La potenza
Torna il secolo asiatico. Russia e Cina contro tutti
I nostri alleati contro le autocrazie e i neutrali più vicini all’influenza cinese. Pechino inizia a essere in difficoltà, ma la guerra di posizione nel Pacifico va di pari passo con quella di Mosca contro l’occidente e le sue democrazie un po’ turbolente
Il manuale dei giovani destabilizzatori ogni giorno si arricchisce di nuovi capitoli. Prima della guerra, dei bombardamenti e della strategia del terrore ci sono la disinformazione, la manipolazione dell’informazione, le fake news. C’è l’uso funzionale di troll e dei gruppi d’interesse, e poi le tattiche di ricatto e di escalation della tensione. La Russia è stata per anni maestra nella guerra ibrida, ha sfruttato come poteva tutte le occasioni di dialogo e di cooperazione con l’occidente e allo stesso tempo, man mano, ha costruito una realtà parallela – quella in cui viviamo oggi, di contrapposizione, ostilità, conflitto. L’obiettivo dei destabilizzatori è aumentare il potere dell’altra parte, quella che ormai si sta configurando come una larga coalizione di paesi autoritari che hanno soprattutto una cosa in comune: l’odio per l’occidente e per l’America. Nell’altra squadra, quella che non è la nostra, il giocatore di punta però già da tempo non è più la Russia.
La Cina ha studiato alla perfezione il manuale dei giovani destabilizzatori russo, ha appreso le lezioni che potevano adattarsi meglio alle caratteristiche cinesi (cit.) e ne ha aggiunte di nuove: i contributi cinesi si riconoscono perché le azioni per raggiungere lo scopo sono meno bellicose ma più rancorose, di accerchiamento e non di attacco diretto. Alla Cina non piace il caos come alla Russia, preferisce la stabilità, ma solo quella su cui può contare a livello politico. Tutto il resto, soprattutto quelle situazioni in cui vengono fuori le criticità del sistema democratico, sono festeggiate. E rispetto a Mosca, Pechino ha soprattutto un vantaggio: ha i soldi, o almeno li aveva, per finanziare i suoi progetti. La propaganda cinese è spesso più sofisticata di quella del Cremlino, sfrutta le ossessioni occidentali e ci costringe a interrogarci sulla nostra identità. La globalizzazione, la fiducia nella diplomazia, nelle regole internazionali e nello stato di diritto non funzionano più come traino per lo sviluppo internazionale. Diritti universali e democrazia, nella visione del mondo cinese, hanno altri significati, molto meno universali. Il commercio internazionale e il libero mercato si trasformano in armi di ricatto politico.
E poi ci siamo noi. L’Italia è da anni un terreno di prova per testare la destabilizzazione nei paesi sviluppati, industrializzati, la testa di ponte dentro alla coalizione dei paesi che si riconoscono nella democrazia e nello stato di diritto – l’élite, a dire il vero, di quei paesi: l’Italia infatti è nel G7, nella Nato, tra i membri fondatori dell’Unione europea. La propaganda cinese ha lavorato molto bene nel nostro paese, soprattutto negli anni subito prima del 2019, tanto da arrivare con una certa facilità e senza un vero, maturo dibattito pubblico al 23 marzo del 2019, quando c’è stato l’ingresso nella Via della Seta, il grande progetto strategico cinese che ha portato quasi nulla in termini di bilancia commerciale ma molto ha fatto per l’immagine della Cina nel mondo. Ma è stato soprattutto dopo, durante il periodo della pandemia, che gli apparati d’intelligence italiani hanno avuto un bel da fare con Pechino. Proprio in Italia la comunicazione cinese ha sperimentato una nuova, ennesima trasformazione, ha cercato di cancellare l’immagine del luogo da cui tutto è cominciato (con tutti i dubbi sul ritardo nelle comunicazioni dell’epidemia) per assumere il ruolo di salvatrice: le mascherine cinesi, i video fake degli applausi alla Repubblica popolare cinese dall’Italia, i medici cinesi, come quelli russi, in giro per gli ospedali della Lombardia. Poi però è successo qualcosa. Il governo di Mario Draghi, insediato il 13 febbraio del 2021, ha cambiato completamente prospettiva. A Roma si è alzato per la prima volta un muro: il muro della sicurezza nazionale. E il manuale dei giovani destabilizzatori ha funzionato meno da queste parti. Da subito, a Palazzo Chigi è stata rafforzata la presenza di esperti di Cina: non di sinofili, di appassionati di Cina, come ai tempi della Task Force Cina di geraciana memoria, ma di analisti che parlano mandarino e conoscono molto bene le strategie della leadership.
