Accordo nucleare

Bob Malley, "la colomba per eccellenza" della diplomazia americana, ha perso

Cecilia Sala

Fa il lavoro più frustrante del mondo: mettere d’accordo Usa e Iran. I più gentili tra i suoi detrattori lo chiamano “l’ingenuo di Washington”. Adesso anche lui dice di prepararci a un mondo in cui Teheran ha l'atomica

Robert Malley fa il lavoro più frustrante del mondo. Deve mettere d’accordo gli iraniani e gli americani. Consapevole che la maggioranza degli uni e degli altri considera la controparte un nemico al quale è indecente stringere la mano e che anche chi – nei due paesi – vorrebbe arrivare a un patto sta molto attento a mostrare sostegno ed entusiasmo  in pubblico, per evitare di bruciarsi. 


Malley, inviato speciale dell’Amministrazione Biden per l’Iran, è figlio di un giornalista di sinistra, un ebreo francese nato in Egitto che scriveva soprattutto dei danni fatti dal colonialismo in giro per il mondo. Ha frequentato un liceo parigino assieme al segretario di Stato Antony Blinken e, il giorno del suo matrimonio, a celebrare le nozze c’era RBG, la giudice-icona Ruth Bader Ginsburg. 

Una delle caratteristiche per cui Malley è famoso è il soft-speaking, parla a voce bassa ed è così paziente e affabile, anche con i nemici, da essere usato come punto estremo nella scala con cui si misurano i falchi e le colombe della diplomazia americana – “la colomba per eccellenza”. Tra i suoi detrattori, i più gentili lo chiamano “l’ingenuo di Washington”.  Quando Joe Biden si è insediato alla Casa Bianca all’inizio del 2021, nessuna delle sue nomine ai vertici dell’intelligence, al dipartimento di Stato e a quello della Difesa è stata accompagnata da polemiche, cioè è stata ferocemente avversata dai repubblicani: fino a quando è uscito il nome di Malley come ipotesi per il posto di inviato speciale per l’Iran. La “colomba per eccellenza” scatenò un mezzo putiferio. 

Il Pentagono non è un blocco granitico ma, per necessità di sintesi: non ama Malley. Anche perché la “dottrina Malley” in buona sostanza prevede di escludere l’ipotesi militare a priori. Sul New York Times, Bret Stephens, che prima di approdare lì è stato per anni il più importante editorialista di politica estera del Wall Street Journal, rinfacciò a Biden tutti i dissidenti iraniani perseguitati che avrebbe tradito scegliendo Malley, e scrisse: “E’ incredibile che la Casa Bianca lo stia considerando come inviato speciale” perché “è uno dei principali apologeti di Teheran a Washington” e “nel novembre 2019 è arrivato al punto di suggerire che le proteste in Iran giustificavano la paranoia di Teheran rispetto all’esistenza di un complotto israelo-saudita-statunitense”. A difenderlo, sempre sul New York Times, era stato Matt Duss, cioè il primo consigliere di Bernie Sanders in politica estera. Date le circostanze, i suoi complimenti avevano sortito l’effetto dello sgambetto più che della mano tesa in un gesto di aiuto, ma alla fine Biden scelse comunque Malley. Chi voleva spegnere l’incendio, in quel momento, usava parole come: “Malley è soltanto un ufficiale, per di più di secondo grado” (Foreign Policy, Febbraio 2021). Ma Malley ha un pregio: prende tantissimi schiaffi e sembra quasi non sentirli.  

Gli era già capitato qualcosa di molto simile vent’anni fa, all’epoca lavorava per l’Amministrazione di Bill Clinton e, quando gli accordi di Camp David tra israeliani e palestinesi naufragarono, lui (che a quei negoziati aveva lavorato) disse che non era stata colpa esclusivamente di Yasser Arafat. Da lì, un altro soprannome, “l’anti israeliano”, e un’altra bufera. I suoi colleghi lo difesero compatti. Molti di loro avevano lavorato con altre amministrazioni prima di quella (per esempio Aaron David Miller) e fanno parte della corrente idealista, contrapposta a quella dei “realisti di sinistra” alla quale appartiene Malley. Ma, nel 2000, dissero in coro: Malley può vederla diversamente da noi sulla strategia da usare per perseguire gli obiettivi, ma gli obiettivi sono comuni e lui non è un anti israeliano, tantomeno un anti americano. 

