Seconda puntata
L'esercito di Trump: l'inchiesta del Washington Post sul 6 gennaio
Chi mi insegna a sparare? Dove nascondiamo le armi? E le mappe dei tunnel sotto al Campidoglio? Così la “cavalleria Maga” s’è organizzata per l’assalto del 6 gennaio. Era tutto online, ma le agenzie di sicurezza minimizzavano. Ecco la seconda puntata
Questo è il secondo appuntamento con l’inchiesta a puntate “The attack” sull’assalto al Campidoglio americano del 6 gennaio del 2021. La prima puntata la trovate qui.
Alla fine di ottobre, nel 2021, il Washington Post pubblicò una enorme inchiesta sui fatti del 6 gennaio, il giorno in cui i sostenitori dell’ex presidente Donald Trump assalirono il Campidoglio a Washington. “The attack” è il titolo dell’inchiesta che ha coinvolto molti giornalisti del quotidiano e che ha preso, all’inizio di quest’anno il premio Pulitzer: si basa su interviste a più di 230 persone e migliaia di pagine di atti giudiziari e rapporti interni delle autorità di pubblica sicurezza, oltre a centinaia di video, fotografie e registrazioni audio. Alcuni degli intervistati hanno parlato in forma anonima, altri no. Gran parte delle informazioni raccolte e pubblicate dal Washington Post sono servite alla commissione speciale del Congresso per articolare la propria indagine: le testimonianze sono andate in diretta tv negli ultimi mesi e molte delle ricostruzioni di queste pagine sono state ulteriormente verificate, circostanziate e confermate. Abbiamo deciso di pubblicare per intero questa inchiesta perché gli effetti del 6 gennaio sono ancora molto visibili nella politica americana. Non si tratta soltanto di effetti penali, che devono ancora essere valutati soprattutto per quel che riguarda il destino di Donald Trump. Sono gli effetti politici a essere molto rilevanti: l’assalto del 6 gennaio è il mito fondativo del post trumpismo, un movimento che è tutt’altro che minoritario nel Partito repubblicano, come dimostrano le selezioni in vista delle elezioni di metà mandato a novembre. E il Partito repubblicano non ha ancora fatto i conti con Trump e spesso sembra anzi non volerli fare. Anche per questo l’inchiesta del Washington Post continua ad avere una grande rilevanza. In queste pagine trovate la seconda puntata: la preparazione dell’assalto.
Meno 16 giorni
Tre giorni prima di Natale, la polizia di Washington organizzò la prima videochiamata per iniziare a coordinarsi per il 6 gennaio. Tra le agenzie, partecipavano l’Fbi, il Secret service (che si occupa della sicurezza del presidente e del vicepresidente), la Park Police (che ha autorità sia statale sia federale). Gli analisti del Centro informativo del dipartimento di Sicurezza nazionale, diretto da Donell Harvin, non c’erano. Molti dell’Fbi e di altre agenzie hanno a lungo ritenuto incostante il lavoro della rete nazionale dei centri informativi nata in risposta all’11 settembre. Qualcuno li ha perfino definiti in modo dispregiativo “centri di confusione”. La loro missione era quella di controllare le informazioni pubblicamente accessibili e di assicurarsi che le soffiate non si perdessero tra le varie agenzie. Nei primi tempi, però, alcuni post sui social media segnalati dai centri si erano rivelati una perdita di tempo per la polizia. “Spesso questi ragazzi non sapevano stare al loro posto”, ha detto un alto funzionario delle forze dell’ordine federali che ha partecipato alla telefonata del 22 dicembre con l’Fbi e altri.
Le dinamiche erano particolarmente complesse a Washington. Il National Capital Region Threat Intelligence Consortium (Ntic) – è così che si chiama il centro informativo – dovrebbe condividere le informazioni provenienti da tutte le forze dell’ordine della regione. A Washington, però, hanno sede l’Fbi e le altre agenzie di intelligence e di polizia più importanti del paese, il che di fatto capovolge l’ordine di importanza. L’Fbi attribuisce più valore alle analisi dei propri agenti. Inoltre, il centro informativo di Washington è uno dei pochi del paese ad avere sede presso un’agenzia civile e non in un dipartimento di polizia, e questo comporta che a volte le forze dell’ordine siano riluttanti a dare informazioni sensibili sulle indagini in corso. I funzionari di Washington, però, facevano affidamento su quel servizio per raccogliere informazioni e Harvin assegnava un analista a ogni nuova protesta autorizzata che rischiava di diventare violenta, incaricandolo di valutare se la città era in grado di gestirla.
Il lavoro sul 6 gennaio fu affidato all’analista con meno esperienza dell’ufficio, che si spaventò subito per quello che vedeva. Quasi ogni giorno portava ad Harvin nuovi post inquietanti trovati online. Estremisti provenienti da diverse parti del paese si stavano coordinando sulla logistica. Stavano mobilitando un esercito informale, scambiandosi suggerimenti su come far arrivare di nascosto armi a Washington, su dove incontrarsi e su cosa indossare. Elementi di spicco dei Proud Boys – il gruppo a cui Trump aveva detto mesi prima di “farsi da parte e tenersi pronti”, che era stato al centro delle violenze nei due precedenti raduni di Trump – chiedevano denaro online per apparecchiature di comunicazione e dispositivi di protezione. Estremisti anti governativi noti come i Boogaloo boys – alcuni dei quali, legati a gruppi paramilitari, erano stati coinvolti due mesi prima in un tentativo di rapimento della governatrice del Michigan – stavano discutendo su dove potersi incontrare per nascondere armi e approntare delle forze pronte a marciare su Washington, con dei neonazisti dichiarati: due elementi di estrema destra che raramente gli analisti avevano visto convergere.
Quando Harvin convocò un’importante riunione di pianificazione il 30 dicembre, il giovane analista era pronto a presentare lo scenario peggiore: qualcuno potrebbe piazzare un ordigno esplosivo improvvisato vicino al Campidoglio, disse. Con le forze dell’ordine distratte, gli estremisti avrebbero potuto unire gli sforzi e attaccare gli edifici governativi, forse anche il Campidoglio. Mentre la riunione procedeva, Trump era di nuovo su Twitter a incitare ancora di più i suoi sostenitori: “6 GENNAIO, CI VEDIAMO A WASHINGTON!”.
Come paramedico del dipartimento dei vigili del fuoco di New York, Harvin aveva partecipato alle operazioni di soccorso al World Trade Center l’11 settembre ed era convinto di aver imparato a mantenere la calma. Adesso, però, era tutto diverso. “Avevo la sensazione di non essere all’altezza, che la situazione mi stesse sfuggendo di mano”, ha raccontato. Harvin chiamò il suo capo, Christopher Rodriguez, direttore della Homeland Security and Emergency management Agency della città. Washington potrebbe non essere pronta per la “scellerata alleanza” tra gruppi estremisti e le masse di sostenitori di Trump che stavano per arrivare, disse.
Rodriguez, che aveva lavorato come analista per l’antiterrorismo alla Cia per più di 10 anni, volle un briefing completo. Convocarono l’analista, esaminarono i dati e Rodriguez fu d’accordo con loro. In particolare, le voci sull’arrivo di armi a Washington si erano moltiplicate. Si consultò con quello che all’epoca era il capo della polizia di Washington, Robert Contee III, e i due informarono Muriel Bowser, sindaco di Washington. Bowser e i suoi collaboratori temevano il ripetersi della stessa risposta data durante le proteste di Black Lives Matter, quando il dipartimento di Giustizia aveva mandato le squadre antisommossa, la polizia federale e altri agenti nelle strade di Washington senza cartellini o distintivi che facessero capire che erano agenti federali. Il sindaco avrebbe in seguito mandato una lettera ai funzionari federali per scoraggiare un dispiegamento di forze simile il 6 gennaio, a meno che gli agenti federali non dichiarassero la loro presenza alla polizia di Washington. Bowser era anche restia a richiedere la Guardia nazionale, per paura che i soldati potessero ricevere ordini dal presidente e abbandonare le loro postazioni. Però decise che la città aveva bisogno di uomini per permettere a tutti gli agenti di polizia disponibili di concentrarsi sui manifestanti potenzialmente armati. Il 31 dicembre, la città presentò al Pentagono una richiesta specifica di risorse per assistere principalmente nel controllo del traffico. Da parte loro, i vertici del Pentagono non ci tenevano ad avere un ruolo nelle operazioni di sicurezza il 6 gennaio. Mark Milley temeva che una volta che le truppe fossero state attivate e presenti nelle strade della capitale, sarebbe stato molto più facile per Trump reindirizzarle a suo piacimento. Pensava che fosse una possibilità concreta, perché aveva poca fiducia nel fatto che Trump potesse all’improvviso agire razionalmente e non per un suo tornaconto personale, nel tentativo di restare al potere.
