Il futuro del Pnrr
Senza Draghi si aprono tre scenari per il Pnrr. Con ricadute per tutta l'Ue
Se il calendario degli esborsi del Recovery fund fallisce in Italia, per l’Unione sarà un’esperienza conclusa. Nell'ipotesi peggiore la Commissione europea potrebbe perfino chiedere di rimborsare 25 miliardi di euro di aiuti già versati
Bruxelles. La caduta del governo di Mario Draghi e l’incertezza delle elezioni anticipate come minimo rimettono in discussione il calendario degli esborsi del Recovery fund all’Italia. Un ciclo elettorale, in teoria, non rappresenta niente di drammatico. Le elezioni legislative e i cambi di maggioranza fanno parte della normale vita democratica di ciascuno stato membro dell’Unione europea. Le scadenze del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sono spalmate su oltre un quinquennio, con due esborsi semestrali. In una situazione normale, lo scenario peggiore a cui un paese andrebbe incontro è un ritardo nei versamenti delle sovvenzioni e dei prestiti, il tempo necessario ad andare al voto, formare una maggioranza in Parlamento e installare un governo con i pieni poteri per riprendere il cammino dei “target” e delle “milestone” (obiettivi e traguardi in termini di riforme e investimenti, ndr) previsti dal Pnrr. Una richiesta di pagamenti slitta di un paio di mesi e tutto rientra nella normalità. Ma, agli occhi di Bruxelles, l’Italia non è un caso normale. Ed è la ragione per cui l’improvvisa caduta di Draghi solleva così tante preoccupazioni. I futuri esborsi del Recovery fund potrebbero slittare di mesi o anni. Un nuovo governo contrario alle riforme previste dal Pnrr potrebbe spingere l’Ue a bloccare gli aiuti. Nello scenario peggiore, la Commissione europea potrebbe perfino chiedere di rimborsare 25 miliardi di euro di aiuti già versati.
Nel Pnrr non c’è niente di politico. Le sovvenzioni e i prestiti del Recovery fund non dipendono dal colore del governo o dalla maggioranza in Parlamento. Il Pnrr è come un contratto firmato da un paese e basato sulle performance: gli esborsi sono condizionati alla realizzazione di “target” e “milestone” sulla base del calendario concordato tra Roma e Bruxelles. Se a Roma dovesse tornare un governo contrario alle riforme contenute nel Pnrr, il contratto potrebbe saltare. E’ tutto previsto dal regolamento che ha istituito lo Strumento di ripresa e resilienza (la Recovery and Resilience Facility), che altro non è che il Recovery fund. Se non viene realizzata gran parte dei “target” e delle “milestone”, il governo non può presentare una domanda di pagamento. Se lo fa senza aver messo in pratica riforme e investimenti, la Commissione non effettuerà il pagamento. Se un nuovo governo chiedesse la modifica del Pnrr, dovrebbe negoziare i nuovi “target” e “milestone” con la Commissione e ottenere un nuovo via libera da parte degli altri governi. In caso di marcia indietro su riforme o investimenti già approvati, la Commissione bloccherebbe i successivi pagamenti: 21 miliardi a dicembre 2022, 18 miliardi a giugno 2023, 21 miliardi a dicembre 2023, e così via fino a 21 miliardi a giugno 2026.
Con l’Italia guidata da Draghi finora è andato tutto secondo i piani. Il governo e il Parlamento hanno rispettato tutti i “target” e “milestone”. La Commissione ha versato 25 miliardi di prefinanziamento a settembre del 2021. Roma ha poi chiesto due pagamenti da circa 21 miliardi (il secondo è in via di approvazione). “In termini di performance, l’Italia finora ha fatto molto bene, meglio di altri paesi”, spiega al Foglio una fonte dell’Ue. Ma il calendario del Pnrr in parte è stato costruito attorno alla scadenza naturale della legislatura. Le riforme più significative e politicamente difficili sono state calendarizzate fino alla fine di quest’anno. “Il prossimo Parlamento le approverà? E quando?”, dice la fonte dell’Ue: “In ogni caso ci sarà maggiore attenzione al rispetto di milestone e target da parte dell’Italia”. Ci sono tre scenari. Il primo è quello normale, di un ritardo limitato negli esborsi previsti per dicembre del 2022. Il secondo è di un negoziato difficile con un nuovo governo, forse su un nuovo Pnrr, che potrebbe portare a un rinvio molto più lungo dei prestiti e delle sovvenzioni. Il terzo è quello di un conflitto totale che porterebbe alla rottura del contratto del Pnrr. Solo in quel caso, la Commissione sarebbe chiamata a chiedere indietro il prefinanziamento, oltre a bloccare tutti gli ulteriori esborsi. Ma non è solo una questione di soldi: il secondo e terzo scenario metterebbero fine all’ipotesi di un Recovery fund permanente. L’Italia è il principale beneficiario di quello attuale e dal suo successo dipende la possibilità di replicare in futuro uno strumento di debito comune dell’Ue.
L'editoriale del direttore