Dall'Ucraina
In una piccola casa di Odessa dove la provvisorietà viene trattata come stabile
Le poesie con Misha, i ritratti di donne tra le macerie, le chiacchiere sulla letteratura russa in mezzo ai quadri e il documentario sulla Casa della parola di Kharkiv
Odessa, dal nostro inviato. Pressoché ogni giorno Misha mi dà un imperioso appuntamento al mercato mondano Alexandrovskiy, per consegnarmi un nuovo regalo – Presént! (Oggi una raccolta di cartoline seppiate di Roma alla fine dell’800). E insegnarmi qualche nuova cosa su Odessa, con la convenzione che io capisco un ventesimo di quello che mi dice e così lui. Sa molte poesie a memoria e le recita con passione, e le poesie hanno sempre un bel suono, specialmente in russo. Per esempio oggi, domenica, ha recitato a lungo poemi di Josif Brodskij – eravamo arrivati a parlarne perché è sepolto a San Michele, e vedrete che domani Misha arriverà con certe cartoline antiche di Venezia.
Oggi ero venuto col traduttore vocale sull’iPhone, così posso provare a ricostruire che cosa stava recitando. La versione del mio iPhone è misteriosa: “Leggi sul russo del risveglio di una croce nera sul petto, gli italiani non solo non sono con modelli di lucentezza, una famiglia povera tenuta da un solo figlio, violenza giovane”. Dev’essere (citato da Brodskij?) Michail Arkad’evichč Svetlov, ebreo ucraino di Ekaterinoslav-Dnipro (1903-1964), il quale nel 1943 scrisse questo “L’italiano” (lo copio tradotto da Vittorio Strada, una versione in rima è sul blog di Paolo Statuti).
“Una croce nera sul petto dell’italiano, / senza intaglio, rabesco, splendore, / conservata da una famiglia povera / e portata dall’unico figlio… / Giovane nativo di Napoli! / Cos’hai lasciato sui campi di Russia? / Perché non hai potuto esser felice, / circondato dal celebre golfo? / Io che ti ho ucciso vicino a Mozdok / sognavo tanto il vulcano lontano! / O, come sognavo nelle distese del Volga / almeno una volta di andare in gondola! / Ma io non son venuto con la pistola / a portarti via l’estate italiana / e le mie pallottole non hanno fischiato / sulla santa terra di Raffaello! / Qui ho sparato! Qui dove sono nato, / dov’ero orgoglioso di me e degli amici, / dove gli epici canti dei nostri popoli / non risuonano mai in traduzioni. / Forse che l’ansa del medio Don / è studiata da uno scienziato straniero? / La nostra terra, la Russia, la Rus, / l’ha seminata una camicia nera? / T’hanno portato qui in una tradotta / per conquistare lontane colonie, / perché la croce del cofanetto familiare / crescesse alle dimensioni d’una croce di tomba… / Non permetterò che la mia patria sia portata / oltre le distese di mari stranieri! / Io sparo. E non c’è giustizia / più giusta della mia pallottola! / Non sei mai stato né vissuto qui!… / Ma è sparso sui campi nevosi / l’azzurro cielo italiano, / sotto il vetro degli occhi morti”.
Si impara. Sabato invece Misha aveva recitato a lungo altri versi, e avevo capito che fossero di Guber. Non sapevo che Boris Guber avesse scritto poesie, e in realtà non sapevo nemmeno molto altro, se non per aver letto delle biografie di Vasily Grossman, che nel 1936 si era unito alla moglie del suo amico Guber, scrittore del gruppo Pereval, “Il passaggio”, o “Il varco”, come Ivan Kataev e Nikolai Zarudin. Ol’ga Michailovna aveva 5 anni più di Grossman e due figli con Guber, che accolse la cosa con dignità. Grossman veniva accolto nell’Unione degli scrittori mentre Guber veniva licenziato, additato come Nemico del popolo (vrag naroda) e, nel 1937, come i suoi compagni, fucilato, a 34 anni. Anche Ol’ga fu arrestata per non aver denunciato il marito, ma entro sei mesi Grossman, che aveva adottato i figli, riuscì a farla liberare. Uno dei figli morì in guerra, l’altro, Fjodor, ha curato la memoria e la pubblicazione di documenti sul padre adottivo. Mi aveva colpito che Misha e i suoi amici conoscessero Guber, addirittura a memoria, e mi ero detto che fosse dovuto alla loro anzianità, alla loro ebraicità, e forse a un passato di comunisti irregolari.
