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Il Libano distrutto non sa dove mettere il grano in arrivo da Odessa
Due anni dopo l'esplosione del porto di Beirut le indagini sono ferme e quattro silos che potrebbero contenere le provviste di cereali sono collassati a seguito di un incendio
A quasi due anni dall’anniversario dell’esplosione al porto di Beirut, quattro dei sedici silos, che fino ad allora contenevano l’85 per cento dei cereali importati dal Libano, sono collassati a causa di un incendio divampato da settimane. Il ministero della Salute ha avvertito gli abitanti della città di non uscire e di tenere le finestre chiuse almeno per ventiquattro ore per evitare di respirare le polveri di quel nuovo crollo che ha avvolto ciò che rimaneva in piedi della struttura. “E’ stato come tornare a vivere il 4 agosto 2020”, ha raccontato un testimone sentito dal Foglio, che si trovava nei pressi del porto. “Ci hanno detto di stare attenti perché quella polvere può farci male, abbiamo paura. I segni dell’esplosione non se ne andranno mai, torna tutto indietro”.
Quei silos del grano erano diventati la speranza a cui le famiglie delle oltre duecento vittime dell’esplosione del 2020 si erano aggrappate per avere giustizia – nonostante la classe politica abbia fatto di tutto per intralciare le indagini che sono ferme da almeno sei mesi – e avevano anche protetto la città immagazzinando la potenza della deflagrazione ed evitato una tragedia ben peggiore. Ad aprile, il governo aveva deciso di abbattere i silos per poterli ricostruire altrove, sospendendo poi la decisione a seguito dei malumori nelle famiglie che l’hanno interpretato come l’ennesimo tentativo di cancellare pezzi di storia del paese, ma la scorsa settimana il Parlamento non ha adottato una risoluzione che li avrebbe protetti dalla demolizione. Secondo alcuni ingegneri del posto vicini alle famiglie e ai sopravvissuti seppure l’incendio fosse accidentale, il governo non ha fatto quanto in suo potere per spegnerlo.
Il Libano per decenni si è basato su un’economia fatta di introiti che venivano dalle banche e dal turismo, decidendo di importare l’80 per cento delle risorse che consuma. Quando questa bolla è scoppiata e i conti sono andati in rosso, tre anni fa si è abbattuta sul paese la peggiore crisi economica e da quel momento mancano le risorse di base per sostentare la popolazione. Da quando i silos sono diventati inutilizzabili, questa scarsità ha riguardato anche il pane e il conflitto ha fatto il resto.
Ieri, è partita dal porto di Odessa la prima nave da quando è scoppiata la guerra della Russia contro l’Ucraina e da quando è stato siglato l’accordo mediato da Turchia e Nazioni Unite per sbloccare i ventiquattro milioni di tonnellate di cereali fermi in Ucraina e si è diretta verso il Libano.
Fonti del ministero dell’Economia libanese hanno spiegato al Foglio che il governo ha acquistato un carico di farina proveniente dall’Ucraina: “Il Libano ha bisogno di 28.000 tonnellate di cereali al mese. Al momento ne abbiamo 39.000 e 26.000 si aggiungeranno appena la nave attraccherà. Questo significa che potremo disporre di farina per un mese e mezzo e poi ci ritroveremo a dover chiedere un altro carico, ma questa volta possiamo pagare perché abbiamo appena ottenuto un prestito di 150 milioni dalla Banca mondiale per l’importazione del grano”. Dopo due anni, non è ancora stato deciso dove e quando ricostruire i silos, perciò anche la quantità di ordini che il governo può fare risente della capacità di immagazzinare le risorse.
Il confine marittimo
Più a sud, dove il Libano divide il confine con Israele, si trova la cosiddetta blue line, una linea di demarcazione che separa dal 2000 i due stati formalmente in guerra e che prosegue anche nel Mediterraneo. La disputa sulla frontiera marittima ha ripreso vigore da un paio di mesi, quando una nave di stoccaggio ed estrazione del gas è stata fatta arrivare al largo della costa – nel campo di Karish – per produrre gas per Israele. Dal Libano dicono che si tratti di acque contese e per questo avvertono Israele che qualsiasi azione “aggressiva” non sarà tollerata, mentre quest’ultimo afferma che si tratti di una zona economica esclusiva. A fine luglio il mediatore statunitense per l’energia, Amos Hochstein, è tornato a Beirut per informare della risposta di Israele sulla proposta che Beirut aveva formulato a giugno e riprendere i negoziati che consentirebbero di determinare quali risorse di petrolio e gas appartengono a quale paese e aprire la strada a ulteriori esplorazioni.
“Raggiungere una risoluzione è sia necessario che possibile, ma può essere fatto solo attraverso negoziati e diplomazia”, si legge in una nota del Dipartimento di stato americano. Funzionari libanesi hanno affermato di essere ottimisti sul fatto che un nuovo ciclo di colloqui possa portare a un accordo dopo anni di negoziati intermittenti, mentre il partito di Hezbollah, sostenuto dall’Iran, ha avvertito domenica che è pronto a impedire a Israele di estrarre ogni tipo di risorsa dal mare, se nel frattempo anche il Libano non fosse autorizzato a farlo.
Foto di Claudia Cavaliere