la guerra senza regole
Erdogan attacca l'Iraq per dimostrare che può farlo anche in Siria
"Non dobbiamo chiedere il permesso a nessuno", dice Ankara. Nove morti in un resort nel Kurdistan iracheno. E a Baghdad si bruciano le bandiere turche
"La Turchia non deve chiedere permesso a nessuno per le sue operazioni militari”, rivendicava ieri Mevlüt Çavusoglu. Sprezzante ma risentito, il ministro della Difesa di Ankara spiegava che le distanze con l’Iran e la Russia, al di là dei sorrisi e delle strette di mano andate in scena al vertice di Teheran di martedì scorso, sono notevoli e su molti dossier. In primis quando si parla di curdi. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si era presentato a Teheran nelle vesti del più moderato fra i tre alleati riluttanti, l’unico alleato della Nato capace di farsi ascoltare dai paria di Russia e Iran. Ma a ben vedere era colui che aveva la richiesta più impellente da mettere sul tavolo: il via libera a un’offensiva militare in Siria. Incassato il no di Russia e Iran, la Turchia ha voluto dimostrare a tutti in cosa consista quel “non dovere chiedere il permesso a nessuno” e ha lanciato un attacco missilistico su un resort pieno di turisti nel Kurdistan iracheno, nel governatorato di Duhok. Il bilancio provvisorio è di nove morti – tra cui un neonato – e decine di feriti. Erano soprattutto famiglie in vacanza, alcune in viaggio di nozze.
Non è il primo attacco turco che prende di mira dei civili in Iraq. Sono vittime collaterali di un’operazione militare che i turchi hanno lanciato lo scorso aprile e che definiscono di “controterrorismo”, denominata “Claw Lock” (la stretta dell’artiglio) contro i combattenti del Pkk del Kurdistan iracheno. Ad appena 70 chilometri da Dohuk c’è la base militare turca di Bashiqa, installata dal 2016 nel Kurdistan iracheno come avamposto per le operazioni contro il Pkk. Tuttavia, nella versione di Çavusşoğglu, i responsabili dell’attacco sono stati proprio i curdi e ha invitato le autorità irachene “a non cadere nella trappola”. Il primo ministro iracheno, Mustafa al Kadhimi, ha dichiarato però che “si riserva il diritto di rispondere agli attacchi”, che sono “una flagrante violazione della sovranità nazionale”.
L’impressione è che l’attacco possa innescare altre dinamiche che già da tempo si muovono sottotraccia. I filmati drammatici delle vittime di Dohuk comparsi in rete hanno spinto migliaia di manifestanti a riversarsi nelle strade in diverse città irachene bruciando le bandiere turche. A Baghdad si sono appostati davanti all’ambasciata turca chiedendo la rimozione dell’ambasciatore. A Kirkuk hanno rimosso la bandiera turca dal consolato, che è stato costretto a chiudere. Altre manifestazioni sono in programma in queste ore nel resto del paese, fino a Bassora. Chi potrebbe mettere il cappello su questo diffuso sentimento anti turco sono gli sciiti di Muqtada al Sadr. Il clerico nazionalista, vincitore delle ultime elezioni, dopo non essere riuscito in nove mesi a formare un governo di coalizione, ha imposto le dimissioni collettive ai suoi parlamentari. Da allora, il timore è che l’opposizione passi dal Parlamento alle strade, con conseguenze imprevedibili per la stabilità e la sicurezza del paese. Ufficialmente, Sadr ha smobilitato la sua milizia Mahdi nel 2008, ma buona parte dei suoi supporter sono ancora oggi armati e carichi di risentimento nei confronti della comunità sunnita, degli americani e degli iraniani. L’attacco turco a Dohuk è diventato da subito strumento di propaganda anche delle milizie sciite che invece sono foraggiate da Teheran. Una di queste, al Tahira, ieri ha hackerato diverse tv irachene trasmettendo in sovrimpressione la scritta “Basta bombardamenti in Iraq e in Kurdistan. #Erdogan_is_a_killer”.
La guerra spregiudicata di Erdogan al Pkk e la competizione fra Turchia e Iran che si contendono le risorse di acqua e petrolio del Kurdistan – entrambe condotte in territorio iracheno – non fanno che alimentare risentimento e nazionalismo. La solitudine di Baghdad emerge anche dal mancato sostegno della comunità internazionale. Per esempio, dai messaggi di solidarietà per le vittime dell’attacco di Dohuk diffusi dall’Onu e dagli Stati Uniti, in cui non si fa mai riferimento alla Turchia. Il desiderio di un uomo forte, di un leader capace di ristabilire ordine e sicurezza si è visto in queste ore anche sui social network, dove non mancavano nemmeno citazioni e frasi celebri di Saddam Hussein.