Kyiv vista dal Caucaso
Armenia amara
A Yerevan non c’è nemmeno una bandiera ucraina, si tifa Russia, soprattutto si dipende in tutto dalla Russia, unica alleata nel conflitto con gli azeri. “Dov’era l’occidente quando eravamo noi gli aggrediti?”
Dalla collina arsa dal sole la distesa di bandiere degrada verso la strada. Il silenzio solenne è spezzato solo dal rumore del vento che agita i drappi, uno piantato per ogni tomba. Le lapidi, tutte in fila, si affacciano su Yerevan, osservano la città adagiata qualche chilometro oltre, nella conca di calore, a ricordarle il prezzo pagato da migliaia di vite. Una donna, il capo coperto da un velo nero in segno di lutto, spazza via la polvere dalla tomba del figlio. Il suo volto da diciassettenne, senza barba e con qualche ricciolo ribelle sulla fronte, stona con la severa divisa mimetica che indossa nella foto sulla lapide. E’ solo uno degli oltre duemila giovani caduti due anni fa nella seconda guerra del Nagorno Karabakh, un territorio riconosciuto dalla comunità internazionale come parte integrante dell’Azerbaigian ma rivendicato anche dall’Armenia. Nel cimitero militare di Yerablur, nella periferia della capitale armena, riposano i militari caduti nelle guerre combattute contro gli azeri tra il 1992 e il 2020. L’Armenia, sconfitta due anni fa, ha perso ogni diritto sul Nagorno Karabakh e adesso, ferita nell’orgoglio e impoverita, osserva da spettatore il confronto fra Russia e occidente in Ucraina.
Gli effetti della guerra si sono già fatti sentire fino al Caucaso. La settimana scorsa il direttore della Cia, William Burns, è volato qui per incontrare il premier armeno Nikol Pashinyan. Sulla riunione vige il massimo riserbo. I due avrebbero discusso ufficialmente di questioni di “sicurezza regionale e internazionale”. Ma appena tre giorni dopo, anche il direttore dei servizi segreti esteri russi, Sergei Naryshkin, ha incontrato Pashinyan. Una coincidenza insolita. “La mia visita qui non è assolutamente legata a quella del mio collega americano – ha dichiarato Naryshkin – Ma non posso escludere che, al contrario, la sua visita sia legata alla mia”. La competizione per evitare effetti contagio della guerra in Ucraina è in piena corsa. Gli americani sanno bene che in Armenia, ancora oggi, i russi replicano vecchi giochi di potere, stringono alleanze, mediano, minacciano. E’ il peso insopportabile che grava sulle spalle di un piccolo paese con nemmeno tre milioni di abitanti: avere un gigantesco, scomodo alleato. Anche a Tbilisi come a Yerevan, Vladimir Putin ha il potere di fare da arbitro del destino di paesi con una chiara e distinta identità nazionale, marcata da lingue secolari, da tratti culturali e storici unici e antichissimi. In Armenia la disgrazia più grande imposta dal Cremlino è stata quella di costringere il paese a dovere sempre chiedere il permesso: per usufruire delle risorse energetiche, per aprire e chiudere i confini, per fare la guerra e per fare la pace. Come una matrigna, la Russia è stata l’unica ad avere offerto aiuto militare a Yerevan, che spingeva per la riconquista dalle mani azere dell’Artsakh, come chiamano qui il Nagorno Karabakh. Un pezzo di terra di appena tremila chilometri quadrati, semi disabitato e che vive di agricoltura, ma parte integrante del sogno nazionalista di una “grande Armenia”, un sogno alimentato dalla ricca diaspora, oltre 8 milioni di persone sparse per il mondo che finanziano un paese intero. Così, da trent’anni, in nome del dominio su queste montagne silenziose, Yerevan ha mandato al fronte a morire generazioni intere, per lo più giovani inesperti e male equipaggiati.
