo aveva accompagnato come ogni giorno all’edicola a comprare i giornali per poi proseguire verso palazzo Chigi, e lì lo attende un commando: sparano, lo colpiscono alle gambe. Ma l’autista che è un carabiniere risponde al fuoco, e ucciderà la terrorista, che è Wilma Monaco, 28 anni, ex-moglie di Gianni Pelosi, un altro brigatista arrestato nel 1985 insieme a Barbara Balzerani, storica componente della colonna romana delle BR. Poi per anni abbiamo vissuto abbastanza in ansia, tra allarmi di altri possibili attentati. Da lì è rimasta in me l’idea molto chiara che il potere è una cosa estremamente violenta”.
Poi da Empoli si è fatto strada nella Roma anni Novanta, enfant prodige della saggistica generazionale, pubblica un suo primo saggio a 23 anni, diventa una specie di piccola celebrità coccolata dai giornali. Viene notato da Antonio Maccanico, “comincio a scrivergli dei discorsi. Il primo, un messaggio di saluto per una associazione che doveva andare a visitare a Potenza, e non poteva più. Io scrivo questo messaggio sul perché non può andare a Potenza, e evidentemente è piaciuto”. Poi altri discorsi, entra nell’orbita dei post-Pci, i Velardi, i lothar di D’Alema, poi c’è la stagione fiorentina, consigliere di Renzi, assessore alla cultura a Firenze. Poi la nuova vita parigina. E questa attività di scrittura, sempre tra politica e letteratura. Sono diversi i due ambienti letterari, quello italiano e quello francese? “Be’, in Francia c’è come la sensazione che un sistema culturale, con le riviste, i premi, i critici, sia magari in declino, come pensano loro, ma ancora in piedi e ben solido”, dice da Empoli. E i libri dei politici? “Molto diversi. Lì funziona soprattutto la memorialistica, i diari, che è una tradizione culturale francese oltre che anglosassone. I vari Saint Simon, Talleyrand, e poi dopo Mitterrand. In Francia ogni scrittore vorrebbe essere politico e ogni politico scrittore. Bruno Le Maire, attuale ministro dell’economia, ha pubblicato più di dieci libri. Alcuni non sono male. Anche se più vanno avanti e meno sono belli. Perché se stai al potere non è che puoi scrivere la verità. Il potere o lo eserciti o lo racconti”.
Ma anche da noi i politici non fanno che scrivere libri. “Sì, ma in Italia c’è più il libro del politico come mezzo, per andare in televisione, o come strumento di lotta politica, o di guadagno”. E a proposito di memorie, una, sui suoi viaggi con Renzi? “Con Filippo Sensi, portavoce, avevamo stilato una specie di graduatoria costruita sulle serie tv americane a tema Casa Bianca. C’è West Wing, l’epica del potere buono; scendendo, al secondo gradino ecco House of Cards, il potere fine a sé stesso, machiavellico; al terzo, Veep, cioè la surrealtà del potere, gli eventi assurdi che uno da fuori non si immagina. Alla fine di ogni missione davamo un voto, e spesso c’era solo il 5 per cento di West Wing, il 10 di House of Cards, e una schiacciante maggioranza, diciamo 85 per cento, di Veep”.
E il dibattito politico italiano come le sembra? “Molto diverso da quello francese. Vedo che qui resiste molto la formula del telegiornale, sempre uguale, ‘si è riunita la assemblea del Pd, è in corso il comitato’, col panino. E poi in generale sui media un linguaggio che, unico caso al mondo, credo, negli ultimi quindici anni si è allargato più che restringersi. Altro che politicamente corretto, sui giornali italiani leggo cose incredibili, che in Francia farebbero urlare allo scandalo”. Eppure molti pensano di vivere in una dittatura del politicamente corretto. Mondi alternativi, come quello che Baranov è incaricato di creare nel libro: con Putin ossessionato dalle Olimpiadi di Sochi (dove viene ricreato un finto aeroporto con finti turisti in realtà attori quando arrivano gli ispettori olimpici in visita), fino al Dombass dove vengono creati con un casting finti rivoluzionari, falsi partiti, movimenti immaginari. Il libro ha momenti esilaranti, come la cooptazione di Alexander Zaldastanov (figura reale), chirurgo estetico, fondatore dei “lupi della notte”, gruppo di motociclisti iperputiniani, spediti in Crimea e Ucraina a contrastare i moti antirussi. E quando devono convincere il recalcitrante Putin a candidarsi, il Putin che sa di non essere un grande oratore, che non ama il contatto con le folle, lo convincono che proprio il distacco sarà la cifra vincente, e come esempio, gli citano Greta Garbo.
Alla fine insomma uno spin doctor pare anche un grande regista teatrale. Da Empoli, lei era il Baranov di Renzi? “No, no, per carità”, ride. Nel romanzo c’è questa frase: “Il vero consigliere appartiene a una razza del tutto diversa da quella del potente. In realtà è un pigro. Sussurrate nell’orecchio del principe, le sue parole producono il massimo impatto senza che lui si sia dovuto sobbarcare le fatiche dell’ascesa. Poi se ne torna tranquillo nella sua biblioteca, mentre le bestie feroci continuano ad azzannarsi sotto la superficie dell’acqua”. E’ lei, questo, da Empoli? “No, direi di no, ma è una frase certamente vera. Non c’è niente di più diverso del ruolo del consigliere e quello del principe. Il bello del consigliere è che se ne sta protetto all’ombra, al riparo dei rischi. Ma il contrappasso è anche la frustrazione dei consigli quasi mai seguiti. Nelle memorie di Georges-Marc Benamou, consigliere di Sarkozy, si racconta che quando il presidente francese venne eletto, gli consigliarono per mitigare la sua aria un po’ yankee e affarista di trascorrere la vigilia in qualche posto tipo un monastero, per dargli un’aura più seria e sacrale, e lui per tutta risposta si fece trovare direttamente sullo yacht di Bolloré, con i Ray-Ban a goccia. Questa è la contropartita del consigliere: che il consigliato fa poi sempre quello che gli pare”.