Il mestiere del negoziatore non è tra i più popolari: non si finisce per scontentare qualcuno, si finisce sempre per scontentare tutti, e fa parte del lavoro. Malley, però, ha il vizio di scegliersi solo i casi più difficili e quelli impossibili: da diplomatico americano, vorrebbe parlare anche con Hamas, con la milizia libanese Hezbollah, e con il presidente siriano Bashar el Assad. Due su tre, gli Stati Uniti li considerano gruppi terroristici. Il terzo volevano bombardarlo dopo che ha oltrepassato la “linea rossa” usando le armi chimiche, allora il presidente era Barack Obama e si fermò un attimo prima – all’epoca Malley lavorava per lui.     

Nell’ultimo anno la sua routine ha funzionato così: un giorno devi spiegare agli iraniani che no, non puoi garantire che gli Stati Uniti non usciranno mai più  dall’accordo nucleare imponendo di nuovo le sanzioni (come aveva fatto Donald Trump nel 2018, dopo che Obama aveva sottoscritto il patto nel 2015), perché sono una democrazia, e il prossimo presidente può essere chiunque e chissà cosa vorrà fare. Non esiste un Guida Suprema che può tutto e garantisce continuità a prescindere da ciò che votano gli elettori. Gli iraniani a quel punto ripiegano sulla richiesta, come garanzia, di un voto del Congresso: ma sarebbe  un suicidio, in Parlamento il patto non avrebbe la maggioranza e anche il capo della commissione Esteri – Bob Menendez, un democratico – disapprova la politica di Biden rispetto all’Iran e detesta Malley. Anche nell’Amministrazione per cui lavora e nello stesso dipartimento di Stato, c’è chi disapprova. Persino nello staff di Malley c’erano nemici di Malley: alcuni hanno lasciato in protesta facendo intendere pubblicamente (su Twitter) che il loro capo si lasciava ingannare dalla delegazione iraniana e stava sbagliando tutto. Malley è abituato ai tradimenti,  al fuoco incrociato e al fuoco amico: anche in quell’occasione non aveva perso il suo buon umore e il suo instancabile (inspiegabile?) ottimismo.   

Bruciate tutte le altre soluzioni,  l’ipotesi sul tavolo era di accontentare gli iraniani con una clausola accessoria, che non riguarda direttamente il programma nucleare, per esempio: togliere i Guardiani della rivoluzione – i pasdaran – dalla black list. Tempo di atterrare a Washington da Vienna o Doha (le sedi dei colloqui), e quelli che dovresti rimuovere dalla lista dei terroristi hanno appena ribadito l’intenzione di uccidere l’ex presidente del tuo paese, l’ex segretario di Stato e il generale che in quel momento è a capo del Comando centrale degli Stati Uniti. E’ tornato a casa dopo essersi inventato qualche altro fragile e ipotetico compromesso, dopo aver sudato un assenso, provvisorio, dalla delegazione di Teheran. Ha di fronte Biden che, ogni volta che  gli chiede una concessione, deve tenere a mente che il  più importante alleato in medio oriente, Israele, non vuole l’accordo, che i repubblicani non vogliono l’accordo e anche la metà del suo partito. Il tempo di essere ricevuto dal presidente e, questa volta, i pasdaran hanno bombardato un consolato americano in Iraq  (13 marzo), e hanno rivendicato l’attacco. 

Una fatica enorme: una fatica inutile. A novembre è stato lo stesso Malley a dire “prepariamoci all’eventualità di un mondo dove Teheran non ha più limiti al suo programma nucleare” e, di recente, parlando in Senato, ha ammesso che le probabilità di chiudere un accordo con la Repubblica islamica  sono scarse. 


A Malley è andato tutto storto. Lui è un personaggio tragico e, mettendosi nei suoi panni, fin dall’inizio le cose stavano così: sai che stai giocando una partita che non puoi davvero vincere. Se riesci a chiudere l’accordo – negli Stati Uniti – saranno più quelli che ti malediranno che quelli che ti ringrazieranno. Se non riesci a chiudere l’accordo: hai fallito la missione che, in questo caso, era la missione della tua vita. 


L’ottimista Malley è stato sconfitto e l’accordo nucleare è saltato – “perso-perso”, come si dice nella teoria dei giochi.

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