Uno spettatore sventola una bandiera americana durante la Convention nazionale dei democratici a Denver, Usa (Getty Images) 

​​​​​​​Agosto di comizi, negli Stati Uniti e in Italia

Marco Bardazzi

Le grandi convention dei democratici e dei repubblicani per incoronare i candidati alla Casa Bianca si tengono d'estate. Quella di Bush nel 2004 è ancora una lezione per la sinistra: non è così che si fa una campagna elettorale

Una campagna elettorale in agosto: adesso sì che siamo diventati davvero americani. Dagli Stati Uniti avevamo importato un po’ tutto, ci mancava il salto nella politica agostana. Ogni tanto abbiamo provato anche a usare gli strateghi elettorali a stelle e strisce nelle elezioni italiane, ma non avevamo tenuto in considerazione il fatto che, come gli atleti, anche loro raggiungono la forma migliore in un momento preciso dell’anno. Forse per questo non hanno mai avuto particolare successo in Italia: perché l’America della politica, abituata da sempre a votare in autunno, comincia a dare il meglio di sé proprio in agosto.

 

Il mese che per gli italiani è sinonimo di vacanze, uffici chiusi e distacco da tutto, è invece quello in cui gli americani si sintonizzano con la politica. Anche quelli – la stragrande maggioranza – che la seguono poco o niente. Ogni quattro anni, agosto è il mese delle due grandi convention dei democratici e dei repubblicani per incoronare i candidati alla Casa Bianca. Ma anche negli anni del voto di midterm, come quello in corso, o delle elezioni per il rinnovo di sindaci, governatori, sceriffi, giudici e cariche politiche varie, è agosto il mese nel quale entrano nel vivo le campagne elettorali. Merito della consuetudine immutabile dell’Election Day, che da sempre è fissato “il martedì dopo il primo lunedì di novembre”, cioè un martedì tra il 2 e l’8 di novembre: una scelta fatta fin dai tempi dei padri fondatori, per venire incontro alle esigenze di chi, per votare, doveva allontanarsi dal lavoro nei campi.

 

L’Italia, come è stato più volte ricordato in questi giorni, non andava al voto in autunno per le elezioni politiche dal 1919. C’erano stati esecutivi balneari e crisi di governo pilotate dagli ombrelloni del Papeete, ma agosto di solito per la politica è sempre stato un mese di amichevoli precampionato. Con al massimo il rito del passaggio dei politici abbronzati sul palco del Meeting di Rimini, a fine mese, a segnare una sorta di apertura informale della stagione. Stavolta invece, con il traguardo della corsa alle urne fissato il 25 settembre, sembriamo davvero americani.

 

Chi si scandalizza di fronte alla prospettiva di fare campagna elettorale in agosto, non ha che da ripercorrere la storia delle convention americane, quei quattro giorni di politica e spettacolo che ogni quattro anni invadono un paio di città e monopolizzano l’attenzione di tutti i media del paese, con mobilitazioni giornalistiche paragonabili solo alle Olimpiadi. In media, si tratta di kermesse con quattromila delegati dentro un grande impianto sportivo, 15 mila operatori dei media a raccontarle, 10-20 mila uomini della sicurezza in assetto da combattimento e alcune decine (talvolta centinaia) di migliaia di manifestanti all’esterno a protestare, incitare e cercare di dettare l’agenda e attirare l’attenzione delle tv. Il tutto tra fine luglio e i primi giorni di settembre, con agosto come mese più gettonato. Da lì, da quei momenti di rito collettivo della politica, tra discorsi ispirati, inni, video mozzafiato e piogge di palloncini, parte la volata finale che per i due mesi successivi prepara il terreno all’Election Day.

 

Tra gli anni elettorali più recenti, il 2004 è quello che forse rende meglio l’idea di cosa sono le convention e quindi cosa è la politica agostana all’americana. La sfida era tra George W. Bush, presidente repubblicano in carica e nel pieno della crisi per la pessima gestione del periodo postbellico in Iraq, e John Kerry, veterano del Vietnam, senatore democratico di lungo corso, speranza del fronte progressista per ridurre a un solo mandato l’esperienza di governo di Bush. Come è finita è storia nota, ma i democratici erano sicuri di vincere e avevano messo in piedi una convention hollywoodiana.