Anche Ryan McCarthy, segretario all’Esercito, non era sicuro di poter escludere un simile scenario, soprattutto dopo che Trump aveva licenziato il ministro della Difesa Mark Esper e altri alti funzionari dopo le elezioni. Considerava Esper e Joseph Kernan, un Navy Seal in pensione che era sottosegretario alla Difesa per l’intelligence, brave persone e amici, che erano stati estromessi senza un motivo razionale. McCarthy era anche preoccupato che i membri della Guardia nazionale potessero scontrarsi con i manifestanti, come era già accaduto con le forze federali durante le manifestazioni a favore della giustizia razziale dei mesi precedenti.
Miller, che era stato nominato segretario alla Difesa ad interim da Trump dopo le elezioni, non credeva che Trump avrebbe fatto un uso improprio delle forze armate, ma condivideva la preoccupazione che potessero scoppiare degli scontri tra queste e i manifestanti, istigati dai Proud Boys e da altri gruppi di estrema destra. “Pensavo che i manifestanti avrebbero cercato di attirarci in una situazione tipo il massacro di Boston”, ha detto. I tre erano d’accordo anche sul fatto che ci fosse un altro problema, di immagine. Data la retorica di Trump, i suoi detrattori avrebbero potuto leggere nel dispiegamento di soldati nelle vicinanze del Campidoglio un’intimidazione nel giorno in cui i parlamentari dovevano ratificare i risultati delle elezioni. “Ero consapevole della possibilità che molte persone potessero fraintendere, interpretandolo come un colpo di mano, contribuendo così a rafforzare la narrazione secondo cui l’esercito era sul punto di spodestare funzionari regolarmente eletti per rifare le elezioni”, ha detto Miller.
In una telefonata del 2 gennaio, i tre decisero che la proposta del sindaco di Washington di inviare i membri della Guardia in altre zone della città per controllare il traffico era “ottimale”, ha detto Miller. Avrebbe permesso al Pentagono di dire che stava dando il suo contributo, ma avrebbe tenuto i militari lontani dai manifestanti diretti verso il Campidoglio. McCarthy e Milley discussero i dettagli dell’operazione. Doveva essere inviata una lettera che stabiliva con chiarezza il comportamento da tenere per i 340 soldati che sarebbero stati schierati. E decisero che doveva esserci anche una speciale clausola restrittiva: l’obbligo che ogni modifica agli ordini delle truppe dovesse essere autorizzata in maniera esplicita dal ministro della Difesa in carica. McCarthy disse che poteva firmare lui la lettera. Miller rispose di no, che l’avrebbe fatto lui stesso. Milley accolse con favore l’impegno diretto di Miller, dicendo ad altri che pensava che questo avrebbe ostacolato la possibilità che Trump reindirizzasse i soldati, gettandoli in una contesa politica. E avrebbe esposto uno degli uomini del presidente nel caso in cui Trump avesse voluto esercitare il suo potere di comandante in capo. Alla lettera di Miller ne seguì una di McCarthy, che mise ancora di più la Guardia sulla difensiva. Non avrebbero avuto armi e, con un ordine verbale, aggiunse che i soldati della Guardia sarebbero dovuti rimanere a ovest della Nona strada, ad almeno un chilometro e mezzo di distanza dal Campidoglio. Un altro vincolo inusuale prevedeva che i soldati si spostassero in furgoni per svolgere i loro compiti di controllo del traffico, lasciando in caserma gli Humvee e gli altri veicoli militari.
Meno 7 giorni
L’ultimo fine settimana del 2020, l’Fbi perse l’accesso a Dataminr, un servizio esterno che segnala ad agenti e analisti i post importanti sui social media su notizie dell’ultim’ora ed evidenzia dove, quando e con quale frequenza determinate parole chiave e frasi ricorrono nei post online. Si sapeva da mesi che sarebbe successo. Il Bureau aveva annunciato all’inizio del 2020 di voler firmare un nuovo contratto per il “monitoraggio dei social media”, definendo il servizio “di importanza cruciale”. Ma quel cambio a fine anno limitò la comprensione dell’Fbi di quello che succedeva online in un momento chiave, proprio quando gli estremisti erano in piena mobilitazione. Gli agenti dell’Fbi iniziarono a usare un altro sistema, chiamato ZeroFox, che molti al Bureau non conoscevano. Quel passaggio li colse di sorpresa, creando confusione.
Secondo alcuni agenti e analisti, il nuovo servizio era peggiore rispetto al precedente, soprattutto per monitorare Twitter. All’Fbi, qualche agente frustrato cominciò a chiamare ZeroFox con un nomignolo sarcastico – sostituendo a “Fox” un termine esplicito che aveva lo stesso suono, per indicarne la scarsa utilità. “Non andavamo alla cieca, ma non era il momento giusto per avere una visione parziale di quello che succedeva online perché stavamo cambiando sistema e molti non lo conoscevano”, ha detto una persona informata dei fatti.
A Capodanno, la squadra di Harvin organizzò una chiamata con gli analisti della polizia del Campidoglio. L’intensità sempre maggiore delle minacce online ricordava a John K. “Jack” Donohue, nuovo direttore dell’Intelligence del dipartimento di polizia, un’operazione di terrorismo straniero. Quando era un giovane agente al dipartimento di polizia di New York, Donohue era stato analista di intelligence e aveva una formazione specifica sui metodi dello Stato islamico e dei gruppi terroristici stranieri ad esso affiliati dopo l’11 settembre. Capiva come dei simpatizzanti isolati potessero essere mobilitati online, attratti da una causa violenta che dava loro uno scopo. Donohue era preoccupato soprattutto per la quantità di gruppi noti di suprematisti bianchi i cui membri dichiaravano di voler partecipare alle proteste, e dalla loro sensazione di avere l’approvazione, se non l’ordine diretto, del presidente degli Stati Uniti. Ma Donohue lì aveva iniziato da poco. Dopo aver assunto l’incarico a novembre, lui e la sua vice Julie Farnam, appena arrivata, si erano sforzati di rendere professionale un’unità di intelligence della polizia del Campidoglio che era quasi universalmente ritenuta abbastanza scarsa. I capi della polizia del Campidoglio temevano i briefing della loro unità di intelligence alle altre agenzie perché la qualità del loro lavoro era davvero scadente. Il dipartimento non condivideva abitualmente con gli agenti le informazioni raccolte, ed era una cosa che Donohue voleva cambiare. Continuò a studiare i post di minacce online.
Nel frattempo, Trump faceva pressioni, alla ricerca di un punto debole nel sistema. Nei tweet, nelle interviste e dichiarazioni, si rivolgeva all’Fbi, ai governatori, ai parlamentari e perfino ai funzionari elettorali locali. “Le elezioni del 2020 sono state truccate. E’ stata una truffa e tutto il mondo ci sta guardando e sta ridendo del nostro paese. Stanno ridendo di noi”, disse Trump, intervenendo durante un’udienza dei repubblicani in Arizona per discutere dei presunti brogli. Dietro le quinte, il presidente era concentrato su tre manovre, nel tentativo di rovesciare il risultato elettorale. Faceva pressione sui funzionari del dipartimento di Giustizia perché dichiarassero che c’erano state irregolarità nel voto. Esortava i funzionari statali a riaprire il conteggio. E, come ultima opzione, continuava a spingere sul vicepresidente perché annullasse il risultato il 6 gennaio. Durante una telefonata del 27 dicembre, Richard Donoghue, alto funzionario del dipartimento di Giustizia, si annotò i tentativi spudorati del presidente. Jeffrey Rosen, che aveva sostituito William Barr alla guida del ministero, aveva detto a Trump che non poteva cambiare il risultato elettorale così, “schioccando le dita”. Trump rispose chiedendo al ministro della Giustizia ad interim di stare al gioco: “Di’ soltanto che il voto è stato manipolato + del resto ci occupiamo io e i r. al Congresso”, scrisse Donoghue.
