Le ultime testimonianze sull'assalto al Campidoglio sono preoccupanti per Trump
Nell'udienza di ieri due dei partecipanti ai fatti del 6 gennaio 2021 hanno confermato di essere stati fomentati dall'ex presidente. Che avrebbe anche cercato di contattare un teste
"Be there, will be wild!": questo aveva twittato il 19 dicembre 2020 il presidente in carica Donald Trump. Un tweet che di fatto era una chiamata per tutti i suoi più accesi sostenitori. Un tweet che in poche ore fu ripreso da centinaia di account e canali social (incluso quello, seguitissimo, dei complottisti in capo di Infowars) e che, di fatto, ha dato il via all’organizzazione del quasi golpe, del 6 gennaio 2021.
Cosa voleva dire con quel tweet il presidente sconfitto e intenzionato a non cedere il passo? Voleva dire “venite e facciamo casino”? Oppure voleva dire quello che risulta aver scritto in un tweet rimasto in bozze “Farò un grande discorso alle 10:00 del 6 gennaio all'Ellisse (a sud della Casa Bianca). Arrivate presto! Poi in marceremo sul Campidoglio. Stop the Steal!”?.
Scoprire il senso di quei tweet, di quelle parole, del discorso tremendo che Trump ha tenuto all’Ellisse, è il compito della Commissione di indagine del Congresso incaricata di scoprire se e quanto Donald Trump fosse a conoscenza del fatto che quel giorno ci sarebbe stata una rivolta violenta e se, addirittura, non ne sia stato uno degli architetti.
Per questo, ieri, all’udienza di ieri hanno testimoniato due persone che, il 6 gennaio erano lì, che hanno marciato, che hanno divelto porte e finestre, che hanno minacciato, che hanno sognato, davvero, di ‘hang Pence’, appendere Pence. Uno è stato Stephen Ayers: un tizio con i capelli rossi corti e gli occhi terrorizzati, che pochi mesi fa si è dichiarato colpevole di ‘condotta disordinata’ e aspetta per settembre la sua sentenza. Oggi dice di essere sconvolto, pentito e pure un po’ disgustato da quello che ha fatto. Ma dice anche che, di fatto, non vi ci si riconosce. Come se quelle azioni non facessero parte dell’orizzonte delle cose che credeva possibili nella sua vita. Eppure, le ha commesse, eccome. E le ha commesse dice perchè fomentato dal discorso di Trump all’Ellisse e, prima ancora, da quel che leggeva nella bolla trumpiana sui social media, che per settimane non fecero altro che riportare complicate teorie su come le elezioni fossero state rubate, su come Trump fosse il legittimo presidente, su come lo scempio della conferma di Biden andasse fermato, su come il loro presidente legittimo, Trump, questa volta avesse bisogno del suo popolo.
L’altro invece è stato Jason Van Tatenhove. Rispetto a Ayers, che in fondo è un tizio qualunque, Van Tatenhove fino a qualche tempo fa era un pezzo grosso del suprematismo bianco e della destra violenta americana: era il portavoce degli Oath Keepers, uno dei gruppi più vicini a Trump e più presenti e attivi nel tentato golpe. Oggi Van Tatenhove descrive il suo ex gruppo come pericoloso, razzista, violento: “Siamo stati fortunati che non ci siano stati altri spargimenti di sangue dopo il 6 gennaio. Quella avrebbe potuta essere la scintilla di una nuova guerra civile. Ma non so cosa potrebbe succedere con le prossime elezioni”.
Ma il cuore dell’udienza, come è giusto che sia, non sono state solo le deposizioni di due pentiti del trumpismo più militante. Anzi. Quelli sono stati la punta dell’iceberg, l’esempio di come una sapiente, erratica e scellerata propaganda abbia seminato in tutto il Paese la sfiducia nelle istituzioni e la necessità della violenza. Il punto dell’udienza, di questa come di altre, è ‘cosa c’entra Trump?’.
E su questo si sono concentrati altre tre parti dell’udienza. La prima, nella quale la vicepresidente Liz Cheney ha reso noto il fatto che ci sarebbero prove del fatto che Trump abbia tentato di contattare uno dei testimoni convocati dalla Commissione. La seconda, relativa ai messaggi inviati da uno dei più luciferini architetti della propaganda di Trump, Brad Parscale. L’uomo che, sia nel 2016 che nel 2020, gestiva la comunicazione social delle campagne di Trump. Poche ore dopo i fatti del Campidoglio, Parscale scrisse a Katrina Pierson, altra supertrumpiana che “il Presidente stava incitando alla guerra civile” e che “si vergognava di aver contribuito a farlo eleggere”.
La terza, relativa alla testimonianza, registrata, di Pat Cipollone. Cipollone, come Parscale, non è un trumpiano per caso. Al contrario. È (o meglio: era) un duro e puro. Nei mesi in cui ha lavorato alla Casa Bianca, in veste di consigliere, è stato uno dei più solidi e spregiudicati aiutanti del Presidente Trump (per esempio è stato lui a gestire, più di tutti, l’intera faccenda del primo impeachment, quello del 2019). Eppure Cipollone, che trumpiano lo era davvero e senza compromessi, era convinto anche di due cose: che per quanto sporco si possa voler giocare esistono regole di base, come l’esito delle elezioni, che vanno rispettate e che non c’era uno straccio di prova, o anche solo di verosimiglianza, del fatto che le elezioni del 2020 fossero state truccate e non effettivamente vinte da Biden.
Per questo ha raccontato di quanto gli siano tremate le vene e i polsi assistendo a una delirante e urlatissima riunione nello studio ovale tra Trump, Rudy Giuliani, Michael Flynn e altri, convinti che le macchine elettorali andassero sequestrate e che la transizione di potere andasse impedita in ogni modo possibile, anche invocando la legge marziale. Per questo ha detto di aver detto più volte a Trump che avrebbe dovuto concedere e lasciare il posto. Per questo ieri ha testimoniato. Perché, dice “Non è così che facciamo le cose, in America”.