L’Italia è da anni un terreno di prova per testare la destabilizzazione nei paesi sviluppati. L'arrivo di Draghi aveva cambiato tutto, dalla propaganda al Golden power. Ora che si fa?
Ai rappresentanti delle istituzioni è stato sconsigliato di trasformarsi – a volte involontariamente, a volte meno – in cassa di risonanza della propaganda. Infatti per un lungo periodo l’ambasciata cinese in Italia si è mossa silenziosamente, sottotraccia, senza grandi proclami. E l’allontanamento di Roma da Pechino l’ha confermato pure l’ambasciatore cinese a Roma, Li Junhua, che in un’intervista all’Ansa a maggio ha risposto a una domanda molto precisa sul raffreddamento delle relazioni, “complici la pandemia e ora l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia che vede Roma e Pechino su due sponde opposte”. L’ambasciatore Li ha risposto che ” le relazioni sino-italiane hanno fondamenta profonde e una forte tenacia”. E la tenacia è soprattutto cinese, a dire il vero: secondo fonti del Foglio, i funzionari dei colossi delle telecomunicazioni con base in Italia avrebbero cercato insistentemente un modo per approcciare e guadagnare posizioni nella neonata Agenzia per la cybersicurezza – senza successo. Non a caso l’Agenzia è stata fortemente voluta dal governo Draghi. Nel corso del 2021 il Golden power, cioè l’esercizio dei poteri speciali del governo per frenare eventuali acquisizioni straniere contro l’interesse nazionale e la sicurezza, è stato usato dal governo Draghi sette volte (su un totale di 26 volte in cui i vari Consigli dei ministri hanno approvato il suo utilizzo sin dall’introduzione della legge, nel 2012). Ma ad aumentare, con il governo Draghi, è stato soprattutto l’ambito di applicazione: l’anno scorso sono arrivate al governo 496 notifiche di acquisizioni di aziende in settori sensibili, nel 2019 le notifiche erano soltanto 83.
L'ambito di applicazione del Golden power si. èampliato, perché i metodi con cui Pechino aumenta la sua infleunza all'estero sono molteplici e complicati da riconoscere. Il rischio è che la Cina faccoao n moltissimi altri settori strategici quello che la Russia di Putin ha fatto con il gas
E questo perché l’esecutivo guidato dall’ex banchiere centrale ha aperto gli occhi sulla Cina, sulla Russia e sulle acquisizioni rapaci anche secondarie – “ha aperto gli occhi” non è un’espressione nostra, ma della vicesegretaria di stato americana, Wendy Sherman: “Credo che Draghi e l’Italia abbiano aperto gli occhi sulla Cina. Capiscono come lavora in giro per il mondo e c’è un’intesa comune su quello che succede”, aveva detto in un’intervista al Foglio e a Formiche poco più di un mese fa. C’è stato il caso di Alpi Aviation, l’impresa di Pordenone che produce droni militari il cui acquisto da parte di una società cinese è stato annullato dal governo, poi quello dei robot della piemontese Robox. Ma a ottobre il governo Draghi ha posto il Golden power pure sull’acquisizione da parte cinese di una multinazionale italiana delle sementi, Verisem. L’ambito di applicazione del Golden power si è ampliato, perché i metodi con cui Pechino aumenta la sua influenza all’estero sono molteplici e complicati da riconoscere. Semplificando, il rischio è che la Cina faccia in moltissimi altri settori strategici quello che la Russia di Putin ha fatto con il gas.