I sostenitori del presidente seguivano il suo esempio, bombardando di richieste i funzionari repubblicani di stati come la Georgia, la Pennsylvania e l’Arizona perché intervenissero. “E’ evidente che non sai tutto quello che sta succedendo”, scrisse in una e-mail il 29 dicembre Karen Fann, presidente del Senato dell’Arizona, rassicurando un elettore, e aggiungendo che il Senato si era rivolto al tribunale per citare in giudizio la contea di Maricopa, in parte per ispezionare le macchine per il voto. “Abbiamo il sostegno assoluto di Trump e Giuliani”, aggiunse. Clint Hickman, presidente repubblicano del Consiglio dei supervisori della contea di Maricopa, si stava godendo la cena di Capodanno a Phoenix con la moglie e qualche amico quando verso le otto di sera suonò il telefono. Era un numero di Washington. Fece scattare la segreteria telefonica, e poi, incuriosito, sgattaiolò fuori per evitare il chiasso del ristorante e ascoltare il messaggio. Era di un uomo che diceva di chiamare dal centralino della Casa Bianca per informarlo che il presidente voleva parlargli. Hickman non sapeva cosa pensare – aveva ricevuto un sacco di scherzi telefonici da quando lui e altri membri del Consiglio avevano votato per formalizzare la vittoria di Biden, insieme a un mucchio di insulti e proteste. Se era davvero la Casa Bianca, lui non aveva granché voglia di parlare con Trump. Tornò a tavola e annunciò incredulo al gruppo: “Be’, era il presidente”. (segue nell’inserto IV)
Tre sere dopo, il telefono di Hickman squillò di nuovo. Il Washington Post aveva appena pubblicato la registrazione di una telefonata avvenuta nel fine settimana tra Trump e un altro funzionario elettorale repubblicano, Raffensperger, segretario di stato della Georgia. Nella telefonata, Trump intimava a Raffensperger di “trovare” una quantità di voti sufficiente per ribaltare la sua sconfitta. Adesso – a Washington era già passata mezzanotte – sembrava che il presidente volesse parlare con il presidente della contea di Maricopa. Hickman di nuovo non rispose: “Mia mamma mi ha sempre detto che non succede niente di buono dopo mezzanotte”.
Meno 6 giorni
In Florida, Paul Hodgkins aveva preso la decisione di andare a Washington. Aveva trovato un gruppo di donne pro Trump che offriva un pacchetto per 300 dollari circa, che includeva il biglietto del bus da Sarasota, in Florida, a Washington, e due notti all’hotel Westin Crystal City Reagan National Airport. Hodgkins si mise la calzamaglia blu di Trump per andare a una festa di Capodanno. “Man mano che ci si avvicinava al 6 gennaio, quelli con cui parlavo dicevano che era importante”, ha detto Hodgkins. “Che sarebbe stato un evento storico, forse il più grande di tutti i tempi, a Washington, per numero di partecipanti a una manifestazione politica”.
Ronald “Ronnie” Sandlin, che aveva 34 anni e viveva con i genitori a Memphis, era altrettanto motivato. Sandlin non era mai stato particolarmente interessato alla politica, ma aveva in programma di andare in macchina a Washington, e chiedeva ad altri di unirsi a lui. In un post su Facebook si riprometteva di “fare la mia parte per fermare il furto e sostenere Trump quando deciderà di varcare il Rubicone”. A Capodanno, Sandlin era entrato in contatto con una decina di altri sostenitori di Trump che avevano progetti simili, tra cui un uomo di 34 anni dell’Idaho, Josiah Colt, e uno di 31 anni, residente a Las Vegas, Nathaniel DeGrave. Il loro piano, come quelli di molti altri, si stava concretizzando sotto gli occhi di tutti. Su Facebook, Sandlin pubblicò quella che sembrava un’immagine di lui che reggeva un fucile semi automatico e chiedeva un contributo finanziario per riuscire a pagarsi il viaggio. “Ogni centesimo è un calcio in c… alla dittatura”. Quello stesso giorno, DeGrave chiedeva aiuto per imparare a sparare con la pistola. Chi sa “sparare e ha un’ottima mira e può insegnarmi oggi o domani?”, chiedeva DeGrave su Facebook. “Vorrei che mi insegnasse qualcuno delle forze speciali o ex Fbi… è per una causa molto patriottica”.
Altri messaggi inquietanti furono pubblicati su Parler, che di recente era entrato in contatto con l’Fbi dopo che i suoi avvocati avevano ritenuto alcuni post talmente pericolosi da dover avvertire le forze dell’ordine. Il 22 dicembre, Parler aveva inoltrato all’Fbi tre screenshot di un utente che minacciava di uccidere dei politici. Il 2 gennaio, la piattaforma ne aveva mandati altri, tra cui una serie di post di un utente che faceva minacce per il 6 gennaio. “Siamo alla resa dei conti finale e il nostro punto di non ritorno è il Campidoglio. Confido che il popolo americano si riprenderà gli Stati Uniti con la forza e che molti saranno pronti a morire”, scriveva l’utente, aggiungendo poi: “Non stupitevi se prendiamo l’edificio del #Campidoglio”. All’inizio di gennaio, anche le piattaforme social più importanti della Silicon Valley cominciarono a inoltrare quotidianamente una valanga di post al centro informativo della California del nord. Perché le aziende decidessero di segnalare i propri utenti alle forze dell’ordine, di solito i post dovevano alludere alla violenza o all’uso delle armi. Mike Sena, il direttore del centro informativo, rispose alle piattaforme social che il suo ufficio non riusciva a gestire un tale aumento di traffico e chiese loro di iniziare a mandare i post allarmanti direttamente al centro di analisi dell’Fbi in West Virginia.
Il primo gennaio un appassionato di storia dell’architettura di Washington, che gestisce un sito web sui tunnel, inclusi quelli sotto il Campidoglio, segnalò all’Fbi un picco improvviso di visite al suo sito, che non provenivano dalla regione di Washington, ma arrivavano anche dai domini TheDonald.win, AR15.com e MyMilita.com. Collegava parte del traffico ai post sul 6 gennaio. In un altro blocco di messaggi all’Fbi, un informatore del Bureau nel Midwest descriveva le conversazioni tra membri di sedicenti gruppi paramilitari come incentrate principalmente sulla pianificazione dei viaggi a Washington e diceva che il tono era diventato decisamente “ostile alle forze dell’ordine”. Nel difendere il loro operato, alcuni funzionari dell’Fbi hanno spiegato che il Bureau fa una distinzione fondamentale tra discorsi di “aspirazione” alla violenza e quello che definiscono “un intento specifico di commettere atti violenti”. I discorsi di “aspirazione” sono protetti dal Primo emendamento. “Le affermazioni generiche e le chiacchiere online spesso mancano di specificità o di dettagli su piani concreti e sui partecipanti, e non possono quindi essere bloccate”, ha detto un funzionario dell’Fbi.
Meno 3 giorni
Il 3 gennaio, i vertici dei dipartimenti di Giustizia, della Sicurezza nazionale e dell’agenzia per la gestione delle emergenze federali, assieme a Robert O’Brien, consigliere di Trump per la Sicurezza nazionale, parteciparono a una serie di chiamate per esaminare le minacce relative al 6 gennaio. Il gruppo valutò la possibilità che i manifestanti prendessero di mira gli edifici federali. Molti funzionari ritenevano che il rischio maggiore fosse legato a quelli che uno di loro aveva definito i “soliti” scontri tra i manifestanti pro Trump e quelli di sinistra che si erano già verificati ai raduni precedenti, soprattutto dopo il tramonto. O’Brien pensava che il pericolo più grande fossero i contro manifestanti – quelli che il presidente chiamava Antifa.
Miller, segretario alla Difesa ad interim, non riusciva a credere che il ministero della Giustizia non fosse allarmato. A sua insaputa, Rosen era alle prese con un’altra crisi, sempre collegata. La campagna di pressione nei confronti del ministro della Giustizia ad interim era ormai arrivata al limite. Pochi minuti prima della chiamata, Rosen aveva saputo che Trump aveva intenzione di sostituirlo con Jeffrey Clark, avvocato di medio livello del dipartimento, che aveva appena chiarito che avrebbe seguito la volontà di Trump sulle elezioni. Clark aveva preparato una lettera per i funzionari in Georgia, sostenendo il falso, ovvero che il dipartimento di Giustizia aveva “individuato questioni preoccupanti e di rilievo che potrebbero aver influito sul risultato delle elezioni in diversi stati” e consigliava ai Parlamenti statali di riunirsi in seduta straordinaria per valutare se designare nuovi grandi elettori.
Nelle ore seguenti, Rosen e i vertici del dipartimento di Giustizia giurarono di dimettersi se il presidente avesse deciso di insediare Clark. “Jeff Clark guiderà un cimitero”, disse al presidente Steve Engel, funzionario del dipartimento di Giustizia, nello Studio ovale. Il consigliere della Casa Bianca Pat Cipollone avvertì Trump che la lettera di Clark era “un patto di omicidio-suicidio” che avrebbe “danneggiato chiunque e qualsiasi cosa avesse toccato”. Cipollone disse che anche lui avrebbe dato le dimissioni. Clark, però, incoraggiava Trump. “Signor presidente, possiamo farcela”, gli disse. “Possiamo riuscirci. La storia chiama”. Dopo tre ore di stallo, Trump rinunciò all’idea ritenendola irrealizzabile. Restava quindi solo una persona che avrebbe potuto aiutarlo a invalidare le elezioni e a tenersi la Casa Bianca: Mike Pence.
