L'intervista

Il potere di Putin è granitico ma non eterno. La svolta di settembre

Pietro Guastamacchia

Galeotti racconta cosa potrebbe cambiare in autunno e come si gestisce il rapporto con la Russia, anche quello personale

"Occhi puntati su settembre” mette in guardia Mark Galeotti, cremlinologo, esperto di spazio post sovietico e tra i più ascoltati, ripresi e criticati russologi al mondo. Secondo Galeotti infatti “a settembre è probabile che a Mosca arrivi una svolta”. Stando alle analisi del professore, che recentemente è finito sulla lista nera di Putin e dal mese scorso non può più tornare in Russia, “le famiglie medie in Russia hanno dovuto mettere mano ai propri risparmi per far fronte al repentino aumento dei prezzi dei generi di prima necessità e  questi soldi stanno ormai per finire”.  Sul fronte economico inoltre i dati suggeriscono che “in autunno potremmo iniziare a vedere l’arresto definitivo di un numero sempre maggiore di piccole e medie imprese strozzate dalla mancanza di materie prime e componenti elettroniche bloccate dalle sanzioni”. A settembre inoltre è in programma una tornata di elezioni amministrative e “Mosca si trova ad affrontare  un dilemma: sospendere le elezioni accettando di fatto che in Russia non c’è più neanche la parvenza di una democrazia, o cercare di portarle a termine comunque ma in maniera molto pilotata” raccontano le fonti del suo celebre podcast ‘Tra le ombre di Mosca’, che, secondo alcune indiscrezioni,  vanta  ascoltatori anche nelle sfere alte del Cremlino. Non si tratta di una scelta semplice, poiché le elezioni russe, per quanto regolamentate, aprono sempre un certo spazio di dibattito specialmente sui temi più vicini ai cittadini come lavoro e costo della vita.

Con l’arrivo dell’autunno inoltre le condizioni favorevoli sul terreno per un avanzata verranno meno e torneranno il fango e il maltempo che lo scorso febbraio hanno messo in crisi i cingolati russi. Sull’andamento della guerra infine inizia a pesare anche il più macabro dei pallottolieri, Mosca è a corto di uomini poiché il numero di soldati morti in azione continua a salire e per far fronte a questo problema, spiega l’esperto, potrebbe esserci una pericolosa soluzione: “A settembre inizia il ciclo di reclutamento autunnale, argomento scottante per Putin che sa bene che inviare i soldati di leva significherebbe ammettere che la sua ‘operazione speciale’ è in realtà una vera  invasione”. Il Cremlino sa che se portasse in Ucraina i  500.000 uomini di cui ha recentemente parlato il ministro della Difesa Sergei Shojgu potrebbe si ribaltare nel giro di pochi giorni la situazione ma “potrebbe far scoppiare il dissenso interno. Non addestrati e male equipaggiati porterebbe una generazione alla carneficina”.

Nonostante le sanzioni e l’isolamento però la Russia non cede, anzi qualcuno inizia a sospettare che lo shut down dell’economia russa che ci aspettavamo all’indomani delle sanzioni potrebbe non arrivare. Gli effetti però si sentono eccome e costringono il paese ad adattarsi. In una delle sue ultime lezioni Galeotti racconta del caso delle macchine ‘special edition’, una furberia da marketing postsovietico che offre un’ottima metafora per spiegare la situazione attuale: “Le fabbriche di auto russe non hanno più le componenti  per montare sulle  macchine una serie di funzioni basilari quali l’airbag o l’elettronica di base a causa delle sanzioni. Per ovviare a  questo problema hanno lanciato la serie ‘special edition’, una macchina che vista da fuori sembra la solita macchina ma che è del tutto priva di una serie di sistemi di sicurezza. Con le sanzioni e l’isolamento Putin ha lanciato una Russia ‘special edition’, una paese che come una vecchia Lada se si gira la chiave si mette in moto e parte ma che ha perso completamente i sistemi di sicurezza politica e sociale di uno stato moderno e che non si ha idea di come possa reagire a un dosso o figuriamoci a un incidente”.

Le sanzioni allora in qualche modo funzionano ma potrebbero metterci tanto tempo prima di mordere. Tutto questo tempo l’Europa forse non ce l’ha, infatti qualche paese membro  potrebbe  iniziare a fare qualche passo indietro. Per l’accademico britannico però questo non è un pericolo: “Se devo essere provocatorio quello che farà l’Europa non è che conti così tanto, le sanzioni che fanno male davvero sono quelle americane soprattutto le sanzioni secondarie”. Sul tema dell’energia infatti secondo Galeotti pagare Mosca potrebbe non essere un necessariamente come spararsi sui piedi, “l’importante è mettere la Russia nel paradosso del cittadino sovietico degli anni ‘80 che aveva le tasche piene di rubli ma non poteva comprarci nulla”. La fragilità dei governi europei davanti a questa fase dunque è da cercarsi altrove, soprattutto “nella mancanza di trasparenza verso i cittadini su quanto sta realmente accadendo” continua lo storico “fatte le dovute premesse, ovvero che oggi la guerra si gioca anche su un confronto non militare e che si combatte non solo sul terreno ma anche sullo scontro tra economie, è comunque inevitabile giungere alla conclusione che siamo in guerra con la Russia, già l’Europa intera è in guerra con la Russia e serve avvertire i cittadini che le  guerre hanno sempre un costo”.