Dopo aver preso commiato da loro, mi sono imbattuto, proprio di fronte all’albergo, in una mostra performance di artisti, donne e uomini, sulla guerra: sculture, dipinti, manifesti. Questo Rinok è sempre fervido di attività artistiche, di discussioni, di musica – c’è spesso un concerto del pomeriggio da un balcone del “Teatro del balcone”, di jazz, o classica, o rock. Oggi espongono ritratti di donne tra le macerie di questa guerra che evocano il campo di sterminio. Manichini femminili sezionati e marchiati con la data 24-2. Rilievi in miniatura di lamiera scarlatta di un territorio di guerra su un corpo di donna. Naturalmente mi sono intrufolato. Tre di loro, Sergej, Kostia e Oksana mi hanno invitato ad andare al Museo dell’arte occidentale e orientale, che è chiuso ma apriva una stanza a pianterreno per proiettare dei film inediti. In realtà l’itinerario è stato più tortuoso. Prima siamo passati da una cave suggestiva, addobbata di strumenti musicali, un palchetto per i suonatori, e ingredienti motociclistici, Sergej ha messo in carica la sua scultura scarlatta che evidentemente fa anche qualcosa di dinamico – spero che non si autoesploda, perché è bella e ha una precisione quasi giapponese. Da lì siamo andati a casa di Kostja, che Sergej era eccitato di mostrarmi: è la vera casa della vecchia Odessa, vedrai. (I tre sono quarantenni, più o meno, sembrano più giovani).
Kostja è nato in Israele, i suoi sono là, lui è tornato. Sergej è nato in Russia da un ingegnere e una dottoressa, ha vissuto con loro a Mosca, in Kazakistan – a Bajkonur e Almati – in Carelia, a Cuba, non so dove altro, e ora a Odessa. E’ cameraman e come tutti non lavora, perché con la legge marziale è restato solo un canale aperto. Di Oksana so meno, ma conto di rivederla.
La casa di Kostja è davvero formidabile. Prima di tutto perché è in un vero cortile di Odessa, di quelli di cui parlano Babel’ e tutti gli altri, con un noce di cui si possono raccogliere le noci dalla finestrina della stanza, a un’altezza di primo piano, cui si arriva da una scala a pioli, come su un bastimento. L’intero appartamento non avrà 20 metri quadri e non ha nessuna vera separazione – me ne intendo, ho vissuto in una cella singola. E’ magnificamente gremito.
Kostja fabbrica quadri di diversa materia sui quali sono innestati gli oggetti più vari, ma anche il resto della casa affastella le cose più varie così che non c’è una vera soluzione di continuità fra le opere e l’esistenza quotidiana – ero lì da dieci minuti, stando attento a non urtare gli altri, e a piedi scalzi, e mi sentivo già parte dell’arredo, o dell’esposizione. Per giunta, ero reduce fresco dalla “Bohème” al Teatro Nazionale, e mi aspettavo solo che Oksana, rossi capelli, si mettesse a cantare Mi chiamano Mimì. In casuale bilico sono numerosi libri, di arte molti, ma anche vecchi volumi russi, greci, e soprattutto ebraici, eredità di famiglia.
Eravamo lì, in quattro – qualcuno di troppo, alla lunga – ma in una provvisorietà che ciascuno trattava come stabile. Sergej faceva il tè, Kostja suonava un vecchio trombone di ottone ancora luccicante, Oksana rifiniva con una matita rossa, forse cosmetica, un quadro di metallo con ferite e cuciture di fil di ferro, io fotografavo e sfogliavo i libri – un Nikolaj AlekseevichčNekrasov (che era nato a Vinnycja, fra qui e Lvov, nel 1821) che forse è una prima edizione. (Nekrasov, lodato da Dostoevskij, scrisse in morte di una cavallina, fondando una meravigliosa tradizione). E’ stato a questo punto che Sergej si è rivelato anche un cultore di letteratura russa – in russo, diciamo – e in particolare di Dostoevskij e, trovando in me piena corrispondenza, e la solita inadeguatezza linguistica, ha entusiasticamente inaugurato il traduttore vocale del suo telefono, che è piuttosto vasto e pieno di crepe sullo schermo, come certi quadri falsi che si riempiono di cretti per invecchiarli, e ho capito perché quando l’ho visto picchiare sui caratteri coi suoi polpastrelli da scultore.