Ignari dell’enorme posta che era in gioco in quel momento dall’altro capo di Pennsylvania Avenue, i funzionari del Campidoglio erano anche loro prossimi a un allarme rosso. Donohue e Farnam, della polizia del Campidoglio, erano impegnati a preparare la valutazione finale dell’intelligence per il 6 gennaio. Da settimane i loro analisti catalogavano commenti da TheDonald.win e altri siti, in cui i sostenitori di Trump discutevano di affrontare i membri del Congresso e la polizia. “Chiunque vada armato deve prepararsi mentalmente a far fuori la polizia”, si leggeva in un post segnalato già in un rapporto interno del 21 dicembre. Il giorno dopo, l’Fbi aveva detto alla polizia del Campidoglio che loro non stavano indagando sulle minacce di scontri con la polizia e di arresto dei parlamentari.
Da quel momento, la polizia del Campidoglio aveva seguito le indicazioni del Bureau, che non approfondiva su messaggi di quel tipo per paura di violare il Primo emendamento. Ma il flusso di segnalazioni allarmanti era ormai un fiume in piena. Da Capodanno c’era stato il rapporto di Harvin, le discussioni online segnalate dagli ex contatti di Donohue alla polizia di New York, e qualcos’altro: le abitazioni dei presidenti delle due camere del Congresso, Nancy Pelosi e Mitch McConnell, erano state vandalizzate con scritte sugli incentivi economici che il Congresso non era riuscito ad approvare, attirandosi i fischi di Trump. La polizia aveva trovato la testa di un maiale sporca di sangue finto sul vialetto di ingresso della casa della Pelosi a San Francisco, e la porta del garage imbrattata con il messaggio: “Cancella l’affitto, vogliamo tutto”. In Kentucky, gli agenti avevano scoperto che qualcuno aveva scritto con la vernice sui muri della casa di McConnell le frasi: “DOVE SONO I MIEI SOLDI” e “MITCH UCCIDE I POVERI”. Sembrava un segnale preoccupante: gente arrabbiata sapeva dove abitavano i due politici ed era disposta a infrangere la legge per far arrivare il messaggio. Il numero di agenti assegnato a ciascuno dei due fu aumentato e alla scorta furono date armi semiautomatiche.
Nel loro rapporto interno finale, Donohue e Farman facevano previsioni allarmanti: il 6 gennaio sarebbe stato molto più pericoloso, per il Campidoglio e per i suoi occupanti, delle manifestazioni pro Trump di novembre e dicembre. I sostenitori di Trump avevano raggiunto un livello di disperazione tale, scrissero Donohue e Farnam, da credere che la ratifica del risultato elettorale durante la seduta congiunta fosse la loro “ultima occasione” per impedire a Joe Biden di diventare presidente. “E’ il Congresso stesso l’obiettivo”, concludevano, ma quella valutazione fondamentale era sepolta alla fine di pagina 13 in un rapporto di 15 pagine. Separatamente, Sund, capo della polizia del Campidoglio, aveva cominciato a chiedersi se loro fossero preparati. Le prenotazioni alberghiere erano in aumento e i voli per Washington da lì al 6 gennaio si stavano riempiendo. Il comandante fece una mossa senza precedenti. Il 3 gennaio chiese ai suoi superiori di dichiarare lo stato di emergenza per poter richiedere alla Guardia nazionale di schierare le truppe nelle vicinanze del Campidoglio come dimostrazione di forza. Incontrò la resistenza dei suoi superiori, i sergenti d’armi della Camera e del Senato – entrambi ex agenti dei servizi segreti che facevano capo a Pelosi e McConnell. Paul Irving, della Camera, disse che la vista della Guardia nazionale probabilmente non sarebbe stata gradita alla dirigenza. Mike Stengar, del Senato, suggerì a Sund di chiedere alla Guardia nazionale di Washington di “farsi avanti” in modo informale, così sarebbe stata pronta per essere convocata in caso di emergenza. Sund accettò di non fare ulteriori pressioni – ignaro fino a quel giorno delle nuove valutazioni di rischio preparate dalla sua stessa intelligence.
Meno 2 giorni
Il 4 gennaio, il senatore Mark Warner, democratico della Virginia e presidente della commissione Intelligence del Senato, contattò l’Fbi. Era preoccupato dopo aver saputo dal suo staff delle numerose minacce di violenza che circolavano online per la cerimonia del 6 gennaio. Voleva essere sicuro che il Bureau ne fosse a conoscenza e sapere cosa stessero facendo a riguardo. David Bowdich, numero due dell’Fbi, lo ascoltò ma non sembrava allarmato. Non si preoccupi, disse al senatore, l’Fbi ha tutto sotto controllo.
Quel giorno, il National Park Service (l’agenzia federale che gestisce i parchi nazionali, la maggior parte dei monumenti e altri edifici storici, oltre ad altre proprietà, ndt) permise che il numero di persone autorizzate a partecipare alla manifestazione in programma all’Ellipse, il parco a sud della Casa Bianca, in base alla richiesta presentata, crescesse in maniera esponenziale da 5.000 a 30.000. Su Twitter, Trump continuava a promuovere l’evento.
Lo stesso giorno, Sena fece una chiamata ai centri informativi di tutto il paese. Dell’Fbi non parlò nessuno e Sena non fu neppure in grado di capire se qualcuno del Bureau stesse partecipando. Kurt Reuther, alto funzionario del dipartimento di Sicurezza nazionale, intervenne a un certo punto dicendo che il dipartimento era a disposizione, offrendo il proprio aiuto. A molti suonò come un’offerta vuota. C’era già molto da fare. Funzionari di diversi centri informativi dissero in quell’occasione di essere al corrente di gruppi che si stavano mobilitando. Si stavano organizzando i raduni “Mga Drag the Interstates”, e gli analisti avevano intercettato online riferimenti a un movimento chiamato “Occupy the Capital”.
C’era così tanto materiale in circolazione sul 6 gennaio che gli analisti del Bureau che gestivano il portale online dell’Fbi dove le piattaforme social segnalavano sospetti comportamenti illeciti,avevano cominciato a usare un hashtag per catalogare e organizzare le minacce in arrivo: #CERTUNREST2021.
Sena scrisse in una e-mail a tutti gli 80 centri informativi che “un numero significativo di individui sta progettando di andare a Washington o sta appoggiando altri con la stessa intenzione, per partecipare attivamente a rivolte e azioni violente”.
Contemporaneamente alla chiamata ai centri informativi, quel giorno un vicecapo della polizia del Campidoglio organizzò una riunione tra comandanti e supervisori per discutere l’analisi dei rischi di Donohue, che identificava nel “Congresso stesso” l’obiettivo. Sund, il capo della polizia, non fu invitato. Donohue fece la sua presentazione, sorpreso che il comandante non fosse stato convocato. Ma anche tra quelli invitati a partecipare, molti non si accorsero che ci fosse stato un cambiamento significativo nelle previsioni di rischio, o che ci fossero nuovi motivi di allarme. Anche questo rientrava in una serie di errori di comunicazione, scarsa pianificazione e sciatteria del dipartimento, che lasciò la polizia del Campidoglio totalmente impreparata per quello che sarebbe accaduto.
Alcuni funzionari avevano lasciato gli scudi antisommossa in policarbonato, usati per respingere i manifestanti violenti, in una roulotte rovente, d’estate, cosa che li aveva resi più fragili e facili da rompere. Le granate fumogene e altre munizioni per il contenimento della folla erano in un magazzino, scadute. Dei 10 agenti assegnati a usare questi proiettili non proprio letali, nessuno aveva la certificazione in regola per farlo. Il dipartimento non aveva neppure una lista aggiornata degli agenti che partecipavano alle unità volontarie antisommossa in modo da poterli convocare come rinforzo in caso di necessità. E sarebbero stati a corto di personale. Un agente su cinque non sarebbe stato presente al Campidoglio il 6 gennaio – moltissimi erano a casa in quarantena per il Covid o in ferie programmate o addetti ad altri turni.
Ai convocati, il dipartimento non aveva comunicato con chiarezza il pericolo che avrebbero dovuto affrontare. Un analista della polizia del Campidoglio aveva fatto dei controlli sulle autorizzazioni concesse per la partecipazione a sei diverse manifestazioni di protesta attorno al Campidoglio, e aveva cominciato a sospettare che molte, se non tutte, fossero organizzazioni di facciata della campagna Stop the Steal. Ma la possibilità che una massa coordinata si riversasse sul Campidoglio non fu fatta presente agli agenti in servizio. Anzi, qualcuno disse che i gruppi erano diversi, possibilmente avversari, e di stare attenti ai contromanifestanti. Per tenerli a distanza, la polizia del Campidoglio circondò l’edificio con delle rastrelliere per biciclette come prima linea di difesa, ma in molti punti nessuno le aveva legate insieme o assicurate a terra con dei pesi. Al Pentagono, i funzionari rimanevano preoccupati per lo scarso livello di preparazione.