 

La sede era il Fleet Center, un’arena sportiva di Boston, la città di Kerry e sul palco erano sfilate tutte le stelle del firmamento progressista. Ci si aspettava che il discorso più ispirato e coinvolgente fosse quello di Bill Clinton, un talento imbattibile quando si trattava di scaldare il pubblico delle convention in diretta tv. Ma la star fu invece un semisconosciuto candidato senatore dell’Illinois dalla pelle nera e dal nome esotico, Barack Obama, che ipnotizzò la platea e il paese con un discorso contro le divisioni e le polarizzazioni che è passato alla storia. “Non esiste un’America liberal e un’America conservatrice, esistono gli Stati Uniti d’America”, fu la frase che le tv rilanciarono in continuazione in un paese in realtà allora diviso e polarizzato quasi quanto lo è oggi. Chris Matthews, il volto più noto della Nbc, commentò a caldo: “Ho appena visto il primo presidente nero”. Una profezia che si avverò in soli quattro anni.

 

La convention si tenne negli ultimi giorni di luglio e gli strateghi elettorali democratici trascorsero tutto il mese di agosto a costruire lo “spin” dei messaggi mandati da Boston. Kerry e il suo vice John Edwards si lanciarono in un massacrante tour agostano e anche il neo-famoso Obama fece di tutto in quel mese per cercare di creare un vantaggio solido sui repubblicani. Ma quando il partito di Bush aprì la propria convention, il 30 agosto, l’effetto di tutto il lavoro fatto a Boston svanì rapidamente. E in buona parte ne furono responsabili proprio i sostenitori di Kerry, soprattutto la sinistra più radicale: nel tentativo di dipingere il presidente in carica come la somma di tutti i mali del mondo, coalizzarono i repubblicani intorno a lui e allarmarono la parte moderata del paese. Una lezione utile da tenere a mente anche per i progressisti di casa nostra, in questo agosto inedito di campagna elettorale già ricco di demonizzazioni.

 

Il colpo di genio di Karl Rove e del team di strateghi repubblicano fu quello di scegliere con largo anticipo, come sede della convention, uno dei luoghi politicamente più ostili del paese: New York. Per quattro giorni, il presidente e i delegati restarono chiusi a discutere di politica nel Madison Square Garden, assediato da centinaia di migliaia di manifestanti incitati e aizzati dal regista e attivista Michael Moore. Le immagini della metropoli invasa dalle proteste rimbalzarono in tutta l’America e oscurarono tutto il lavoro fatto dal team di Kerry per dare del candidato democratico un’immagine di autorevolezza, in una campagna elettorale giocata in gran parte sui temi della sicurezza e della guerra.

 

Sul palco del Madison Square Garden sfilarono reduci dall’Afghanistan e dall’Iraq e sopravvissuti all’attacco dell’11 settembre di soli tre anni prima, a pochi giorni dall’anniversario e a pochi chilometri dal cratere di Ground Zero. Rudy Giuliani, in quel momento considerato il “sindaco d’America” (Donald Trump era ancora un palazzinaro impegnato a fare affari nella vicina Trump Tower), contribuì a sancire il distacco tra l’America “seria” che si stringeva intorno al presidente e gli “scalmanati” all’esterno che disonoravano i veterani e le vittime del terrorismo. Finì con un secondo mandato per Bush, incoronato alla convention dal compagno di partito che avrebbe poi cercato di ereditarne il posto: John McCain. Un altro veterano del Vietnam che non riuscì a conquistare la Casa Bianca, persa quattro anni dopo contro Obama.

 

Agosto, nonostante il caldo, è da sempre il mese in cui la politica americana diventa quindi anche una faccenda di piazze piene e manifestazioni. Non a caso le convention hanno assunto la formula attuale proprio in seguito a una rivolta di piazza in agosto. L’anno era il fatidico e incandescente 1968, il luogo Chicago, sede della convention dei democratici che doveva incoronare il successore del presidente Lyndon B. Johnson dopo la sua rinuncia a candidarsi a un secondo mandato.

 

Cosa accadde in quei giorni tra il 26 e il 29 agosto lo ha raccontato molto bene di recente il film Il processo ai Chicago 7 del regista Aaron Sorkin, un maestro della narrazione politica americana (è il creatore della serie West Wing). La città si trovò al centro di violente proteste di massa, in un anno che aveva già visto gli assassinii di Robert Kennedy e Martin Luther King e con la gioventù americana in rivolta per la guerra in Vietnam. La frattura all’interno del Partito democratico era profonda e lo spartiacque principale era proprio la guerra. I pacifisti appoggiavano il senatore Eugene McCarthy, ma l’establishment del partito – pilotato dal presidente Johnson – puntò su Hubert Humphrey. La scelta fu perdente e aprì le porte all’elezione di Richard Nixon alla Casa Bianca. Ma l’agosto caldo di Chicago fece emergere anche il bisogno di ridefinire le regole del gioco della convention, cercando di sottrarre il potere ai notabili per darlo ai rappresentanti eletti nelle primarie nei vari stati.

