l'uomo decisivo
Così Garland, il guardasigilli americano, s'è trovato tra le mani il futuro politico di Trump
L'indagine del dipartimento di Giustizia americano sul ruolo dell'ex presidente nell'assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 dipende tutto dal procuratore generale nominato da Obama
L’antefatto esiste. A ciascuno valutarne il peso. Nel 2016 il presidente Barack Obama, alla morte del giudice della Corte Suprema Antonin Scalia, nomina il concittadino chicagoense Merrick Garland giudice associato della Corte. Tuttavia la maggioranza del Senato repubblicano rifiuta di votare la nomina e declina un’eventuale audizione con lui, caso senza precedenti e, diciamolo pure, grave smacco. Il 3 gennaio 2017, Garland lascia l’incarico dopo 293 giorni. Alla Casa Bianca è entrato Donald Trump, che al suo posto s’affretta a nominare il conservatore Neil Gorsuch. Quattro anni più tardi il neopresidente Joe Biden affida a Garland il ministero della Giustizia. Oggi, in questo snodo essenziale dell’attualità politica americana, Merrick Garland è l’uomo delegato a prendere le decisioni definitive sull’incriminazione penale di Trump per le responsabilità relative ai disordini insurrezionali del 6 gennaio 2021, nel tentativo d’impedire la legittimazione della vittoria elettorale di Biden.
Intervistato in tv Garland ha promesso “una giustizia senza timori o favoritismi” allo scopo d’appurare l’effettivo ruolo del presidente nei fatti di quella tragica giornata. E’ importante sottolineare come l’inchiesta di Garland sia del tutto distinta da quella condotta da alcune settimane dalla speciale commissione del Congresso – la stessa che ha appena riconosciuto Steve Bannon colpevole d’oltraggio per il suo rifiuto di testimoniare. Al tempo stesso Garland ha magnificato lo sforzo investigativo prodotto dal dipartimento, definendo l’indagine come “la più ampia della sua storia”. E, a prima vista, si direbbe che gli interrogatori condotti in questi giorni dai suoi procuratori stiano stringendo il cerchio attorno a Trump e alla fondamentale distinzione tra strategia o casualità all’origine del suo comportamento - comunque irrazionale – in quell’occasione.
Tutto questo avviene nelle stesse ore in cui Donald Trump ha rimesso piede a Washington dopo 19 mesi di assenza, con la trasparente intenzione di gettare le basi per una sua imminente candidatura alla prossima corsa elettorale – mossa perlomeno controversa nell’attuale campo repubblicano, dove i suoi sostenitori sembrano minoranza rispetto a chi considera l’operazione rischiosa e poco presentabile (tra costoro va iscritta Fox News, che fu il megafono mediatico di Trump nel 2016. Il ritorno di Trump nella capitale è stato trattato dall’emittente con relativa rilevanza, al paragone con la diretta accordata a un discorso del suo ex vice Mike Pence e alle attenzioni verso Ron DeSantis, astro nascente tra le ipotesi presidenziali conservatrici).
Ecco dunque che il procuratore generale Garland diventa il vero stopper delle ambizioni di Trump. Sostanziali saranno le sue scelte e il tempismo con cui le metterà in atto: “Se Trump sarà di nuovo candidato alla presidenza, cambierà il suo modo di procedere?” gli ha chiesto Lester Holt della Nbc. “Noi perseguiremo chiunque sia penalmente responsabile d’aver tentato d’interferire nel trasferimento legittimo del potere da un’Amministrazione all’altra, fondamento della nostra democrazia”, ha risposto l’imperturbabile Garland. Ribadendo con devozione: “Questo è il nostro compito. Non prestiamo attenzione ad altro”. Ribadendo la totale indipendenza della sua inchiesta rispetto alla commissione parlamentare: “Non è per denigrare il loro operato, ma noi abbiamo la nostra indagine che segue i principi dell’azione penale”.
Ovvero: il dipartimento di Giustizia non fa politiche di saldi di stagione. Ed è qui che Garland offre la chiave per comprendere la sua posizione: “Il principio basilare del modo in cui il dipartimento di Giustizia indaga, che è un principio basilare dello stato di diritto, sta nel fatto che noi non conduciamo le indagini in pubblico”.
Comunque la si guardi è un’affermazione di superiorità – etica, procedurale, sostanziale – della visione giudiziaria rispetto a quella politica. Noi siamo gli scienziati, voi solo i comunicatori. Poco importa che dalla commissione arrivano allusioni – Liz Cheney in testa – alla lentezza con cui si muove l’indagine ministeriale. Garland viene dipinto come un personaggio ossessivamente flemmatico, cultore dell’imparzialità. Lui risponde alludendo al fatto che gli uomini della giustizia ubbidiscono a un codice a cui i politici attingono solo per convenienza. Il giorno in cui quelli del Congresso gli sbatterono la porta in faccia, questa convinzione dev’essersi fatta marmorea. Ottimo motivo di preoccupazione, nel team Trump. All’imbocco di un sentiero di riappropriazione del potere che appare stretto e tortuoso.