Durante una chiamata del 4 gennaio tra i membri del governo e funzionari della sicurezza, Milley contestò prima di tutto il fatto che i manifestanti fossero stati autorizzati ad andare fino al Campidoglio, date le minacce alla Pelosi e a McConnell, e osservò che gli estremisti avevano iniziato a vantarsi sui social media di voler venire armati e aggredire i parlamentari. “Perché diamo permessi a gruppi che hanno già manifestato l’intenzione di commettere violenze?”, chiese. “E’ possibile fare marcia indietro e revocare i permessi?”. Qualcuno durante la chiamata tirò in ballo la libertà di parola e le difficoltà di revocare i permessi per le manifestazioni di protesta regolarmente registrate.
Il giorno stesso, Trump incontrò Pence e John Eastman nello Studio ovale. Eastman, all’epoca professore ed ex preside della facoltà di Legge alla Chapman University, aveva scritto che Pence avrebbe potuto esercitare poteri straordinari sul processo di ratifica del voto. In quella che in seguito definì una bozza, sosteneva che il vicepresidente avrebbe potuto invalidare i voti del collegio elettorale e proclamare Trump presidente. In una seconda circolare, avanzava diverse possibilità, incluso il fatto che Pence avrebbe potuto rallentare il conteggio, così da permettere ai parlamentari di valutare ulteriormente le accuse di brogli, arrivando anche ad annullare il vantaggio di Biden alle urne e lasciare vincere Trump. Gli alleati di Eastman, tra cui Giuliani e l’ex stratega della Casa Bianca Steve Bannon, erano riuniti a pochi isolati di distanza in consiglio di guerra al Willard Hotel, per discutere di come mettere in atto il piano. Però, neppure lo stesso professore pensava che quell’azzardo potesse funzionare. Quando Cipollone incalzò Eastman, dopo una riunione, per sapere se davvero credeva che la sua teoria giuridica avrebbe aperto la strada a Pence per rovesciare il risultato elettorale, Eastman ammise che probabilmente non avrebbe funzionato. Furioso, Cipollone sbottò, rimproverando l’avvocato.
Il pomeriggio del 4 gennaio, il vicepresidente interrogò il professore riguardo al piano di ostacolare il conteggio dei voti del collegio elettorale. Eastman rispose che rimaneva una “questione aperta” se Pence avesse o no la possibilità di decidere in modo unilaterale quali voti contare. “L’hai sentito, vero?”, disse Pence al presidente. Trump parve non farci caso. Il vicepresidente disse che la legge non sembrava lasciargli altra scelta se non quella di presiedere alla ratifica della vittoria di Biden. Ma, assicurò al presidente, era ancora disposto a leggere qualsiasi materiale volesse sottoporgli sull’argomento.
Meno 38 ore
Il 5 gennaio, Hodgkins smontò dal lavoro a Tampa verso mezzanotte e mezza. Dopo un paio d’ore di sonno, si alzò, prese la borsa e una bandiera rossa di Trump montata su un’asta, e uscì diretto al terminal dei bus a Sarasota. La bandiera non entrava nella borsa, quindi la mise in macchina e, una volta arrivato al bus, la sistemò sotto, nel bagagliaio. L’atmosfera all’interno, tra le donne per lo più anziane e senza mascherina, era festosa. Hodgkins era il più giovane e uno dei pochi uomini. Si era portato uno snack di frutta secca e cereali e della carne essiccata, e dopo si era comprato da Dairy Queen le sue crocchette di pollo preferite e un frullato Blizzard. A guastare il suo umore fu un messaggio di sua madre, che lo accusava di non vedere la realtà.
Anche DeGrave e Sandlin erano diretti a nord, e, lungo la strada, tenevano fede alla promessa di documentare il viaggio fatta su Facebook ai finanziatori. Pubblicavano foto e video, compreso un filmato di otto secondi con loro due che tossivano perché una bomboletta di spray anti orso che DeGreve teneva in tasca si era innescata per sbaglio. “La bomboletta spray al peperoncino di Nate si è aperta in tasca e ha iniziato a riempire il furgone di spray anti orso”, scrisse Colt nella didascalia delle immagini. In un altro video, si sentivano loro che discutevano con altri se portare o no le armi il giorno dopo. “Visto che c’è la telecamera”, diceva DeGreve, “non le porteremo”. Nel tardo pomeriggio, a Des Moines, anche Douglas Jensen si preparava a partire. Padre di tre figli, era caduto in pieno nell’ideologia estremista di QAnon nei quattro anni precedenti, e si era convinto che Trump avrebbe comunicato ai suoi sostenitori una notizia sconvolgente – realizzando, forse, la profezia di “Q” in base alla quale un giorno i politici corrotti sarebbero stati arrestati in massa. Dopo aver lavorato un’intera giornata al cantiere edile, Jensen e un suo amico si imbarcarono in un viaggio notturno di 16 ore, calcolando di arrivare a Washington giusto in tempo per il discorso di Trump.
Mentre i sostenitori di Trump convergevano a Washington, i suoi alleati prevedevano che ci sarebbero stati disordini. “Domani si scatenerà l’inferno”, disse Bannon agli ascoltatori del suo podcast il 5 gennaio. In città, gli agenti preposti alla sicurezza avevano aspettative completamente diverse su quello che sarebbe successo il giorno dopo. Il consulente legale della commissione per la Sicurezza nazionale del Senato, che aveva convocato diverse udienze sull’estremismo interno nei due anni precedenti, disse al suo staff di restare a casa. Si era portato qualche snack e dei vestiti, non sapendo se sarebbe stato sicuro lasciare l’edificio la sera successiva. Anche Miller aveva messo nella borsa della palestra un cambio di vestiti da portare al Pentagono, nella remota possibilità che la situazione potesse sfuggire di mano. Al dipartimento di Giustizia, Rosen disse a gran parte del personale che poteva lavorare da casa, rispecchiando una sensazione generale di inquietudine per la possibilità di disordini e di problemi al traffico, ma non una seria preoccupazione per il fatto che la democrazia stessa potesse essere a rischio.
La folla aumentava a qualche isolato dalla Casa Bianca, mentre dei trumpiani si davano il cambio al microfono dichiarando che i risultati delle elezioni stavano per essere rovesciati. L’amministratore delegato di MyPillow Mike Lindell (fondatore dell’azienda di cuscini MyPillow e grande sostenitore di Trump, ndt) invitava i sostenitori di Trump a pregare perché Pence prendesse “la decisione giusta per il paese”. Il 6 gennaio, il paese avrebbe assistito a un “miracolo” e ”si sarebbe liberato dal male”, disse Lindell tra gli applausi. Tra la folla, un uomo lanciò in aria un cartellone con scritto “Trump ha vinto! Completa la rivoluzione americana”. Una donna sventolava un’enorme bandiera rossa con i numeri “1776 2.0”. Mentre Lindell parlava, la polizia di Washington circondò uno scuolabus riconvertito che aveva superato uno sbarramento della polizia a un paio di isolati di distanza. Dopo aver perquisito il bus e trovato armi da fuoco, gli agenti ammanettarono i tre occupanti. I sostenitori di Trump che passavano lì vicino li fischiarono.
Quella sera, l’apparato di sicurezza da miliardi di dollari costruito sulla scia dell’11 settembre per proteggere le funzioni essenziali del paese produsse un ultimo, chiaro avvertimento sul pericolo imminente – che riecheggiava in gran parte il rapporto dell’Fbi di oltre due settimane prima. Un analista di intelligence dell’ufficio dell’Fbi di Norfolk aveva redatto un’informativa che descriveva gli allarmanti appelli alla violenza che circolavano su TheDonald.win – in cui si parlava di nuovo della “cavalleria Maga” e della gente diretta a Washington. Il rapporto dell’analista dell’Fbi citava un post che dichiarava: “Preparatevi a combattere. Il Congresso deve sentire i vetri spaccati, le porte aperte a calci, e lo scorrere del sangue dei loro… soldati schiavi. Passate alla violenza. Smettete di chiamarla marcia, raduno o protesta. Andate là pronti alla guerra. O ci danno il nostro presidente o moriamo. IN NESSUN ALTRO modo raggiungeremo l’obiettivo”. Il rapporto sottolineava che la gente si era scambiata le mappe dei tunnel sotto il Congresso, e aveva organizzato dei punti di incontro nella parte orientale degli Stati Uniti da dove partire insieme alla volta di Washington.