“Sembra che solo il Giappone nel G7 abbia mostrato stabilità politica con il risultato delle elezioni”, dice al Foglio una fonte della diplomazia di un paese alleato che preferisce restare anonima perché non autorizzata a commentare certi temi. “Prima la sconfitta del partito di Macron, poi il passo indietro di Johnson. Spero che l’Italia eviti lo scompiglio agevolando l’inizio del governo Draghi 2.0”. Nell’area del Pacifico la guerra d’aggressione della Russia ha fatto fare molti parallelismi con la Cina, con il suo tentativo di modificare lo status quo senza – quasi mai – sparare un colpo. Ed è successo qualcosa di miracoloso, dopo il 24 febbraio del 2022: per lungo tempo l’occidente aveva dimenticato il quadrante asiatico, e l’importanza della presenza di un modello che resta incredibilmente attrattivo, nonostante tutto, quello della democrazia. E la destabilizzazione politica occidentale, invece, rischia di minare l’investimento diplomatico che quei paesi like-minded, quelli che la pensano allo stesso modo, stavano iniziando a fare in Asia e Oceania.
Se è difficile per un italiano, soprattutto per un europeo, riconoscersi nel cosiddetto “modello russo”, a maggior ragione dopo il 24 febbraio, la Cina è ancora molto attrattiva per tanti individui rimasti legati a un certo tipo di politica antisistema, ma soprattutto antiamericana: “In questi ultimi dieci anni la Cina si è affermata oramai come una delle due grandi potenze mondiali, diventando di fronte agli Stati Uniti l’altra grande potenza che contribuisce a un ordine del mondo”, ha detto qualche giorno fa l’ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri Massimo d’Alema, intervistato dal colosso della propaganda cinese, China Media Group, sui successi del Partito comunista cinese. “E ciò che è importante è che questa crescita cinese è avvenuta non a danno dello sviluppo di altri paesi ma in definitiva contribuendo a una crescita della ricchezza mondiale e a un aumento degli scambi, delle relazioni nel mondo globale”. Se dovessimo prendere sul serio le dichiarazioni di D’Alema, dovremmo dire che l’analisi del presidente della Fondazione Italianieuropei risulta quantomeno superficiale. La velocissima e apparentemente inarrestabile crescita economica cinese è arrivata anche grazie alla destabilizzazione dei sistemi internazionali, allo sfruttamento dei modelli occidentali, ed è andata di pari passo a una stretta sui cittadini, alla repressione delle minoranze e alla limitazione delle libertà personali, soprattutto dopo l’arrivo alla leadership di Xi Jinping e la costruzione, reale, concreta, del suo Sogno cinese. La pandemia prima e la guerra della Russia contro l’Ucraina poi sono stati due incidenti di percorso per la leadership di Pechino che hanno soltanto accelerato un percorso già intrapreso verso la costruzione di un nuovo ordine del mondo. Alla sua guida c’è la Cina, il copilota è la Russia di Putin.
