Il ritratto
Chi era al Zawahiri, l'ideologo della violenza
Il medico egiziano fu notato da Bin Laden per la cura con cui ricuciva i mujaheddin colpiti dai sovietici in Afghanistan. Fu il pioniere del terrorismo islamico indiscriminato contro i civili, ovunque si trovassero
Per gli americani era il leader numero due di al Qaida, il vice di Osama bin Laden, occhialuto e con la barba folta. Ma in realtà, erano il cervello e le mani insanguinate di Ayman al Zawahiri a guida Biden ha confermato la morte di al Zawahiri e ha definito l’attacco un “colpo di precisione” senza causare vittime civili. Al Zawahiri aveva guidato il proprio gruppo ed era stato il pioniere di una branca di terrorismo che privilegiava gli attacchi spettacolari e il massacro indiscriminato dei civili.
Quando negli anni Novanta unì formalmente il suo gruppo con al Qaida, portò con sé quelle tattiche e una visione più ampia dell’attacco all’occidente. E’ stato al Zawahiri a ipotizzare che la sconfitta del “nemico lontano” – gli Stati Uniti – fosse un precursore essenziale per affrontare il “nemico vicino” di al Qaida, cioè i regimi arabi filo-occidentali che ostacolavano il sogno del gruppo di unire tutti i musulmani sotto un califfato globale. “Uccidere gli americani e i loro alleati – civili e militari – è un dovere individuale per ogni musulmano che può farlo in ogni paese in cui è possibile farlo”, scrisse al Zawahiri in un manifesto del 1998.
Tre anni dopo, avrebbe messo in pratica quelle parole aiutando a pianificare gli attacchi dell’11 settembre 2001 al World Trade Center e al Pentagono. Nonostante non avesse il carisma di Bin Laden, al Zawahiri diventò la forza intellettuale dietro molte delle ambizioni più grandiose di al Qaida, compresi gli sforzi apparentemente falliti di acquisire armi nucleari e biologiche. E dopo la ritirata forzata del gruppo dalla sua base in Afghanistan all’inizio del 2002, secondo gli osservatori di lunga data del gruppo terroristico, sarebbe stato per lo più al Zawahiri a guidare la risurrezione di al Qaida nella regione tribale senza legge oltre il confine con il Pakistan.
Negli ultimi anni, al Zawahiri ha presieduto al Qaida in un momento di declino, con la maggior parte dei fondatori del gruppo morti o nascosti e il ruolo di leadership dell’organizzazione messo in discussione da gruppi emergenti aggressivi come lo Stato islamico. E’ rimasto la figura di riferimento del gruppo terroristico ma non è riuscito a impedirne la scissione in Siria e in altre zone di conflitto dopo il 2011. Si diceva che fosse in cattiva salute ed è diventato noto per le sue lunghe sparizioni dalla scena pubblica, interrotte occasionalmente dalla pubblicazione di saggi, libri e sermoni videoregistrati che mettevano in evidenza uno stile tipicamente asciutto e pedante che sembrava poco adatto all’èra dei social media.
“Al Zawahiri è l’ideologo di al Qaida, un uomo di pensiero piuttosto che un uomo d’azione”, ha dichiarato a settembre in un’intervista Bruce Riedel, un ex esperto di antiterrorismo della Cia e consigliere di quattro presidenti degli Stati Uniti. “I suoi scritti sono poderosi e a volte incredibilmente noiosi”.
Mentre il secondo decennio dopo l’11 settembre si avvicinava alla fine, la capacità di al Zawahiri di plasmare gli eventi o di esercitare una leadership all’interno del movimento jihadista, ampiamente disperso, sembrava sempre più in dubbio, secondo Riedel: “Non è la figura carismatica di cui al Qaida necessita e non vedo nessun altro all’orizzonte che possa esserlo”.
La via verso il terrorismo
Il percorso che ha portato al Zawahiri a diventare uno dei terroristi più conosciuti al mondo ha avuto un inizio improbabile in un sobborgo del Cairo di classe medio-alta e religiosamente eterogeneo, dove vivevano molte delle famiglie egiziane più agiate.
Il padre di al Zawahiri, Mohammed Rabie al Zawahiri, era professore di farmacologia e il nonno materno era il direttore dell’Università del Cairo. All’epoca della nascita di al Zawahiri, il 19 giugno 1951, la sua città natale, Maadi, aveva una grande popolazione ebraica e vantava più chiese che moschee. Giovane serio e dotato di talento accademico, fu influenzato precocemente da uno dei suoi zii, Mahfouz Azzam, un appassionato critico del governo secolarista egiziano, e dagli scritti di Sayyid Qutb, scrittore e intellettuale egiziano che divenne uno dei fondatori dell’estremismo islamico del Ventesimo secolo.