Oltre a quello militare, l’aiuto dei russi dagli anni Novanta a oggi è stato anche economico. Costrette a chiudere per via delle sanzioni internazionali, molte società di Mosca hanno dislocato le loro sedi a Yerevan, portando un notevole sollievo all’economia della capitale. Anche i turisti russi sono tanti, attirati dalla storia di una terra ricca di templi zoroastriani e chiese risalenti all’alba del cristianesimo. Sono i benvenuti, soprattutto oggi che i turisti occidentali sono sempre meno, spaventati perché temono che l’Armenia possa fare a breve la stessa fine dell’Ucraina.
L’Armenia dipende dalla Russia in tutto: il gas e l’energia elettrica appartengono a società russe, per fare affari e investimenti bisogna avere il placet di Mosca, e lo scorso aprile russi e armeni hanno aperto le trattative per passare dal dollaro al rublo come valuta per le transazioni bilaterali. Con un’economia legata a doppio filo a quella di Mosca, Yerevan ha pagato a caro prezzo le sanzioni imposte ai russi per la guerra in Ucraina. Dall’inizio dei combattimenti, a febbraio, le sue proiezioni di crescita annua sono crollate dal 5,3 all’1,6 per cento del pil e uno stipendio medio è di appena 400 dollari al mese.
Al di fuori delle relazioni con la Russia, l’economia armena è soffocata dalla chiusura dei confini e vive il paradosso di un paese in trappola, ma esteso su un territorio che nella storia è stato invece uno degli snodi principali della Via della Seta, ricco crocevia di popoli lontanissimi. Oggi restano aperti solamente i confini settentrionali con la Georgia e quelli meridionali con l’Iran. Questi ultimi si attraversano su una stretta strada dissestata che valica le montagne che si affacciano in Persia. Colonne di tir provenienti da Teheran e carichi di gasolio arrancano a 20 chilometri orari lungo tornanti che si attorcigliano sulle montagne della provincia di Syunik. A sua volta costretto dall’isolamento internazionale, l’Iran considera quest’unica via d’accesso in Armenia, che non ha aderito al sistema di sanzioni, un’arteria vitale per commerciare almeno una parte delle proprie risorse all’esterno del paese. Ora però, la vittoria dell’Azerbaigian nel Nagorno Karabakh rischia di mettere in pericolo anche quest’ultimo passaggio. Gli azeri chiedono la creazione di una via di comunicazione, il cosiddetto corridoio di Zangezur, che li ricongiunga all’exclave del Nakhchivan, un territorio autonomo ma recentemente tornato sotto la sovranità di Baku dopo la guerra del 2020. L’Armenia e l’Iran si oppongono, perché temono che il corridoio possa portare alla chiusura del loro confine. Così, al recente vertice di Teheran con Turchia e Russia, l’ayatollah Ali Khamenei ha avvertito che non tollererà la chiusura “della strada che unisce i due paesi, aperta da migliaia di anni”.
Gli altri due confini, quello con l’Azerbaigian e quello con la Turchia, restano chiusi. Oltre alla guerra nel Nagorno Karabakh, in cui Ankara è sempre stata schierata al fianco degli azeri, le relazioni con i turchi risentono della questione del genocidio del 1915, in cui furono massacrati un milione e mezzo di armeni. Negli ultimi mesi però Armenia e Turchia sono impegnate in un lento e faticoso riavvicinamento diplomatico, favorito da due variabili. La prima è quella americana, con il presidente Joe Biden che ad aprile dello scorso anno ha ufficialmente riconosciuto il genocidio armeno e ha aumentato i suoi sforzi per sostenere Yerevan nella normalizzazione delle relazioni con i turchi. La seconda è quella russa, perché Mosca vede nell’Armenia una via di passaggio cruciale per le sue merci dirette in Turchia e Iran, che non aderiscono al sistema di sanzioni internazionali. Per questo, Mosca ha ospitato i primi vertici diplomatici fra le delegazioni armene e turche e si è arrivati già a un pre accordo per l’apertura del valico di Margara a uomini e mezzi di nazionalità terze. La riapertura del confine con la Turchia darebbe sollievo anche all’identità e alla storia stessa dell’Armenia. Sovrastando Yerevan, da cui dista appena 65 chilometri, il monte sacro dell’Ararat veglia sulla città pur essendo in territorio turco. A causa della chiusura della frontiera, gli armeni che intendono salire sulla “montagna di Noè” devono però percorrere oltre 400 chilometri verso nord sconfinando in Georgia, per poi tornare a sud fino alla Turchia, dove il nome Ararat significa, ironia della sorte, “montagna del dolore”.