La circolare, come quelle precedenti, era incredibilmente profetica. Ma tradiva anche un radicato disagio istituzionale dell’Fbi nell’indagare sull’estremismo interno. Il documento avvertiva che le persone che avevano pubblicato i post allarmanti “erano state identificate come partecipanti ad attività protette dal Primo emendamento… La loro inclusione in questo documento non ha lo scopo di associare tali attività protette a reati o minacce alla sicurezza nazionale”. Per alcuni all’interno dell’Fbi, questo linguaggio cauto era un esempio lampante di come il Bureau attenuasse la risposta davanti a minacce di violenza provenienti da americani bianchi, di mezza età e della classe media. L’analista mandò per e-mail il documento all’ufficio dell’Fbi di Washington alle 6:52 del pomeriggio, e l’ufficio lo inoltrò alle autorità locali di pubblica sicurezza alle 7:37. Prima delle otto di sera, anche un agente della polizia del Campidoglio in servizio all’Fbi lo mandò ai suoi superiori della sezione Operazioni di intelligence presso il dipartimento. Il documento circolò ampiamente, ma non fu segnalato ai vertici delle autorità di pubblica sicurezza. All’esterno, il modo in cui l’Fbi gestì il rapporto mandò il messaggio che non fosse particolarmente preoccupata.
Meno 18 ore
Nello Studio ovale, la sera del 5 gennaio si spalancò la porta del Colonnato, riempiendo la stanza della gelida aria notturna, ma anche del suono dei sostenitori del presidente, riuniti a un paio di isolati di distanza.
A inizio giornata, Trump aveva di nuovo fatto pressione su Pence perché bloccasse la conferma di Biden: devi solo ritardare il voto per certificare il risultato; rimandalo agli stati, lo sollecitò il presidente. Il vicepresidente credeva di essere stato chiaro: non aveva intenzione di farlo. Disse a Trump che si sarebbero risentiti la mattina dopo. Il presidente, però, non sembrava scoraggiato dopo che Pence se ne era andato. “Fermati, la senti?”, chiese Trump quando entrò Judd Deere, un addetto stampa. “Questa musica è pazzesca”, disse. Il presidente chiese a Deere di chiamare i suoi colleghi perché venissero a sentire anche loro, e, nel giro di poco tempo si radunò una piccola folla, tutti a guardare Trump che ascoltava allegramente le canzoni rock e pop anni ’70 e ’80 frequenti agli eventi della sua campagna. Sul Resolute desk (l’iconica scrivania dell’800 dello Studio ovale, dono della regina Vittoria al presidente Rutherford B. Hayes, ndt) c’era una pila di proposte di legge che entro mezzanotte dovevano essere approvate o respinte, e in Georgia, le urne erano ancora aperte per i ballottaggi che avrebbero deciso se il suo partito avrebbe ottenuto il controllo del Senato. Ma a tutti in quella stanza era chiaro che i pensieri di Trump erano rivolti alla folla e al giorno successivo. Voleva comunicare con loro e andò a dettare un tweet a Dan Scavino, il suo vicecapo di gabinetto. Scavino, appollaiato su una sedia accanto al camino crepitante, glielo rilesse: “Washington è invasa da persone che non vogliono vedersi rubare una vittoria elettorale da democratici di sinistra radicali arroganti. Il nostro paese ne ha avuto abbastanza, non tollererà oltre! Vi sentiamo (e vi amiamo) dallo Studio ovale. MAKE AMERICA GREAT AGAIN!”.
Trump si stava scaldando. Lui e Scavino prepararono insieme un secondo tweet: “Spero che i democratici, e, cosa ancora più importante, la debole e inefficace sezione RINO del partito repubblicano (termine dispregiativo usato da Trump nei confronti dei suoi oppositori all’interno del partito, accusati di essere repubblicani solo di nome, Republican in name only, ndt) stiano guardando le migliaia di persone che si stanno riversando a Washington e non permetteranno il furto di una vittoria elettorale schiacciante”. La folla fuori esplose improvvisamente in un boato. “Sono carichi. Sono carichi!”, disse Trump. Il presidente guardò Scavino: non voleva che ci fossero violenze il giorno dopo, disse.
Molti nella stanza interpretarono il commento di Trump come se intendesse che non voleva scontri tra i contromanifestanti e i suoi sostenitori, come era invece successo a novembre e a dicembre, quando Trump si era infuriato con la polizia di Washington per quella che a suo parere era stata una gestione morbida dei manifestanti. Subito dopo, un terzo tweet completò il suo pensiero: “Antifa è un’organizzazione terroristica, state lontani da Washington. Le forze dell’ordine vi tengono d’occhio da vicino!”.
Per nove settimane, il gran finale della presidenza Trump era stato come un assordante canto delle sirene. Le false accuse di brogli elettorali avevano spinto i suoi seguaci a mettere in atto i loro peggiori istinti. Moltissimi erano già arrivati in massa a Washington, e altri ancora erano in viaggio. Trump si rivolse a un consigliere chiedendogli cosa pensava che la folla avrebbe voluto sentirsi dire al comizio il giorno successivo. Il consigliere suggerì a Trump di parlare dei suoi successi. “Be’, sono stati quattro anni incredibili”, disse. “No, no”, lo interruppe Trump. “La gente è arrabbiata. E’ furiosa”. Mandò un ultimo messaggio su Twitter. “Parlerò al raduno SAVE AMERICA domani all’Ellipse alle 11 del mattino, fuso orario della costa orientale. Arrivate presto – le porte aprono alle 7 del mattino. GRANDE FOLLA!”.
Il bagno di sangue
Il 6 gennaio, il presidente Donald Trump era appena rientrato alla Casa Bianca dal suo comizio nell’Ellipse, si era ritirato nella sua sala da pranzo privata subito a fianco dello Studio ovale e aveva acceso la gigantesca televisione a schermo piatto per godersi lo spettacolo. Sull’altro lato di Pennsylvania Avenue, migliaia di suoi sostenitori sfoggiavano i suoi cappellini rossi, sventolavano le sue bandiere blu e inneggiavano al suo nome. I notiziari in diretta televisiva cominciarono a mostrare l’orrore che accelerava minuto per minuto, a partire dall’1:10 del pomeriggio, quando Trump aveva fatto appello ai suoi perché marciassero sul Campidoglio. I sostenitori pro Trump rovesciarono le barriere di protezione. Bastonarono i poliziotti. Si arrampicarono sui muri di granito. E poi sfasciarono porte e finestre per violare il sacro edificio che per oltre due secoli era stato la sede della democrazia americana.
Il Campidoglio era sotto assedio – e il presidente, incollato al televisore, non fece nulla. Per 187 minuti, Trump resistette alle suppliche che arrivavano dai suoi consiglieri e alleati, dalla sua figlia maggiore e dai parlamentari sotto assedio, affinché intervenisse. Persino quando le violenze in Campidoglio si intensificarono, e dopo che il vicepresidente Mike Pence, la sua famiglia e centinaia di membri del Congresso e i loro staff si erano dovuti nascondere per salvarsi, e persino dopo che due persone erano morte e moltissime altre erano state picchiate, Trump per oltre tre ore evitò di parlare ai banditi che stavano creando il caos in nome suo, dicendogli di fermarsi e andare via.
Nei 187 minuti in cui Trump rimase fermo, orribili scene di violenza si susseguirono dentro e fuori il Campidoglio. Dopo venticinque minuti di silenzio di Trump, un fotografo di un giornale fu trascinato giù da una rampa di scale e sbattuto contro un muro. Cinquantadue minuti dopo, un agente di polizia fu preso a calci nel petto e circondato dalla calca. Nel giro di un’ora due assalitori morirono per attacchi di cuore. Dopo sessantaquattro minuti, un rivoltoso sfilò per il Campidoglio sventolando una bandiera confederata. Settantaquattro minuti dopo, a un altro poliziotto furono spruzzate in faccia sostanze chimiche. Settantotto minuti dopo, un altro agente ancora fu picchiato con l’asta di una bandiera. Ottantatré minuti dopo, i rivoltosi fecero irruzione nell’ufficio della presidente della Camera e lo saccheggiarono. Novantatré minuti dopo, un altro fotografo fu circondato, spintonato e gli fu rubata la macchina fotografica. Novantaquattro minuti dopo, un’assalitrice fu uccisa a colpi d’arma da fuoco. Centodue minuti dopo, i rivoltosi irruppero nell’aula del Senato, rubarono documenti e si misero in posa per farsi le fotografie intorno al palco della presidenza. Centosedici minuti dopo, un quarto poliziotto fu sbattuto contro una porta e picchiato con il suo stesso bastone. Il tutto nelle prime due ore.
