l'indagine
La strada lunga della guerra di Putin. Ecco quanto può durare
Il mito del blitzkrieg si infrange anche in Ucraina. Tutto sta a indicare che non finirà in agosto, nemmeno in autunno, forse nemmeno a Natale. Soldi, armi, instabilità politica: i fattori da tenere d'occhio per misurare la durata del conflitto
Sembrava dovesse essere una guerra lampo. Pare che i russi fossero convinti di prendere Kyiv nel giro di pochi giorni, piazzare un nuovo governo al posto di Zelensky in fuga, prigioniero o ucciso, finirla lì, con il mondo a prendere atto del fait accompli. Così come avevano fatto per la Crimea. E invece sta diventando lunga. Da guerra di movimento sembra essersi trasformata in guerra d’attrito. Tutto sta a indicare che non finirà in agosto, nemmeno in autunno, forse nemmeno a Natale. Entrambi, prima di sedersi a trattare, vogliono poter mettere sul tavolo del negoziato una posizione acquisita.
Blitzkrieg
Al quinto mese è ormai evidente che non sarà una guerra breve. Non sarebbe la prima volta che si inizia una guerra con l’idea che sarà breve e decisiva, per poi accorgersi che dura invece anni. C’è un’intera scuola di storici che attribuisce la follia della Prima guerra mondiale al cosiddetto “culto dell’offensiva”, cioè all’idea, allora diffusa negli stati maggiori (in particolare in quello tedesco, ma non solo) che le guerre si possono vincere di slancio, con un attacco decisivo che travolga le barriere difensive. I generali della Germania del Kaiser pensavano di prevalere in pochissimo tempo aggirando le difese francesi passando per il Belgio. Il risultato fu che si ritrovarono subito contro anche l’Inghilterra, obbligata a intervenire dal trattato con Bruxelles. La battaglia della Marna, del settembre 1914, con i tassì parigini che avevano portato i soldati al fronte, segnò l’inizio della guerra di stallo nelle trincee.
Il mito della spallata decisiva, seguita da una pace a breve, aveva credito anche tra gli Alleati. Era ancora l’agosto 1914 quando H. G. Wells, che da romanziere di science fiction aveva acquisito fama di profeta del futuribile, scrisse della “guerra che metterà fine a tutte le guerre”. Era l’auspicio di un futuro governo mondiale, che avrebbe fatto prevalere il buon senso una volta sconfitta la Germania, “nido di idee maligne”. Bei sentimenti. Ma privi di fondamento. Non solo l’orrenda carneficina si sarebbe prolungata nelle trincee per altri quattro anni, ma la pace sperata sarebbe sfociata, vent’anni dopo, in un’altra guerra mondiale.
Non è detto che avere come alleato l’Iran giovi a Putin più di quanto avere alleato il Giappone sia giovato a Hitler, dopo Pearl Harbor
L’illusione che durasse poco era diffusa. Al momento dell’entrata in guerra dell’Italia, il 24 maggio 1915, lo stato maggiore italiano non aveva approntato, tanto meno fornito ai fanti, e nemmeno agli alpini, equipaggiamenti invernali. Pensavano di chiudere prima dell’inverno, e comunque si erano mangiati i fondi. Stessa cosa pensavano i generali tedeschi quando invasero la Russia nel giugno 1941. Aveva avuto successo la blitzkrieg a occidente, erano sicuri di arrivare a Mosca, e magari rovesciare Stalin, prima dell’intervento del generale Inverno e poi del generale Fango.
Pare che a inventare il termine blitzkrieg, guerra lampo, sia stato un giornalista americano. A Hitler non piaceva. Disse che era una parola cretina. Lessico a parte, si trattava di una ricicciatura delle strategie ottocentesche di Von Moltke e Von Schlieffen. Hans von Seeckt, Ludwig Beck e Heinz Guderian l’avevano adattata al movimento rapido di grandi colonne di carri armati, assistiti dagli Stukas. Sottovalutavano lo stress logistico. Per quanti panzer fossero in grado di mettere in campo, gli altri furono in grado, alla lunga, di produrne un numero maggiore. Gli risultò letale la combinazione di altri fattori. Decisivo fu il capolavoro del mettersi contro, allo stesso tempo, Inghilterra, Unione sovietica e poi America. Avere come alleato il Giappone si ritorse contro la Germania, perché spinse l’America, attaccata a Pearl Harbor, a entrare anche lei in guerra. Non è detto che avere come alleato l’Iran giovi a Putin più di quanto avere alleato il Giappone sia giovato a Hitler. Tanto per cominciare, Mosca dovrà scordarsi la “neutralità attiva” di Israele. La “quinta colonna” dei nazisti in Inghilterra, che a un certo punto contava addirittura un successore al trono, e i loro simpatizzanti negli Stati Uniti si dissolsero come neve al sole. Stalin, per quanto ne avesse combinate, era solidissimo, “tra i due tiranni [i nazisti e i bolscevichi] il popolo scelse quello che almeno parlava la sua lingua”, per dirla con Vassilij Grossman.