I russi invece si muovono disinvolti per il paese. Diventati arbitri del conflitto per il Nagorno Karabakh, le camionette cariche dei militari di Putin viaggiano sventolando la bandiera russa tra le basi di Gyumri e Sisian, dove sono stanziati i tremila cosiddetti peacekeeper di Mosca. L’Armenia è l’unico paese dell’ex Unione Sovietica che ospita un contingente russo così nutrito. All’inizio della guerra in Ucraina si diffuse pure la notizia – poi rivelatasi falsa – dello spostamento di alcuni di questi militari al fronte del Donbas. In Armenia tutti o quasi parlano russo, sui balconi sventolano sovente le bandiere russe al fianco di quelle armene. Quella ucraina invece è introvabile. Alle pendici del Piccolo Caucaso, la fama di Volodymyr Zelensky non ha fatto breccia. Due motivi rendono gli armeni diffidenti nei confronti degli ucraini. Il primo risale all’ottobre del 2020. Mentre i giovani armeni andavano a morire al fronte nella seconda guerra del Nagorno Karabakh, Zelensky si schierò apertamente al fianco degli azeri. “Sosteniamo l’integrità territoriale e la sovranità dell’Azerbaigian, così come l’Azerbaigian da sempre sostiene la nostra integrità e sovranità”, furono le parole del presidente ucraino. Poi, con l’inizio della guerra in Ucraina, è subentrato un motivo ulteriore, una forma di risentimento generalizzato da parte di Yerevan nei confronti della comunità internazionale, tanto solidale con Zelensky quanto disinteressata nei confronti dell’Armenia. L’opinione diffusa qui è che la loro integrità territoriale non sia considerata dall’occidente con la stessa urgenza con cui è considerata quella ucraina. A rendere difficile per l’occidente voltare le spalle all’Azerbaigian c’è anche la questione energetica. La settimana scorsa, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, è andata a Baku dal presidente Ilham Aliyev per concludere un altro accordo e raddoppiare entro il 2027 la fornitura di gas. Tanti sorrisi e strette di mano che rendono chiara l’idea di quale parte l’Europa abbia già scelto di prendere, spinta dall’urgenza di rendersi indipendente dal gas russo.
Se da una parte Kyiv non è Yerevan, dall’altra gli armeni trovano svariate somiglianze fra Zelensky e il loro premier, Nikol Pashinyan. Entrambi giovani, arrivano da ambienti estranei alla politica – comico il primo, giornalista il secondo. Soprattutto, entrambi sono stati “condottieri” delle rispettive nazioni, uno contro i russi, l’altro contro gli azeri. Qualcuno sui social network non ha mancato di sottolineare altre singolari analogie leggendo i discorsi fatti per infondere coraggio nei loro popoli impegnati in guerra. A febbraio, all’inizio dell’invasione russa, Zelensky si rivolse agli ucraini dicendo: “Quando correvo per la presidenza ho detto che ciascuno di noi sarebbe stato un presidente. Perché ognuno di noi è responsabile del nostro stato. Della nostra bellissima Ucraina. E ora è successo che ognuno di noi è un guerriero, un guerriero nella sua città. E sono sicuro che vinceremo”. Anche Pashinyan aveva pronunciato parole simili. “Il nostro paese ha tre milioni di primi ministri”, aveva detto il premier armeno durante la guerra di due anni fa: “Ognuno di noi deve dedicarsi a un obiettivo. Il nome di questo obiettivo è vittoria. E ognuno di noi deve essere pronto ad andare al fronte per questa vittoria, in qualsiasi momento. E vinceremo, vinceremo senza dubbio”. Ma poi vinse l’Azerbaigian.