In breve: il romanzo preferito di Sergej è “Delitto e castigo” (il mio “L’idiota”, salva la decisione imperdonabile di lasciar uccidere Nastas’ia Filippovna). Abbiamo aperto e lasciato ricadere una discussione sui Diari e l’antigiudaismo. Sergej si è rivelato altrettanto maldestro di me col telefono, e dopo parecchi tentativi di installare l’italiano si è rassegnato alla traduzione dal russo allo spagnolo, così quando toccava a me parlavo in castigliano. Riproduco un piccolo campione delle schermate di Sergej, a più riprese: “Dostojevskij mi escritor preferido. He leido Crimen y castigo 7 veces. La primera vez que leí el castigo del crimen en un día y medio y luego tuve pesadillas. /Incubi, ebbe gli incubi/. Me gustó tanto el castigo del crimen que terminé haciendo un cortometraje basado en este trabajo y parte de esta película fue filmada aquí en el armario de Kostja por Rodion Raskolnikov”. Fino ad arrivare al punto: “Por cierto, tengo la teoría de que Porfirj Petrovich es un Dostojevskij homosexual sobre esto, tal vez se mensionen en sus obras”. Non posso riportare l’intero seminario, che ha un capitolo brillante nella indicazione della somiglianza dell’appartamento di Kostja con quello di Raskolnikov. Io, gli dico, l’ho letto tre volte. Forse quattro, in realtà.
Finalmente andiamo a vedere il film. E’ già cominciato, anzi un film sta per finire. E’ un soldato che torna dal fronte in permesso, dalla sua giovane moglie e dal bambino, e il dolore di lei e di tutti. La proiezione avviene, su uno schermo medio, in una stanza gremita – non c’è mai alcun segno di attenzione al Covid a Odessa. Straniero e vecchio, mi procurano un rischioso sedile girevole. Il prossimo film è del 2021 e tratta di un argomento che conosco, sul quale ho visto un documentario efficace di pochi anni fa, dello stesso regista, Taras Tomenko: la Casa della parola, “Budynok Slovo”, l’edificio costruito alla fine degli anni Venti a Kharkiv, allora capitale dell’Ucraina sovietica, per ospitare gli scrittori più illustri del periodo della “ucrainizzazione”. Cui negli anni 1932-33, nei mesi del Holodomor, Stalin e la sua polizia misero bruscamente fine, così che alla fine del decennio ben 40 dei 66 titolari degli appartamenti, e le loro famiglie, erano stati arrestati e liquidati, o si erano suicidati.
Quello che era stato chiamato Rinascimento rosso si chiamò Rinascimento giustiziato. Il film è essenziale nel mostrare i conflitti personali degli scrittori spiati e minacciati dalla polizia segreta, con mogli e figli consapevoli che la loro resistenza ne segnerà la rovina, con colleghi e amici che sanno di doverli rinnegare per salvarsi, con se stessi e la propria fede nel comunismo, che vedono tradito e sporcato – e alcuni scelgono il suicidio come un’estrema denuncia del tradimento.
A differenza dei miei amici ebrei e anziani, la piccola folla che è accalcata a guardare il film è composta per la gran maggioranza da giovani, per i quali l’argomento sembra avere l’interesse che avrebbe avuto da noi di sinistra negli anni Sessanta.
Il prossimo film è girato a Mariupol, c’è il mare, l’acciaieria, l’amore precoce di un adolescente per la giovane madre il cui marito combatte, la conclusione sul disincanto – ma ho capito poco, non c’erano sottotitoli.
All’uscita, Sergej mi avverte che in un altro locale sta per cominciare un concerto di jazz. Mi scuso, la giornata è stata piena, e bisogna cenare prima del coprifuoco. Mi riprometto di chiedere a Misha, domenica, che cosa pensa dell’interesse dei giovani, almeno di alcuni, per storie di fede politica tradita e umiliata come quella della Casa della parola di Kharkiv, della liquidazione di Babel’, di Mykola Hvyloviy, di Michailo Yaloviy, che scrisse su un foglio: “L’arresto di Yaloviy è l’esecuzione di un’intera generazione. Per che cosa? Per essere i più sinceri comunisti? Non capisco. Viva il comunismo. Viva il Partito comunista” – e si sparò. Del Guber che lui ieri citava a memoria. Misha è sorpreso, poi la cosa si chiarisce: lui ieri recitava una parodia di Michalkov, in versi, di Oleg Gubar, Oleg Yosypovich Gubar (1953-2021) scrittore, giornalista, musicista, autore di molti libri sulla storia di Odessa e gran protagonista della vita cittadina. Gubar, con la A.