Tra viaggi e alleanze
L'accordo sul nucleare iraniano è fallito e Biden lo sa
Un consulente di Teheran, un analista e un ufficiale ci dicono: "Lo sanno tutti che il deal è morto". Il problema è che manca pure il piano B
Ieri Joe Biden è atterrato in Israele e domani sarà in Arabia Saudita, a unire questi due paesi è una cosa sola: l’Iran. Il presidente degli Stati Uniti aveva un piano per la Repubblica islamica, tornare all’accordo sul nucleare firmato da Barack Obama nel 2015, quando era il suo vice: lo scambio consisteva nella fine delle sanzioni per un limite all’arricchimento dell’uranio nelle centrali iraniane fissato sotto il quattro per cento. Il piano è saltato.
Senza compromessi sulla bozza del nuovo accordo, con il programma nucleare che fa progressi quotidiani, Biden ha due opzioni: accettare che Teheran abbia la capacità di fabbricarsi in casa la bomba atomica o intraprendere un’azione militare per impedirlo. Per l’Amministrazione americana sono due scenari da incubo, il secondo è anche da escludere.
Che le possibilità di chiudere l’accordo siano esaurite lo hanno confermato al Foglio un analista e un ufficiale che erano a Doha, in Qatar, durante l’ultimo round di colloqui e hanno parlato sia con la delegazione americana sia con quella iraniana. Uno ha appena incontrato il ministro degli Esteri della Repubblica islamica, Hossein Amir-Abdollahian, che in questi giorni è a Roma. “E’ finita, l’accordo è morto”, sono le parole che ha usato l’altro dopo aver visto Enrique Mora, l’inviato dell’Unione europea e il regista del negoziato, quello che fa avanti e indietro tra la sala dell’hotel dove c’è la delegazione di Teheran e quella di Robert Malley, l’inviato speciale di Washington – i colloqui funzionano così perché i due gruppi non si vogliono guardare in faccia. Non lo fanno dal 1979, dall’interruzione delle relazioni diplomatiche dopo che i rivoluzionari dell’ayatollah Khomeini hanno preso l’ambasciata americana a Teheran e il potere, eppure alcuni mesi fa si era aperto uno spiraglio: Malley è disponibile (è l’unico diplomatico americano ad aver mantenuto contatti con gli ufficiali iraniani e ad averli incontrati di persona, in passato e in segreto) e, per un istante, anche Amir-Abdollahian aveva aperto a questa ipotesi. Ma un minuto dopo è stato costretto a rimangiarsi tutto.
In Iran esiste un partito contrario al Jcpoa (il nome tecnico del patto nucleare), è più forte di quello favorevole e sta vincendo. Il 13 marzo, quando la guerra in Ucraina era cominciata da poco, il problema della dipendenza europea dal gas di Putin era già evidente e gli Stati Uniti ragionavano sulle soluzioni alternative. L’Arabia Saudita, l’amico che l’amministrazione Biden avrebbe preferito non avere (per l’omicidio di Jamal Khashoggi, per le violazioni dei diritti umani), da questo punto di vista è una risorsa indispensabile. Ma anche con i nemici, date le circostanze, si poteva parlare: in quella fase vengono alleggerite le sanzioni contro il Venezuela e il petrolio di Caracas torna in vendita. Per il Jcpoa sembra un momento magico (e l’ultima occasione): l’occidente ha bisogno di petrolio e l’Iran è il quarto paese al mondo per giacimenti, era già tutto pronto perché nella bozza ci sono scritte le procedure e i meccanismi per togliere le sanzioni ai barili di Teheran. C’erano le condizioni politiche: mentre le bombe russe radevano al suolo l’ospedale ostetrico di Mariupol, per quelli che si oppongono al Jcpoa sarebbe stato più difficile spostare l’attenzione sui crimini degli ayatollah. La Casa Bianca sa che l’accordo ha più nemici che sostenitori, chiuderlo quando i riflettori erano puntati altrove sarebbe stato più semplice. Il momento perfetto. Il 13 marzo piovono missili iraniani in direzione del nuovo consolato americano (in costruzione), accanto a una base militare a Erbil, in Iraq.
Non è un’operazione delle milizie sciite alleate di Teheran nella regione, i missili sono partiti proprio dal territorio della Repubblica islamica e i pasdaran li hanno rivendicati subito. Questo evento è passato sotto traccia perché il 13 marzo è lo stesso giorno del bombardamento russo su Yavoriv, nell’ovest dell’Ucraina e vicino al confine con la Polonia (Biden era in Polonia), ma quello dei pasdaran era un messaggio chiaro. Da marzo non ci sono più stati passi avanti nei colloqui, la finestra si è chiusa. Da Teheran, un consulente del governo (che ha sempre lavorato per l’accordo e ancora lo auspica) dice al Foglio che, dal punto di vista delle singole clausole “la bozza non ha più bisogno di modifiche e sono mesi che aspetta solo di essere firmata. Non viene firmata perché non c’è la volontà di farlo”.
Il passaggio della sede dei negoziati da Vienna a Doha è stato un cambiamento cosmetico, nessuna delle parti ha proposto qualcosa di nuovo. Ogni giorno in cui l’accordo non si fa, né si ammette che è fallito, è un piccolo avanzamento in più per il programma atomico. Le centrifughe arricchiscono uranio al 60 per cento e il livello che serve per la bomba è il 90, ma il passaggio dal 60 al 90 è rapido una volta che c’è la volontà politica (e si è pronti ad affrontare le conseguenze). Il canale israeliano Channel 12 ha detto che i servizi segreti hanno sostanzialmente smesso le operazioni contro le strutture per l’arricchimento perché “ormai l’Iran ha talmente tanto uranio arricchito per farci una o più bombe”. Quindi è più proficuo concentrarsi su altri obiettivi che riguardano comunque il programma, dai missili agli omicidi mirati degli scienziati che ci lavorano.
Il nucleare iraniano, oggi, è al punto più avanzato di sempre: Biden sta visitando i paesi che ne hanno più paura con un piano A fallito e senza ancora un piano B.
I conservatori inglesi