Trump guardava in televisione l’attacco che si intensificava e continuava a non fare nulla, né nel coordinare una reazione delle agenzie federali, né nel dire ai suoi sostenitori di disperdersi. Rinunciò completamente alle proprie responsabilità di comandante in capo – un presidente ridotto a semplice spettatore. I tweet che Trump inviò nelle prime due ore della rivolta erano a dir poco confusi. Sconfessò le violenze ma incoraggiò i suoi sostenitori a insistere nella loro battaglia in Campidoglio. E per tutto il tempo continuò a ripetere la bugia delle elezioni rubate. Il suo esercito del “Make America Great Again” si era messo in marcia, proprio come lui stesso gli aveva ordinato di fare durante il comizio. Il presidente aveva chiesto ai suoi seguaci di andare verso il Campidoglio e fare sfoggio di “orgoglio e ardimento” per fare pressione sui parlamentari affinché tentassero di rovesciare il risultato di un’elezione che lui a torto sosteneva fosse stato manipolato. Ed eccoli lì, a combattere sul serio per mantenere Trump al potere. “Era esaltato all’idea di ‘tutta questa gente che è venuta a battersi per me’”, ha detto un politico repubblicano vicino al presidente. “Non credo che si rendesse davvero conto di quel che stava accadendo”.
Quest’inchiesta del Washington Post fornisce il resoconto a oggi più completo dell’atteggiamento di Trump e del prezzo della sua inerzia di fronte all’attacco contro la democrazia. Rivela anche degli aspetti nuovi di una vasta campagna messa in atto dal presidente e dal suo entourage per costringere Pence a bloccare la ratifica dei risultati elettorali – tra cui un tentativo in extremis, la sera del 6 gennaio a rivolta ormai terminata, dell’avvocato John C. Eastman di incitare Pence a respingere i grandi elettori una volta che il Congresso si fosse nuovamente riunito. Il portavoce di Trump Taylor Budowich ha bollato le rivelazioni del Post come “fake news” e ha dato una falsa descrizione delle persone che quel giorno hanno fatto irruzione in Campidoglio come di “agitatori non associati al presidente Trump”. L’inchiesta del Post ha anche svelato la presenza evidente di segnali di crescente pericolo nelle ore che precedettero l’attacco in Campidoglio, tra cui gli scontri avvenuti quella mattina tra centinaia di manifestanti pro Trump e la polizia davanti al monumento a Washington e al Lincoln Memorial. L’aumentare dei campanelli d’allarme non innescarono un incremento delle misure di sicurezza quella mattina, rivelando quanto le forze di sicurezza fossero impreparate alla violenza. Eppure c’erano alcuni politici che sapevano cosa aspettarsi. Temendo per la propria sicurezza, la deputata repubblicana del Wyoming Liz Cheney aveva assunto una scorta personale.
Guardando in televisione i rivoltosi che irrompevano nel Campidoglio, Trump si sfogava contro il vicepresidente con quelli che erano intorno a lui. Alle 2:24 del pomeriggio, proprio mentre Pence e la sua famiglia erano minacciati da violenti saccheggiatori che lo chiamavano traditore – e qualcuno di loro scandiva: “Impicchiamo Mike Pence!” – Trump con un tweet chiarì da che parte stava: “Mike Pence non ha avuto il coraggio di fare ciò che andava fatto per proteggere il nostro paese e la nostra Costituzione, dando agli stati la possibilità di ratificare dei fatti reali, non quelli falsi o scorretti che era stato chiesto loro di certificare. Gli Stati Uniti vogliono la verità!”. Due minuti dopo, Trump chiamò il senatore Tommy Tuberville, un repubblicano dell’Alabama appena eletto, che tra i suoi alleati era stato uno fra i più accesi sostenitori della teoria delle frodi elettorali. “Come va coach?”, chiese Trump all’ex allenatore di football dell’università di Auburn. “Non molto bene, signor presidente”, rispose Tuberville. “In realtà, ci stanno per evacuare”. “So che abbiamo dei problemi”, disse Trump. Nel mezzo del caos, Tuberville troncò la telefonata. “Signor presidente, hanno appena portato fuori il vicepresidente”, disse il senatore. “Si preparano a scortarmi fuori di qui. Devo andare”. Il consigliere per la sicurezza nazionale di Pence, Keith Kellogg, aveva passato la giornata alla Casa Bianca facendo avanti e indietro con lo Studio ovale per parlare con Trump, e gli aveva riferito che il vicepresidente era al sicuro nei sotterranei del Campidoglio assieme alla moglie e alla figlia. Ma Trump non ebbe alcuna reazione. Continuava a concentrarsi solo sul televisore.
Ci furono molti altri che tentarono di parlare con il presidente. Il leader della minoranza alla Camera Kevin McCarthy, deputato della California e gran sostenitore di Trump, lo chiamò e gli disse: “Deve condannare tutto questo”. Trump ripeté a McCarthy la bugia che i rivoltosi erano attivisti “antifa”, ma McCarthy lo corresse e disse che in realtà erano sostenitori suoi, del presidente. “Sai cosa vedo, Kevin? Vedo gente che è più arrabbiata di te per le elezioni. Amano Trump più di te”, rispose il presidente. “Deve trattenerli”, disse McCarthy. “Deve andare in tv adesso, deve andare su Twitter, deve farli fermare”. Trump rispose: “Kevin, non è gente mia”. McCarthy disse al presidente: “Sì, lo è. Hanno appena scavalcato le mie finestre e il mio staff è scappato a nascondersi. Oh sì, è gente sua. La fermi”.
Meno sette ore
La mattina del 6 gennaio, Donell Harvin, capo dell’Intelligence del dipartimento per la Sicurezza nazionale di Washington, si immise sulla superstrada Baltimora-Washington per andare in centro dalla periferia del Maryland e rimase sorpreso dal traffico che incontrava. Poi Harvin notò che l’auto davanti a lui aveva una targa di un altro stato. E così l’auto a fianco. Capì di essere circondato. Tutte le auto che riusciva a vedere davanti a sé e nello specchietto retrovisore avevano bandiere, adesivi e altri simboli pro Trump. Harvin chiamò il centro per la Sicurezza nazionale della città per raccontare quello che vedeva. “Sarà il doppio più grande di quanto potessimo immaginare”, disse Harvin a uno dei suoi vice. Era la seconda telefonata di quel tipo che arrivava al centro: un altro impiegato aveva raccontato di scene simili sulle autostrade di accesso in città dalla Virginia. I sostenitori di Trump stavano convergendo sulla capitale da tutte le direzioni. Di fronte alla sede dell’Fbi in centro città, gli impiegati del Bureau cominciarono la giornata di lavoro mescolandosi ai manifestanti del Maga che ordinavano caffè e colazione da Au Bon Pain. Un agente notò un ragazzo che indossava un giubbotto antiproiettile e per un attimo si chiese perché uno avrebbe dovuto usare un equipaggiamento militare per andare a un comizio politico.
Anche la deputata Liz Cheney aveva previsto dei potenziali pericoli. La parlamentare del Wyoming era diventata la leader di fatto dei repubblicani anti Trump e pensava che la campagna Stop the Steal non solo violasse la Costituzione ma stesse fomentando la violenza. Essendo la numero 3 della leadership repubblicana alla Camera, non aveva diritto a una scorta a tempo pieno della polizia del Campidoglio, così Cheney si organizzò da sola. Quella mattina un ex agente di sicurezza la accolse per scortarla dentro e fuori il Campidoglio. Alle 7:11 del mattino Cheney twittò per condannare i tentativi di un sempre maggiore numero di colleghi repubblicani di dare a Trump un secondo mandato rifiutando i risultati del collegio elettorale: “Abbiamo prestato giuramento davanti a Dio per difendere la Costituzione. Teniamo fede a quel giuramento sempre, non solo quando conviene politicamente. Il Congresso non ha alcuna autorità di sovvertire le elezioni contestando gli elettori. Fare questo vuol dire sottrarre il potere agli stati e violare la costituzione”.
Durante il viaggio in auto, Cheney passò quasi tutto il tempo a cercare di assicurarsi che i colleghi leader della Camera garantissero a lei e a tutti gli altri repubblicani intenzionati a ratificare la vittoria di Biden la possibilità di intervenire in aula durante i lavori.
