il reportage
A Bucha il suono della ricostruzione supera quello delle sirene
Ogni via porta la cicatrice dell’orrore russo, ma non c’è tempo per odiare. Il primo passo per ripartire è togliere di mezzo i calcinacci, mentre si allestiscono mense e cucine comuni nelle piazze per chi è rimasto senza casa
Bucha. La sirena degli attacchi aerei è ancora una presenza fissa nei dintorni di Kyiv. Mentre suona tra i palazzi distrutti di Bucha, le persone non si scompongono più di tanto, nessuno corre più a nascondersi. “Se ogni volta che sentiamo l’allarme ci andassimo a riparare, non avremmo più tempo per le nostre attività, non avremmo più tempo per fare niente”, dice al Foglio Andriy, che durante le prime fasi del conflitto ha prestato servizio come medico. Non che le bombe non arrivino più da queste parti. Appena tre giorni fa la flotta russa nel Mar Nero ha colpito con almeno sei missili una cittadina 25 chilometri a nord di Kyiv, Liutizh. Uno dei vettori sarebbe stato intercettato dall’antiaerea proprio sopra Bucha. Ma dopo un mese di occupazione, dopo i crimini della guarnigione russa e le fosse comuni, gli abitanti di questa cittadina tornano a vivere e a lavorare.
Mentre ci si sposta tra Bucha, Irpin, Hostomel, Borodyanka e tutte le cittadine a nord-est della capitale ucraina, si fatica a trovare un edificio che non porti le cicatrici della guerra. Dopo un po’ l’occhio si abitua alla distruzione. Ma è una distruzione in cui gli ucraini stanno mettendo ordine. Poco fuori da Bucha, ai piedi di una palazzina i cui piani superiori sono stati distrutti dalle bombe, un capannello di persone si riunisce intorno a un cassone d’acqua comune. Nei piani dei palazzi ancora agibili, si continua ad abitare, anche se mancano l’elettricità o la fornitura idrica.
Intorno però non ci sono più le macerie che ricordavano i primi mesi dell’invasione. Subito dietro questo luogo di incontro condominiale si vedono i materiali rimossi, accatastati ordinatamente, con quelli che dovevano essere i piani di calpestio dell’edificio impilati uno sopra l’altro perché si possa capire cosa è riutilizzabile e cosa no e per permettere il passaggio. “Noi ucraini siamo bravi a rimettere a posto le cose”, si vantano i ragazzi che stazionano sotto l’edificio, spiegando che togliere di mezzo i calcinacci è il primo passo per ricostruire i caseggiati distrutti. Nel caso delle abitazioni monofamiliari, più facili da riparare rispetto ai grandi condomini di ispirazione sovietica, la ricostruzione è già iniziata. In un complesso di villette isolato – “Sun city” si legge sulla scritta all’ingresso – ferve l’attività di chi deve ricostruire la propria abitazione prima che arrivi l’inverno e, almeno qui, il rumore che la fa da padrone non è quello delle sirene ma quello di seghe, martelli e altri strumenti da costruzione.
Molte delle case danneggiate non hanno più il gas e così sono state allestite mense e cucine comuni nelle piazze. A ora di pranzo sono affollate e le persone restano a lungo a chiacchierare all’ombra dei palazzi diroccati. Si crea, intorno al cibo e a questi beni di prima necessità che ora sono di tutti, un senso comunitario molto forte. Ovunque, dalle macerie dei palazzi alle bancarelle, ci sono le bandiere gialle e azzurre dell’Ucraina, che devono apparire rassicuranti per chi per settimane ha visto sventolare solo il tricolore russo.
“Questo era il mio laboratorio, almeno quello che ne resta”, spiega Maksym. E’ un fabbro che abita a Irpin, la cittadina gemella di Bucha, da cui è divisa solo da una strada. Maksym è specializzato nel forgiare armi e armature medievali per la scherma storica. Il laboratorio in cui lavorava prima si trova in un complesso a pochi passi dal centro, dove non resta in piedi nessun edificio più alto di due piani e i muri sono coperti in maniera praticamente uniforme dai graffi delle schegge di bomba. Adesso ha spostato la sua attività in un garage che si trova sempre nella stessa zona. E’ danneggiato ma almeno è ancora in piedi. Qui ha ricominciato a lavorare e a realizzare i suoi elmi e le sue spade, che mostra con grande orgoglio. Mentre cammina per le strade di questo sobborgo ogni tanto Maksym si ferma per dire “qui abitava una persona che conoscevo, i russi lo hanno ucciso” oppure “questa era la casa in cui abitava il responsabile cittadino, gli hanno sparato durante l’occupazione” e ancora “in questa casa vive un uomo molto vecchio, quelli della guarnigione russa hanno ucciso suo figlio”.
Chiedo di accompagnarmi alla chiesa di Sant’Andrea, a Bucha, dove è stata ritrovata una delle fosse comuni più grandi. E’ un luogo deserto, dove regna il silenzio e sono ancora visibili i nastri che recintano la tomba improvvisata. Intorno non c’è niente che spieghi cosa sia successo in quel luogo le cui foto hanno fatto il giro dei quotidiani più importanti del mondo. Chi abita qui ha scelto di non soffermarsi sull’orrore della guerra, senza tuttavia scordarlo. Non si vuole spettacolarizzare, si cerca di evitare i riflettori puntati addosso, ma non si dimentica. Chi rilascia dichiarazioni ricorda in maniera metodica i nomi dei morti, dove abitavano, quando sono stati uccisi e come.
Quell’orrore non è scomparso, è sempre in Ucraina. Le bombe che ieri hanno ucciso cinque persone a Mykolaïv, il video di un soldato ucraino che viene evirato con un taglierino e il bombardamento del campo di prigionia dove erano detenuti alcuni dei prigionieri ucraini reduci dall’assedio di Mariupol sono un esempio delle ultime 48 ore.
Questo continuo rinnovarsi del terrore può mutare in odio, anche se gli ucraini dicono di non aver bisogno dell’odio, per qualcuno potrebbe mutarsi in voglia di vendetta, ma a tempo debito: gli ucraini – come ripetono loro stessi ogni volta che ne hanno modo – sono pragmatici e adesso quello che serve è un tetto sopra la testa prima che arrivi il freddo, per sé e per le proprie famiglie. “Lo stato non ha soldi e per il momento, per chi vuole restare in queste case, bisogna organizzarsi con i propri mezzi, dato che winter is coming”, racconta Andriy, sorridendo con invidiabile ironia.