“Fang Fang è diventata l’oggetto dell’ira furiosa dei nazionalisti cinesi nel 2020, quando ha scritto la sessantesima e ultima puntata di un diario online sulla vita a Wuhan, nella Cina centrale, quando è iniziata la pandemia”, si legge in un articolo pubblicato la scorsa settimana sull’Economist. “Il suo diario aveva descritto non solo le difficoltà della prima città al mondo a sperimentare un lockdown a causa del Covid-19, ma anche le sue. Dopo aver osato criticare l’inefficace risposta del governo, aveva ricevuto un fiume di insulti online da parte di nazionalisti. ‘Si comportano come un branco di teppisti’, scriveva Fang Fang, ‘attaccando chiunque non collabori con loro’. Aveva paragonato quell’assalto contro di lei alla Rivoluzione culturale di Mao degli anni Sessanta e Settanta, con le folle assassine della Guardia Rossa. ‘Oggi ho persino visto la notizia che la gente si sta preparando a mandare una squadra a Wuhan per uccidermi’, aveva scritto nell’aprile del 2020, mentre il furore cresceva”. Questo tipo di nazionalismo, scrive l’Economist, non preoccupa solo “i liberali come Fang Fang, ex membro dell’aristocrazia letteraria cinese. Ma “suscita ansia anche in occidente e in molti paesi vicini alla Cina. Gli osservatori stranieri lo considerano un riflesso della mentalità del Partito comunista e si chiedono se possa far presagire un comportamento più aggressivo della Cina all’estero”. Il pensiero è naturalmente a Taiwan. Negli ultimi anni le provocazioni e gli show di forza da parte di Pechino sono aumentati, ma è difficile prevedere la possibilità di un attacco armato imminente – anche se molti di noi dicevano la stessa cosa della Russia fino al 23 di febbraio. Dopo la completa assimilazione di Hong Kong da parte di Pechino, Taiwan resta l’ultima frontiera democratica del mondo cinese, ma per l’occidente, soprattutto oggi, è molto più di un simbolo. La Taiwan Semiconductor Manufacturing Co., la più grande azienda produttrice di microchip al mondo, ha fatto sapere la scorsa settimana che i suoi profitti sono aumentati di oltre il 76 per cento e hanno raggiunto un livello record nel trimestre aprile-giugno del 2022. Taiwan, pur essendo riconosciuta indipendente solo da una dozzina di paesi nel mondo, è stata molto attenta ad aderire alle sanzioni economiche del mondo occidentale contro la Russia – se al Cremlino faticano a trovare nuovi microchip, è anche grazie al fatto che un pezzo della catena di approvvigionamento mondiale è nell’isola de facto indipendente, e che quell’isola è alleata dell’occidente. L’occidente sarà pronto ad aiutarla, come sta facendo con l’Ucraina?
"Sembra che solo il Giappone nel G7 abbia mostrato stabilità politica con il risultato delle elezioni. Prima la sconfitta del partito di Macron, poi il passo indietro di Johnson. Spero che l’Italia eviti lo scompiglio agevolando l’inizio del governo Draghi 2.0”
I messaggi di destabilizzazione e di provocazione cinese, però, non si fermano alle acque attorno all’isola che i portoghesi chiamavano Formosa. Se dovessimo fare un parallelismo tra l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia e le aree in cui la Cina si comporta in modo molto simile alla Russia bisognerebbe guardare non a Taiwan, ma alle acque del Pacifico. C’è un gruppo di isole che nel Mar cinese meridionale è conteso tra Cina, Taiwan e Giappone. A Tokyo le chiamano isole Senkaku, in Cina Diaoyu e a Taiwan Diaoyutai. Le rivendicazioni cinesi sulle isole sono ricominciate nello stesso momento in cui, a Pechino, è stata di sana pianta inventata – usiamo questo termine perché riassume la sentenza del 2016 del Tribunale di arbitrato permanente de L’Aia – la cosiddetta “linea dei nove punti”, cioè una gigantesca area del Pacifico che la Cina rivendica come suo territorio. Da più di dieci anni, davanti alle isole Senkaku che da sempre sono state amministrate dal Giappone, va avanti uno stand off tra Tokyo e Pechino, nel vero senso dell’espressione: da una parte delle isole ci sono i pattugliatori cinesi, dall’altra la Guardia costiera nipponica. Che non può fare nulla, per una politica di non provocazione e di de-escalation. Tutta l’area è praticamente congelata dalla disputa, e ogni tanto la Cina manda un messaggio, lancia una provocazione. La scorsa settimana è successo qualcosa di anomalo. Alle 7 e 44 del mattino una nave da guerra cinese si è avvicinata alle cosiddette acque contigue del Giappone, e ha cacciato dall’area non una nave giapponese – come pure spesso succede – ma si è messa a inseguire una nave da guerra russa. Cioè una nave della flotta della Difesa di Mosca. Ma Vladimir Putin e il leader Xi Jinping non avevano sancito, il 4 febbraio scorso, un’amicizia “senza limiti”? Di più: a fine maggio Cina e Russia avevano condotto le prime esercitazioni militari congiunte sin dall’inizio della guerra in Ucraina. Lo avevano fatto mentre il presidente americano Joe Biden si trovava a Tokyo, alla riunione del Quad, l’alleanza tra America, Giappone, India e Australia.