Guerra di movimento e di posizione
La discussione su guerra di movimento e guerra di posizione era divenuta un tormentone già prima che finisse il conflitto. Straripò, come metafora, in campo politico. Divenne un tormentone gergale, specie nella sinistra. Se ne trovano tracce, ad esempio, nei Quaderni del carcere, in cui Gramsci riflette soprattutto sui perché della sconfitta epocale del movimento di cui era stato uno dei massimi dirigenti. In una nota del Quaderno VII (§ 16), intitolata “Guerra di posizione e guerra manovrata” si chiede se “la famosa teoria di Bronstein [Trockij] sulla permanenza del movimento [della Rivoluzione permanente] non sia il riflesso politico della teoria della guerra manovrata”. La conclusione è che Trockij, “teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta”, aveva torto e che, per converso, ha una sua spiegazione, anzi giustificazione, la dittatura di Stalin, in un momento in cui invece “la guerra di posizione domanda enormi sacrifizi a masse sterminate di popolazione; [e] perciò è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia e quindi una forma di governo più ‘intervenzionista’, che più apertamente prenda l’offensiva contro gli oppositori, e organizzi permanentemente l’‘impossibilità’ di disgregazione interna: controlli d’ogni genere, politici, amministrativi, ecc…”. La politica spiegata con il linguaggio, le immagini della guerra. Ecco che Gramsci insiste: la guerra di posizione, di trincea, come “guerra d’assedio, compressa, difficile, in cui si domandano qualità eccezionali di pazienza e spirito inventivo. Nella politica l’assedio è reciproco, nonostante tutte le apparenze, e il solo fatto che il dominante debba fare sfoggio di tutte le sue risorse dimostra quale calcolo esso faccia dell’avversario”. Quaderno 6 (VIII), § 138, nota intitolata: “Passato e presente. Passaggio dalla guerra manovrata (e dall’attacco frontale) alla guerra di posizione anche nel campo politico”.
L’assedio è una variante della guerra di posizione.
Uomini e munizioni
Ammesso (e non concesso) che ci sia la volontà di combattere una guerra sino all’ultimo uomo, all’ultimo proiettile o all’ultimo missile, sembra che una parte e l’altra stiano raschiando il fondo del barile. Non c’è molto da fidarsi delle cifre che vengono date dagli uni o dagli altri. Giocare coi numeri fa parte di questa come di tutte le guerre. E quella che viene chiamata fog of war, “nebbia di guerra”, vale per tutte le migliori intelligence, è difficile da penetrare anche con i satelliti e gli altri strumenti più sofisticati. L’unica cosa certa è che le perdite di uomini e materiali sono superiori al previsto, da una parte e dall’altra. La Russia ha già perso più generali in Ucraina che in tutti i dieci anni della guerra in Afghanistan, e, secondo stime di parte, un decimo degli effettivi e metà dei carri armati con cui avevano iniziato l’invasione. L’emorragia non è da meno per gli ucraini.
Non c’è da fidarsi delle cifre che vengono date dagli uni o dagli altri. La fog of war, “nebbia di guerra”, è difficile da penetrare per le migliori intelligence
Secondo fonti di intelligence occidentali, entrambe le parti starebbero esaurendo mezzi, personale e munizioni. I Russi starebbero finendo i missili del tipo che stanno utilizzando in questo conflitto, e la produzione non riuscirebbe a tenere dietro al fabbisogno. Problemi nel tenere il passo ci sarebbero anche dall’altra parte. La Germania, il cui cancelliere socialdemocratico era pure riuscito a far votare 200 miliardi di spese militari aggiuntive per il prossimo decennio, ha rallentato l’invio di alcune armi, perché – hanno spiegato – rischiavano di restarne sguarniti loro. Gli Stati Uniti avrebbero fornito all’Ucraina già un terzo dei 20.000-25.000 sistemi di lancio multiplo di razzi teleguidati della Lockheed Martin che hanno a disposizione nei propri arsenali. Quando il Pentagono ha ordinato altri 1.300 missili portatili terra-aria Stinger per sostituire quelli inviati all’Ucraina, la Raytheon, che li produce, avrebbe risposto: “Ci vorrà un bel po’ di tempo”. La Nexter, che produce gli obici Caesar di cui la Francia ne ha forniti 18 a Kyiv, dice che avrà bisogno di 18 mesi per rimpiazzarli. Degli Himars (High Mobility Artillery Systems) che colpiscono con missili guidati dai satelliti, e discreta precisione, obiettivi da oltre 60 chilometri, Washington ne ha forniti meno di una decina. Il Pentagono sostiene che ce ne vorrebbero un centinaio, o almeno una sessantina. Gli ucraini dicono che glie ne servirebbero 300 per raggiungere parità di potenza di fuoco con i russi.