Lawrence Wright scrive nel suo libro premio Pulitzer “Le altissime torri” che fu l’esecuzione di Qutb da parte del governo egiziano nel 1966 a ispirare al Zawahiri, allora quindicenne, a organizzare un gruppo di giovani amici in una cellula clandestina dedicata al rovesciamento del governo egiziano e all’instaurazione di una teocrazia islamica. Il piccolo gruppo di seguaci di al Zawahiri si trasformò in un’organizzazione nota come Jamaat al Jihad, o gruppo del Jihad.
Anche se le sue idee politiche si erano radicalizzate, al Zawahiri stava perseguendo una carriera nelle arti curative, conseguendo una laurea in medicina all’Università del Cairo e servendo per un breve periodo come chirurgo dell’esercito. Poi aprì uno studio in una villetta a due piani di proprietà dei suoi genitori e ogni tanto curò i pazienti di una clinica del Cairo sponsorizzata dai Fratelli musulmani, un gruppo di opposizione politica islamista sunnita. Sposò Azza Nowair, figlia di una ricca famiglia egiziana molto ben connessa con la politica: ebbero un figlio e cinque figlie.
Mentre lavorava alla clinica dei Fratelli musulmani, al Zawahri fu invitato a fare la prima di numerose visite ai campi profughi lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan. Lì, cucì le ferite dei mujaheddin che combattevano contro i sovietici in Afghanistan e incrociò un giovane e carismatico saudita, Bin Laden.
All’epoca, tuttavia, al Zawahiri era occupato a gestire il proprio movimento rivoluzionario. All’inizio degli anni Ottanta, il suo Jamaat al Jihad aveva avviato una serie progetti per assassinare i leader egiziani e aveva avuto un ruolo nell’uccisione del presidente egiziano Anwar Sadat, il 6 ottobre del 1981.
La massiccia repressione governativa che ne seguì portò al Zawahiri in prigione, insieme a centinaia di suoi seguaci. Fu rilasciato dopo aver scontato una pena di tre anni, ma in seguito avrebbe dichiarato in un libro di memorie di essere stato torturato durante la detenzione, un’esperienza che, a suo dire, lo rese più determinato nella volontà di distruggere il governo egiziano con la forza.
Durante i suoi anni di nomadismo dopo la prigione, al Zawahiri viaggiò spesso in Asia meridionale e trovò sempre più spesso un’intesa con i mujaheddin e con lo stesso Bin Laden, che arrivò ad affidarsi all’egiziano come suo medico personale. Il saudita soffriva di pressione bassa e di altri disturbi cronici e richiedeva frequenti infusioni di glucosio. La costanza di al Zawahiri nel prestare soccorso di fronte ai bombardamenti sovietici in Afghanistan cementò la reputazione del medico tra i mujaheddin e l’amicizia con Bin Laden che durò tutta la vita.
Al Zawahri fece almeno una visita negli Stati Uniti negli anni Novanta: un breve tour delle moschee della California sotto falso nome per raccogliere fondi per le associazioni di beneficenza musulmane che fornivano sostegno ai rifugiati afghani. Allo stesso tempo, continuò a spingere i suoi seguaci egiziani verso attacchi più grandi e spettacolari in patria, ritenendo che tali tattiche violente e scioccanti avrebbero attirato l’attenzione dei media e messo in ombra le voci più moderate che sostenevano la negoziazione e il compromesso. Mentre viveva in Afghanistan, nel 1997, al Zawahiri contribuì a pianificare un attacco selvaggio contro i turisti stranieri nelle rovine di Luxor in Egitto, una strage di 45 minuti che causò la morte di 62 persone, tra cui turisti giapponesi, una bambina inglese di 5 anni e quattro guide turistiche egiziane.
Dopo l’attentato di Luxor
Gli egiziani rimasero sconvolti dal massacro e il sostegno ad al Zawahiri e al suo Jamaat al Jihad evaporò. Poco dopo, al Zawahiri disse ai suoi seguaci che le operazioni in Egitto non erano più possibili e che la battaglia si sarebbe spostata su Israele e sul suo principale alleato, gli Stati Uniti. Il Jamaat al Jihad si fuse ufficialmente con la più grande e meglio finanziata al Qaida di Bin Laden, “la base”.
Al Zawahiri era un consigliere senior di Bin Laden all’epoca dei primi attacchi terroristici di alto profilo di al Qaida, gli attentati del 1998 alle ambasciate statunitensi nelle capitali del Kenya e della Tanzania, che causarono la morte di centinaia di persone. Tre anni dopo, lavorando dalla base di al Qaida in Afghanistan, contribuì a supervisionare la pianificazione di quello che sarebbe diventato uno degli attacchi terroristici più audaci della storia: gli attentati dell’11 settembre a New York e Washington.
Mentre i dirottatori dell’11 settembre venivano inviati per l’addestramento nelle città statunitensi, al Zawahri fu incaricato di organizzare le ondate successive di attacchi terroristici destinati a indebolire ulteriormente l’economia e la determinazione dell’America. Lanciò un ambizioso programma di armi biologiche, creando un laboratorio in Afghanistan e inviando discepoli alla ricerca di scienziati e di ceppi letali di batteri di antrace.