Mark Galeotti, nonostante le minacce ricevute da parte di Mosca, è spesso anche finito nel tritacarne delle critiche opposte ed è stato ritenuto troppo comprensivo delle posizioni russe. “le accuse su accademici o giornalisti pagati da Putin vanno sempre prese con un po’ di sano scetticismo”. In Italia questo dibattito è stato molto acceso e  secondo l’accademico “affonda le sue radici sul fatto che si tratta di un paese che fatica a percepire la Russia come un nemico”. L’autore, che conosce l’Italia anche grazie ad un nonno di Carrara, sottolinea la permanenza di “una certa retorica dura a morire sia nella destra sia nella sinistra italiana che tende a vedere con diffidenza tutto ciò che riguarda la Nato e gli Stati Uniti” e ricorda “un estenuante discussione con un accademico romano che mi spiegava che il suo apprezzamento nei confronti di Putin veniva dalla sua diffidenza nei confronti del mondo capitalista. A nulla sono servite le mie spiegazioni sul fatto che la Russia di Putin sia l’economia più ferocemente neoliberista che si possa immaginare”.

Essere appassionati di Russia, conservare un’immagine positiva del suo popolo, addirittura amarla, ma riservarsi il diritto di criticarla e di desiderare di che esca sconfitta da questa guerra, secondo Galeotti, è possibile, “bisogna chiedersi prima di tutto chi sarebbe nel caso a perdere questa guerra? La Russia o Putin? Il Cremlino o i russi? Tutti concetti molto diversi. E’ vero ci sono molti russi che sostengono questa guerra ma non dimentichiamoci che sostengono la guerra che gli è stata venduta in tv, ovvero un’operazione militare volta a impedire che dei nazisti si dotino di armi di distruzione di massa: presentata così è molto più condivisibile. Noi dobbiamo pensare ai russi come ostaggi di Putin, con una vastissima diffusione della sindrome di Stoccolma, ma pur sempre ostaggi”. 

Per continuare a usare la razionalità davanti alla propaganda  e alle drammatiche immagini che vediamo in tv secondo l’autore bisogna iniziare con “l’ammettere che si tratta di una guerra orrenda, una guerra in cui assistiamo a efferati crimini che hanno dei colpevoli precisi ma che ciò non significa che ogni russo sia moralmente responsabile per quanto accaduto a Bucha”. Per Galeotti quello a cui stiamo assistendo è il crollo di un impero e “come nel caso britannico o francese, dobbiamo imparare a discernere tra le colpe delle autorità e quelle dei popoli”.

Il paragone infatti lo sentono anche in Ucraina, in aprile a Odessa  sotto i missili russi un cineforum locale proiettava “La Battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo, secondo l’accademico l’Algeria e l’Ucraina qualcosa in comune c’è l’hanno: “In molti pensano che la Russia debba passare attraverso una sconfitta per essere costretta a elaborare una nuova identità e visione di se stessa. Certo però serve una figura capace di traghettare la Russia in questa fase, qualcuno che sappia spiegare ai russi che l’impero è finito”. Serve De Gaulle ma al Cremlino c’è Putin e i due non si assomigliano affatto. Chi lo circonda d’altronde non è molto diverso da lui, ma secondo Galeotti in una Russia senza Putin qualcosa potrebbe cambiare poiché “persiste una visione autocratica del potere e una retorica della ‘grande Russia’ ma francamente non vedo nessuno tra i possibili candidati a guidare un giorno il paese qualcuno che covi la stessa rabbia e astio contro l’occidente, come se fosse colpevole di tutti i mali che affliggono la Russia. Una rabbia violenta che fa pensare che getti le sue radici dentro un profondo trauma del sentirsi tradito”.

Proprio per colpa di una delle sue analisi sgli uomini della cerchia del presidente è nata la celebre diatriba sulla cosiddetta “dottrina Gerasimov” quella che dovrebbe essere una teoria di guerra asimmetrica coniata dal capo delle forze armate russe, ma il cui nome è stato in realtà inventato ironicamente proprio da Galeotti. “Questa storia me la porterò nella tomba, però il successo che quella formula ha avuto tra chi non l’ha capita è interessante” spiega l’autore “sopravvive quando si parla di Russia una volontà di cercare una spiegazione misteriosa, una chiave magica. Ricordo che una volta si diceva che i russi da bambini vengono avvolti in coperte e arrotolati con tale forza che i bebè non riescono a mai muoversi e così imparano la sottomissione a un potere più grande. Le chiavi magiche non servono, per capire la Russia, per quanto possibile serve studiare di più”. 

E’ dura però studiare quando per decreto presidenziale l’ingresso nel paese è vietato, come accaduto a Mark Galeotti, ma anche a decine di professori e giornalisti residenti in Russia che in pochi giorni hanno dovuto fare gli scatoloni e partire. “Uno strappo doloroso ma che sul lungo termine può anche essere alla base di un cambiamento positivo”, spiega l’autore “quanto durerà dipende da tante cose, non ultima la salute fisica e politica di Putin. Ma quando il paese riaprirà saremo forse più coscienti della fragilità della relazione che ci lega ai russi e sapremo forse ricostruirne una più sana”. Ora la Russia  bisogna guardarla da lontano, e non a caso il centro studi fondato da Galeotti si chiama proprio “Mayak” ovvero il faro. Chi ha passato qualche tempo a Mosca sa che l’idea non può che essere venuta seduti all’omonimo ristorante nascosto dietro un finto armadio nel teatro Majakovskij di Mosca, dove fino a pochi anni fa cenavano a tarda notte corrispondenti, attori, studenti, qualche riccone e molto probabilmente anche qualche agente dei servizi segreti e dove chiunque poteva suonare un vecchio pianoforte a coda: uno spaccato di Russia aperta che desiderava voracemente il contatto con l’Europa. “Ammetto che il nome nasce seduto a quei tavoli”, confessa Galeotti che, parlando a chi come lui ha dovuto rivedere il rapporto con un paese a cui ha dedicato una vita, rincuora “credo che torneremo a Mosca, ma temo che non sarà molto presto”.

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