La pandemia e soprattutto la politica Zero Covid che Pechino continua a perseguire sta avendo un effetto gigantesco sull’economia: il pil cinese è calato del 2,6 per cento nell’ultimo trimestre. Allo stesso tempo aumenta il controllo sulle libertà personali proprio con la scusa di controllare il virus
I bombardieri russi e cinesi avevano volato sul Mar del Giappone, nel Mar cinese orientale, con una chiara dimostrazione di forza rivolta verso la coalizione delle potenze democratiche. Secondo l’interpretazione della Difesa giapponese, quello che è successo la scorsa settimana attorno alle isole Senkaku era una recita: facendo credere che stesse pattugliando il proprio territorio, la Cina voleva probabilmente mostrare le proprie rivendicazioni territoriali sulle isole. All’agenzia Kyodo, un funzionario giapponese ha detto che certe manovre aumentano “unilateralmente le tensioni” e creano “situazioni seriamente preoccupanti”. Nel frattempo, i bombardieri cinesi periodicamente ingaggiano quelle che tecnicamente si chiamano “interazioni” piuttosto pericolose con aerei da guerra stranieri sui cieli del Mar cinese meridionale e del Mar cinese orientale. Il mese scorso è successo con un C-130 americano, subito prima un aereo da pattugliamento canadese era stato cacciato da due jet cinesi da un’area in cui controlla – secondo le regole delle Nazioni Unite – i traffici illegali della Corea del nord. A febbraio una nave da guerra cinese aveva puntato un laser contro un aereo da ricognizione australiano. La Cina sta cercando di dirci in tutti i modi che vuole dominare l’intero quadrante asiatico.
Il messaggio si fa sempre più insistente soprattutto perché Pechino sta vivendo un inedito periodo di crisi. In vista del Congresso del partito in autunno, che dovrebbe consegnare il terzo mandato al leader Xi Jinping, avrebbe dovuto essere tutto magnifico e in ordine. E invece non lo è. La pandemia e soprattutto la politica Zero Covid che Pechino continua a perseguire sta avendo un effetto gigantesco sull’economia: il prodotto interno lordo cinese è calato del 2,6 per cento nell’ultimo trimestre rispetto al trimestre precedente.
Su base annua, la seconda economia del mondo è cresciuta dello 0,4 per cento nel trimestre aprile-giugno, mancando le aspettative di crescita dell’un per cento. E del resto Shanghai, il cuore pulsante della manifattura cinese, torna di continuo in lockdown, così come altre città cinesi; gli investitori stranieri iniziano la fuga. L’incertezza delle politiche di apertura e chiusura sta isolando ancora di più la Cina. Che allo stesso tempo ha aumentato i sistemi di controllo e di sorveglianza con la scusa dell’epidemia da controllare.
La partnership russo-cinese non risolleverà l’economia di Pechino, perché è soprattutto ideologica e di convenienza, insomma a questo funziona: a mandare messaggi e segnali. A screditare l’occidente, la Nato, l’America, e offrire un modello d’influenza alternativo. Certo, Pechino ha messo in sicurezza molti dei suoi asset in Russia, dopo l’inizio dell’invasione e la reazione sanzionatoria della coalizione occidentale, per paura di effetti secondari soprattutto nel settore tecnologico. Ma allo stesso tempo si sta prendendo il meglio: materie prime, e soprattutto petrolio a bassissimo prezzo. E’ anche per questo che la segretaria del Tesoro, Janet Yellen, negli ultimi giorni sta cercando di offrire alla leadership cinese un patto: noi togliamo i dazi imposti da Trump sulle importazioni cinesi, voi isolate ancora di più economicamente la Russia.