I funzionari dell’intelligence statunitense ritengono che gli sforzi di al Zawahiri avrebbero potuto avere successo, se non avesse esaurito il tempo a sua disposizione. Poche settimane dopo il crollo delle torri del World Trade Center di New York, una campagna militare sostenuta dagli Stati Uniti cacciò gli alleati talebani di al Qaida dal potere in Afghanistan e costrinse al Zawahiri ad abbandonare il suo laboratorio di armi biologiche.
I bombardieri statunitensi presero di mira gli uffici e le case dei leader di al Qaida, compreso il complesso in cui viveva al Zawahiri. Sua moglie rimase intrappolata tra le macerie dopo il crollo del tetto, ma rifiutò di essere salvata per paura che gli uomini la vedessero senza il velo. Fu trovata morta per ipotermia.
La fuga in Pakistan
Al Zawahiri fuggì con Bin Laden nella regione tribale del Pakistan, dove entrambi – con una taglia di 25 milioni di dollari sulla testa – si nascosero per evitare la cattura. Sebbene non ci furono avvistamenti confermati di nessuno dei due nel decennio successivo, la Cia lanciò almeno due attacchi missilistici all’interno del Pakistan, nel 2006 e nel 2008, contro edifici che avevano ospitato l’egiziano.
Nonostante l’intensa caccia all’uomo, al Zawahiri ha continuato ad apparire regolarmente nei video pubblicati su siti web legati ad al Qaida. Gli americani ritengono che abbia continuato a dirigere numerose operazioni terroristiche, tra cui l’assedio del 2007 alla Moschea rossa di Islamabad, in Pakistan, che causò più di 100 morti.
Sebbene di tanto in tanto si sia scontrato con gli estremisti più giovani sulle tattiche – sosteneva che le uccisioni di massa di musulmani in Iraq avevano minato il sostegno ad al Qaida – non ha mai pubblicamente vacillato nel suo odio per l’occidente o nel suo sostegno al jihad.
“Il mondo intero è il nostro campo contro gli obiettivi della crociata sionista”, dichiarò in un video del febbraio 2009. “E non spetta al nemico imporci il campo, il luogo, il tempo e il modo in cui combattere”.
La morte di Bin Laden nel maggio del 2011 spinse al Zawahiri nella posizione numero 1, un ruolo per il quale, col senno di poi, potrebbe non essere stato particolarmente adatto. L’egiziano, con il suo stile asciutto e cerebrale, non è riuscito a ispirare i jihadisti con la stessa forza di Bin Laden o di leader più giovani come il giordano Abu Musab al Zarqawi, fondatore della rivolta irachena che sarebbe poi diventata lo Stato islamico.
Dopo l’inizio delle proteste della Primavera araba, al Zawahiri cercò di affermare il proprio comando sul mosaico di gruppi islamisti a guida locale che lottavano in Siria, Iraq e Libia. Ma fallì. Il principale affiliato di al Qaida in Siria, inizialmente noto come Fronte al Nusra, alla fine scelse di prendere le distanze dall’organizzazione madre, rifiutando di accettare formalmente il marchio di al Qaida. L’altra grande fazione, lo Stato islamico, ruppe completamente con al Zawahiri che lo denunciò pubblicamente. Nel decennio successivo, all’interno di entrambi i gruppi ci sono stati scontri sulla strategia, sulle tattiche e persino sulle convinzioni di base, ma raramente, se non mai, hanno guardato ad al Zawahiri per avere una guida o per risolvere le loro dispute.
Nel 2020, al Zawahiri era diventato sempre più distante, accontentandosi di scrivere libri e saggi e apparendo solo raramente in video. Nel settembre 2021, un sito web pro al Qaida pubblicò un nuovo video in cui l’anziano al Zawahiri parlava per un’ora e, come per smentire le voci sulla sua morte, faceva riferimenti puntuali a recenti eventi di cronaca. Ma al Zawahiri non menzionava il ventesimo anniversario degli attentati dell’11 settembre né parlava della presa di potere dei talebani in Afghanistan in agosto, appena un mese prima della pubblicazione del video. Tuttavia, coglieva l’occasione per riesumare la sua infuocata retorica del passato, invitando ancora una volta a rinnovare le campagne violente di al Qaida contro i nemici ovunque. “Proprio come loro si sono riuniti da ogni angolo del mondo per combatterci”, diceva nel video, “noi dobbiamo colpirli con forza ovunque”.
Joby Warrick è al Washington Post dal 1996, si occupa di medio oriente, sicurezza, terrorismo e proliferazione. Ha scritto tre libri, tra cui “Bandiere nere: la nascita dell’Isis” (La Nave di Teseo), che ha vinto il Pulitzer nel 2016.
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