 

Le modifiche decise all’epoca dai democratici e imitate poco tempo dopo dai repubblicani hanno disegnato l’iter delle campagne elettorali attuali: primarie e caucus in inverno-primavera, convention in agosto, dibattiti in tv a ottobre, voto a novembre. Con una tradizione non scritta in più, quella dell’October surprise, il colpo di scena nell’ultimo mese elettorale che talvolta cambia le carte in tavola. La sorpresa d’ottobre non potrà essere importata nelle elezioni italiane, visto che si vota a settembre, ma chissà che non avvenga quest’anno anche a Roma, nelle settimane di ottobre in cui ci sarà da formare un governo.

 

L’agosto politico americano del 2022 si sta rivelando all’altezza della tradizione, con la politica che si scalda in vista del voto di midterm che prevede quest’anno il rinnovo di tutti i 435 seggi della Camera, di 35 seggi su 100 al Senato e l’elezione di 36 governatori. I candidati trascorreranno tutto il mese a fare comizi e stringere mani in giro per i loro distretti elettorali, che peraltro quest’anno sono stati ridisegnati sulla base delle indicazioni del nuovo censimento.

 

Le prospettive sono abbastanza cupe per i democratici e per la Casa Bianca di Joe Biden. Le ultime simulazioni del sondaggista Nate Silver sul sito FiveThirtyEight parlano di una Camera praticamente già in mano ai repubblicani (gli algoritmi di Silver, basati sui sondaggi, vedono il partito di Trump vincente nell’80 per cento delle simulazioni). Ma anche il Senato è in bilico, al momento è una sfida 50-50, con entrambi i partiti in grado di farcela. Lo scenario appare roseo per i repubblicani anche sul fronte dei governatori, che saranno da osservare anche per individuare possibili futuri protagonisti della corsa alla Casa Bianca 2024.

 

Ecco, la Casa Bianca. In questo agosto politico americano, si stanno già facendo i giochi per la campagna elettorale che arriverà tra due anni. I riflettori nei prossimi giorni saranno per esempio puntati su Dallas, che ospita la Cpac Texas (Conservative Political Action Conference), ribattezzata dagli organizzatori “la riunione dei conservatori più influente al mondo”. Una specie di convention in un anno non presidenziale, dove ad aprire i lavori è stato chiamato il premier ungherese Victor Orbán, seguito nei giorni successivi da una parata di conservatori di ogni gradazione, da Ted Cruz a Steve Bannon, da Sarah Palin a Nigel Farage. Per arrivare al gran finale che ovviamente sarà tutto suo: il momento di Donald Trump, che potrebbe anche trasformarsi nell’annuncio che sarà in corsa di nuovo per la presidenza nel 2024.

 

Ormai sembra scontato che Trump voglia cercare il bis, anche se annunciarlo prima del midterm sarebbe una novità assoluta (ma ormai ci ha abituato a tutto). Le audizioni del Congresso sull’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 lo hanno danneggiato, ma senza un’inchiesta federale non sembra che la commissione d’indagine possa fermarlo. Il suo partito è ancora alla ricerca di alternative e sembra rassegnato ad affidarsi ancora una volta a lui. Una discesa in campo di Trump, accompagnata da una conquista parziale o totale del Congresso, potrebbero spingere Biden a rispondere ricandidandosi, ma tra i democratici c’è assai poco entusiasmo per lui: troppo anziano, troppo poco incisivo, troppo moderato per farcela ancora.

 

La caccia al candidato alternativo a Biden è aperta e se ne parla già molto in un agosto politico nel quale in teoria si dovrebbe parlare di deputati e senatori da votare l’8 novembre prossimo. Tra i nomi che girano ci sono quelli dei governatori dell’Illinois e della California, J. B. Pritzker e Gavin Newsom, oltre a quello della vicepresidente Kamala Harris. Ma la vera novità è che si parla, per una volta seriamente, anche di possibili candidati “terzi”. In America quella degli outsider indipendenti è sempre stata una categoria con scarse possibilità di successo, incarnata da personaggi di colore come Ross Perot o Ralph Nader. Ma di fronte alla prospettiva di un Trump bis da una parte, e di una possibile deriva radicale dei democratici dall’altra, cresce l’ipotesi che si apra uno spazio al centro per offrire un’alternativa alla vasta area di americani indipendenti e moderati. Ne ha parlato anche David Brooks, autorevole editorialista conservatore del New York Times, iniziando a delineare anche le caratteristiche che dovrebbe avere un candidato indipendente per avere successo nel 2024.

In questa strana estate può quindi accadere di tutto. Non solo che l’Italia scopra per la prima volta l’esperienza di fare campagna elettorale all’americana in agosto. Ma anche che gli americani sentano il bisogno di un candidato dell’“area Draghi”.

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