Ma oltre alla Cina, a mettere in difficoltà il lavoro diplomatico internazionale c’è un altro paese, l’India – alleata di ferro della coalizione occidentale, acerrima nemica di Pechino, e che però, in questa crisi, si sta comportando esattamente come Pechino. Vuole restare a tutti i costi neutrale. Durante un evento della Nato Foundation di fine giugno, l’ex ambasciatore dell’India nell’Unione europea Rajendra Abhyankar ha detto al Foglio: “Noi abbiamo una antica relazione con la Russia, l’Unione sovietica ci aiutò nel conflitto del 1971 con il suo veto al Consiglio di sicurezza, non è mai stato dimenticato e mai lo sarà”. “Siamo pronti a dare alla Russia un’opportunità”, ha detto l’ambasciatore, “per vedere come porre finire a questa crisi nel miglior modo possibile. Allo stesso tempo, a giudicare dalle performance dell’esercito russo in Ucraina, si capisce che questo non è lo stesso esercito che ha vinto la Seconda guerra mondiale. Sono stato in Vietnam spesso, e anche lì quello che hanno non è lo stesso esercito che ha battuto altri tre eserciti. Quindi: le cose cambiano. E gli equipaggiamenti russi a cui si è affidata per anni l’India non sono più così affidabili, anche per questo stiamo comprando armi dagli Stati Uniti”. Ma c’è anche un altro modo di interpretare la neutralità indiana, ha detto l’ambasciatore, ed è più politico: “Se c’è un problema in Europa, come la guerra tra la Russia e l’Ucraina, deve essere motivo di preoccupazione per tutto il mondo. Ma se c’è un problema per esempio in India, dove c’è ancora un conflitto che va avanti con la Cina al confine, io non ho visto neanche una sola dichiarazione da un paese europeo che dicesse ‘c’è un modo in cui possiamo aiutarvi?’. Quindi: questa visione eurocentrica va bene, ma se vuoi che i paesi dell’Asia Pacifico come noi prendano le tue posizioni, allora noi ci aspettiamo la stessa cosa”.
L’India ha comprato quasi 1,9 miliardi di dollari di petrolio dalla Russia nel solo mese di maggio, e resta un’importante fonte di reddito per Putin. Non solo: sembra che Nuova Delhi stia raffinando quel greggio per venderlo come prodotto da esportazione: benzina, gasolio e carburante da mandare in Europa e negli Stati Uniti.
Il problema è che in molti hanno una posizione simile a quella dell’India. Nel Pacifico la guerra in Ucraina è considerata una crisi regionale, e Pechino fa di tutto per far passare questo messaggio. Quest’anno la presidenza di turno del G20 è indonesiana, e il presidente Joko Widodo – per mostrarsi attivo e responsabile – subito prima della riunione dei ministri degli Esteri del G20 è volato prima a Kyiv e poi a Mosca (era la sua prima volta al Cremlino). L’Indonesia ha un’esperienza molto limitata di diplomazia internazionale, e infatti da quei due viaggi è uscito ben poco. Alla riunione a Bali tra i capi della diplomazia delle venti grandi economie del mondo – la prima prova davvero internazionale della coalizione anti-russa – la realtà dei fatti è venuta fuori. Nessuno come il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha avuto così tanti bilaterali. Wang Yi ha parlato con tutti, dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov (boicottato dalla coalizione occidentale) al segretario di stato americano Antony Blinken. La Cina ha messo sul tavolo l’unico vero problema che preoccupa i paesi asiatici del G20 riguardo a questa guerra: l’inflazione. Il prezzo dei noodles che aumenta a causa dell’aumento del prezzo del grano. Al G20 dei ministri degli Esteri di Bali si è visto concretamente il gran lavoro che i paesi sviluppati e democratici ancora devono fare fuori dai propri confini. Qualche settimana prima, per la prima volta nella storia, al Summit della Nato a Madrid avevano partecipato anche quattro partner asiatici: Giappone, Corea del sud, Australia e Nuova Zelanda. Sono i paesi più vicini a noi, più integrati alla nostra Difesa e con cui parliamo la stessa lingua, con cui abbiamo rapporti commerciali intensissimi e regolati dallo stato di diritto. Il messaggio di unità dei paesi democratici è stato potente, ma il problema sono gli altri.