La folla si era intanto radunata fin dal primo mattino all’Ellipse, il parco vicino alla Casa Bianca dove Trump aveva in programma di intervenire a mezzogiorno durante la manifestazione “Save America”. Alle 8:06 del mattino, un’allerta dei servizi segreti indicò che circa 10 mila persone erano in fila per i controlli di sicurezza e che alcuni indossavano “caschi di protezione, giubbotti antiproiettile” e avevano con sé “attrezzature radio e zaini con equipaggiamenti militari”. Poco distante, Paul Hodgkins stava appollaiato su un albero per avere una visuale migliore. Era preoccupato per i possibili scontri di piazza ed era venuto attrezzato: si era coperto gli avambracci con dei guanti di pelle che aveva usato per gli incontri di wrestling.
Qualche isolato più in là, al monumento di Washington, alle 9 del mattino una folla di sostenitori di Trump aveva sovrastato la polizia. Un agente della polizia inviò un messaggio via radio: “Ci sono circa 300 persone qui, rifiutano di andarsene”. Nel giro di pochi minuti, i messaggi dei poliziotti sul posto peggiorarono. Poi, alle 9:46, dal Lincolm Memorial arrivò un rapporto ancora più allarmante. Gli agenti della polizia via radio dissero che c’erano tra le 500 e le 800 persone radunate, alcune con giganteschi stendardi. E proprio in quel momento, un altro agente dal monumento di Washington chiamò via radio: “Giusto per sicurezza, c’è un tizio, un uomo bianco, che gira intorno al circolo delle bandiere con un forcone”.
Erano tutti palesi campanelli d’allarme che presagivano il bagno di sangue che sarebbe arrivato. Mancavano ancora due ore al comizio di Trump e tre ore prima che il Congresso si riunisse formalmente per ratificare l’elezione di Joe Biden a presidente. Eppure le autorità di pubblica sicurezza continuavano a non fare nulla. Gli agenti della Park Police ricevettero istruzioni via radio: “Per le unità a 1 41: solo monitoraggio. Non intraprendete alcuna azione di forza. Lasciate fare”. “Si si, vi copriamo noi”. “Anche quando ci sarà movimento, voi osservate e basta. Lasciate fare, a meno di eventi davvero davvero grossi”. Un agente spiegò la strategia di contenimento: “Non li dobbiamo agitare”.
Alla Casa Bianca, alle 8:17 del mattino Trump diede un’indicazione chiarissima a Pence, che si preparava a presiedere la seduta congiunta del Congresso all’una del pomeriggio. “Gli stati vogliono correggere i loro voti, perché adesso sanno che si basavano su frodi e irregolarità, e inoltre questo processo corrotto non ha mai avuto l’approvazione del Congresso. Mike Pence deve solo rinviare tutto agli stati, E NOI VINCIAMO. Dai Mike fallo, è il momento di mostrare un coraggio estremo!”. Verso le 9 del mattino, quattro dei consiglieri di Pence – il chief of staff Marc Short, il direttore degli Affari legislativi Chris Hodgson, il consigliere Greg Jacob e l’addetto stampa Devin O’Malley – si incontrarono con il vicepresidente nella sua residenza all’Osservatorio navale. Diedero un’ultima revisione alla lettera formale che Pence aveva scritto all’indirizzo dei membri del Congresso per informarli della sua decisione di seguire i propri doveri costituzionali e presiedere alla ratifica dei risultati del collegio elettorale. Il documento di tre pagine esponeva l’interpretazione di Pence della Costituzione, inclusi i suoi obblighi in qualità di presidente della seduta di ratifica e i limiti del suo potere di spostare o alterare i risultati.
Meno 5 ore
In giro per la città c’era aria di festa tra i vari gruppetti di manifestanti che pensavano di essere non solo testimoni della storia, ma suoi artefici, nel momento in cui la vittoria di Biden fosse stata cancellata.
Verso le 9 del mattino i dipendenti del dipartimento per la gestione della sicurezza e dell’emergenza nazionale di Washington si sparpagliarono fuori dalla Casa Bianca verso il Campidoglio in “squadre mobili di controllo di situazioni contingenti”. Le squadre che si trovavano vicino alla Casa Bianca notarono qualcosa di insolito: mucchi di zaini, a centinaia, che i manifestanti avevano lasciato fuori invece di farli passare dai magnetometri e nei posti di blocco predisposti per il discorso di Trump. Il rapporto mise in allarme il centro per la Sicurezza nazionale di Washington. Durante una simulazione che il dipartimento aveva svolto la settimana prima, la presenza di borse abbandonate era stata considerata un segnale della possibile presenza di armi nascoste.
Più tardi quella mattina, Trump si trovava con i suoi familiari e membri dello staff nell’ufficio ovale, passando dal guardare la televisione nella sua sala da pranzo privata per controllare le dimensioni della folla che si stava ammassando nel parco dell’Ellipse, alla revisione del discorso che avrebbe tenuto, assieme al suo speechwriter Stephen Miller. Alcune delle persone intorno a Trump, tra cui la fidanzata del suo figlio maggiore Donald Trump jr, Kimberley Guilfoyle, covavano l’illusione che Pence avrebbe contribuito a ribaltare il risultato delle elezioni.
Guilfoyle disse a Trump che la folla che stava crescendo lì fuori rappresentava il consenso del paese. “Sono il riflesso della volontà popolare”, gli disse. “Questa è la volontà del popolo”.
Quella mattina Trump e Pence parlarono al telefono. Fu una conversazione brusca, perché Pence ripeté quel che aveva già detto al presidente il giorno prima quando si erano incontrati di persona nell’ufficio ovale: che lui non avrebbe avuto altra scelta che ratificare il voto del collegio elettorale. Parlando dalla sua residenza all’Osservatorio navale, Pence spiegò che i doveri del vicepresidente sono formali e che la sua autorità è limitata, a prescindere da quanto Pence volesse che entrambi ricoprissero le loro cariche per un nuovo mandato.
Trump fu spietato. “Non hai il coraggio di prendere una decisione difficile”, disse a Pence.
Le bandiere rosse aumentavano man mano che si avvicinava l’evento di mezzogiorno. Alle 10:58, la polizia trovò due armi da fuoco in un veicolo abbandonato a nord del Mall. Alle 11:11, la polizia trovò un mezzo vicino all’Enfant Plaza con un fucile e mirino in bella vista. E alle 11:26 la polizia del Campidoglio indagò su un tweet secondo cui in Campidoglio si stava formando un gruppo paramilitare.
Verso le 11:30 arrivò fuori dal Campidoglio un contingente numeroso di sostenitori di Trump, spavaldamente turbolenti: i Proud Boys, un gruppo di estrema destra noto per atti di violenza politica. Si tennero fuori dal resto della folla del Maga, decine di persone che si muovevano in formazioni semiorganizzate – incolonnati per cinque, come se fossero dei paramilitari. Erano in gran maggioranza maschi e quasi esclusivamente bianchi. Dalle felpe e dai giacconi spiccavano giubbotti antiproiettile. Avevano indosso stemmi e bandane con le bandiere confederate, teschi Punisher (un logo tratto da un fumetto Marvel, usato dai militari per indicare il potere che distrugge, di recente divenuto simbolo dell’estrema destra americana, ndt) e altri simboli estremisti.
Quando arrivarono sul posto, tra la folla si cominciò a mormorare “ci sono i Proud Boys”, e la gente si spostava per fare posto. “Dio sia lodato!”, esclamò una donna. Alle 11:39 Trump lasciò la Casa Bianca con il corteo di auto per percorrere il breve tratto fino al parco dell’Ellipse, dove si riunì dietro un tendone bianco con il suo staff, gli amici e i familiari, prima di salire sul palco del comizio.
I segnali d’allarme aumentavano. Mentre Trump e il suo entourage si divertivano nel backstage sotto il tendone, la polizia di Washington aveva risposto a una chiamata per la presenza di un uomo armato di fucile nelle vicinanze, tra la 15esima strada e Constitution Avenue. Contemporaneamente, il dipartimento per la Sicurezza nazionale comunicava che nel veicolo vicino all’Enfant Plaza, oltre al fucile con il mirino erano state trovate due pistole.
Trump cominciò a parlare nel parco dell’Ellipse alle 11:57. A metà del discorso, il presidente fece pubblicamente pressione sul vicepresidente, dicendo ai suoi sostenitori: “Se Mike Pence fa la cosa giusta, noi vinciamo le elezioni… Mike Pence deve farcela per noi e se non lo farà, sarà un giorno molto molto triste per il nostro paese”.
Hannah Allam, Devlin Barrett, Aaron C. Davis, Josh Dawsey, Amy Gardner, Shane Harris, Rosalind S. Helderman, Paul Kane, Dan Lamothe, Carol D. Leonnig, Nick Miroff, Ellen Nakashima, Ashley Parker, Beth Reinhard, Philip Rucker, Craig Timberg
Traduzione di Raffaella Menichini e di Alessia Manfredi - Copyright Washington Post
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