Armi e munizioni si possono anche rimpiazzare. Gli uomini no. Le tecnologie richiedono personale altamente specializzato. Solo per gli Himars hanno dovuto addestrare 600 soldati ucraini in America. Gli uni e gli altri hanno grossi problemi a rimpiazzare le perdite. Gli uni e gli altri ricorrono a volontari o mercenari. La Russia ha, rispetto all’Ucraina, riserve illimitate di materiale umano. Ma, contrariamente a quel che si era detto alla luce delle gravi perdite iniziali, Putin ha evitato sinora di proclamare una mobilitazione generale, il richiamo dei riservisti e una leva obbligatoria che sarebbe impopolarissima. Cerca di correre ai ripari con i “volontari” ceceni di Kadyrov, dal Daghestan, dalla Buriazia o dal resto della Siberia, o con i mercenari professionisti privati della Wagner, con i sessantacinquenni, o anche svuotando le carceri. C’è chi ha parlato di “mobilitazione nascosta”, a suon di incentivi economici, tre volte la paga ordinaria. E comunque le reclute, per servire a qualcosa di più che carne da cannone, devono essere addestrate.
Guerre lunghe e credito
Uno degli argomenti più affascinanti e complicati trattati dagli specialisti di storia economica è il rapporto tra guerre maggiori, alternanza tra potenze guida (o “egemoni”) e ciclo economico lungo (o ciclo di Kondratieff, 50 o 60 anni in genere). C’è chi ha analizzato, in base ai dati disponibili, l’avvicendarsi in egemonia, o in ruolo di paese guida che dir si voglia, di Portogallo (1517-1608), Spagna (1585-1608), Olanda (1609-1713), Gran Bretagna (1714-1945), brevemente la Germania nel Novecento, e infine Stati Uniti (dal 1946 ad oggi). In tutti i casi, a perdere le guerre è chi perde il credito.
Armi e munizioni si rimpiazzano, gli uomini no. Le tecnologie richiedono personale altamente specializzato. Il caso del lanciarazzi Himars
Le guerre costano. Per vincerle non basta essere militarmente più forti. Occorre essere in grado di finanziare in modo sostenibile i propri debiti. Il Portogallo era fallito. Poi era fallita, per ben due volte, la Spagna di Filippo II, la massima potenza mondiale dell’epoca, che oltretutto affogava nell’argento e nell’oro dalle Americhe, e aveva entrate annue dieci volte quelle dell’Inghilterra di Elisabetta I. Il costo della guerra contro l’indipendenza dei Paesi Bassi, anzi il costo del debito era divenuto insostenibile. I Paesi Bassi devono la loro rapidissima ascesa a potenza marittima mondiale al fatto che i loro tassi di interesse dal 20 o anche 30 per cento del 1500 erano scesi a meno del 3 per cento nel 1600. Ma poi risalirono nel 1700 al punto che l’egemonia passò a Londra. E così via, nel succedersi di stati guida fino ai giorni nostri. A prevalere, immancabilmente, non sono gli stati più forti o con maggiori capacità economiche, ma quelli con più credito e maggiori capacità finanziarie. It’s the credit, stupid!, viene da dire.
Il generale Stanchezza
Contrariamente all’impressione che se ne può avere, le guerre a cui abbiamo assistito negli ultimi secoli non sono state protratte. Secondo il professore di scienze politiche dell’Università di Chicago Paul Poast, dal 1815 in poi la durata media delle guerre sarebbe stata di circa 3 mesi. Nel 2003 gli americani avevano squagliato il regime di Saddam Hussein e conquistato l’Iraq in appena 20 giorni. Nel 2001 i mujaheddin dell’Alleanza del nord avevano preso Kabul e messo in fuga i talebani in meno tempo ancora. Poi ci sono stati altri vent’anni di guerra non dichiarata, e, partiti i marine, i talebani sono tornati in men che non si dica. A riprova che non è mai finita, anche se sembra che sia finita.
Se i democratici dovessero perdere le elezioni di Midterm, i commentatori la vedono dura per il finanziamento di nuove armi all’Ucraina
“Dobbiamo prepararci al fatto che potrebbe durare anni”, ha detto il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. La vince chi la dura, si potrebbe dire. Anzi, meglio: la vince chi si stanca un attimo dopo. L’Ucraina ha sorpreso tutti per la convinzione, la determinazione con cui si è difesa. Ma si sentono scricchiolii, e il prezzo potrebbe essere un inasprirsi della dittatura di guerra. Ci sono segnali di forte stanchezza in America, e anche in Europa.
Alle elezioni di Midterm di novembre i democratici di Biden potrebbero perdere la maggioranza alla Camera, e forse anche al Senato, dove si vota per un terzo dei seggi. E in tal caso tutti i commentatori la vedono dura per il finanziamento di nuove armi all’Ucraina. Se, tra gli elettori democratici, il 78 per cento si dice disposto ad accettare benzina più cara per aiutare l’Ucraina, tra gli elettori repubblicani lo è solo il 44 per cento. Boris Johnson è fuori gioco. Macron non ha più una maggioranza all’Assemblée Nationale. Dio solo sa quale governo ci sarà in Italia nei prossimi mesi. Ragioni e dinamiche sono diversi. Ma in tutti i casi le opinioni pubbliche sono assai più preoccupate dell’inflazione, dell’aumento del costo della vita, del gas e della benzina, di una possibile recessione, che delle sorti dell’Ucraina. E’ evidente che Putin ha puntato tutto su questo, un “cambio di regime” in occidente prima che facciano fuori lui in Russia.
Cose dai nostri schermi