Perché per gli altri le potenze autoritarie restano un’ancora di salvataggio. A fare l’annuncio qualche giorno fa è stata la ministra degli Esteri nordcoreana, Choe Son-hui. Il volto gentile del regime di Pyongyang, abile diplomatica con uno stile decisamente diverso dai predecessori, prima donna a scalare i vertici della leadership nordcoreana, ha fatto sapere che il suo paese ha deciso di riconoscere le due repubbliche separatiste dell’Ucraina orientale, Donetsk e Luhansk, nella regione del Donbas. Era stata la Russia di Putin, il 21 febbraio scorso, a riconoscerle per prime: il primo atto formale verso la guerra d’invasione dell’Ucraina. La decisione della Corea del nord difficilmente avrà delle conseguenze concrete, ma è un notevole messaggio politico: ci siamo, e ora sapete anche da che parte stiamo. Pur di esprimere fedeltà al Cremlino, all’alleanza anti-occidente, ai campioni della destabilizzazione, Pyongyang rinuncia anche ai suoi rapporti con l’Ucraina (Kyiv ha chiuso i rapporti diplomatici con la Corea del nord dopo l’annuncio del riconoscimento, e potrebbe essere un problema per la compagnia aerea di bandiera Air Koryo, che nella sua limitata flotta ha anche gli Antonov 148 ucraini), ma soprattutto rinuncia alla possibilità di un dialogo con l’occidente. La Corea del nord è un buco nero della diplomazia internazionale, i tentativi di negoziato dell’Amministrazione Trump e di quella democratica sudcoreana di Moon Jae-in si sono rivelati inutili, insufficienti. Pyongyang continua a testare i suoi missili, ad aumentare gli armamenti nonostante l’economia del paese sia piegata dalle sanzioni internazionali. Finora la Casa Bianca di Joe Biden ha deciso di ignorare il problema, usando la strategia che per otto anni ha portato avanti Barack Obama: la pazienza strategica. Ma oggi che si va formando una coalizione di paesi autoritari sempre più forti e influenti anche sul resto del mondo, la questione nordcoreana tornerà presto a farsi sentire.
L'India, come la Cina, compra petrolio a basso prezzo dalla Russia. La presenza al vertice Nato dei nostri partner, Giappone, Corea del sud, Australia e Nuova zelanda, non basta. AL G20 in Indonesia si è visto qual è la preoccupazione più grande dell economie mondiali: l'inflazione
La scorsa settimana, la vicepresidente americana Kamala Harris ha presentato un importante programma di aiuti e investimenti nei paesi insulari del Pacifico. Proprio lì dove negli ultimi anni l’influenza cinese – anche militare – è aumentata enormemente, tanto che ad aprile le isole Salomone hanno firmato un patto di Difesa con Pechino. Si è mossa la diplomazia dell’Unione europea, ma perfino l’America ha riconosciuto che certi piccoli paesi, minacciati dai cambiamenti climatici e con enormi fragilità economiche, non sempre hanno ricevuto “l’attenzione e il sostegno che meritano”. Al Summit dei leader nelle Fiji Harris ha promesso 600 milioni di dollari di investimenti contro la pesca illegale e i rischi legati ai cambiamenti climatici, e ha annunciato l’apertura di due nuove ambasciate a Tonga e a Kiribati. Il Pacifico è il luogo dove passa il nostro gas, il nostro commercio, un pezzo enorme della globalizzazione. Più che una sfida tra sfere d’influenza, però, la coalizione anti-autoritarismi “dovrebbe promuovere istituzioni di governance regionale e globale per mitigare i danni alle democrazie che la competizione tra grandi potenze invariabilmente infliggerà”, hanno scritto su Foreign Affairs Michael Brenes e Van Jackson in un articolo dal titolo “La competizione tra grandi potenze fa male alla democrazia”. Sono Russia e Cina a volere la Nuova Guerra Fredda. Il grande vantaggio è nell’esperienza e nell’offerta di libertà e sicurezza. Ora che il business internazionale è tornato a essere regolato dalla politica, e non solo dalla convenienza, usarlo con criterio e allargare l’orizzonte di dialogo è l’unico modo per uscire dalla crisi globale.
l'editoriale dell'elefantino
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