terza puntata
“Andiamo in Campidoglio”: l'inchiesta del Washington Post sul 6 gennaio
Il 6 gennaio del 2021, prima della seduta parlamentare per ratificare la vittoria di Biden, Trump ha invitato i suoi a marciare per “riprenderci il nostro paese”. Poco dopo i Proud Boys: “Sfondate i cancelli”. La terza puntata
Questo è il terzo appuntamento con l’inchiesta a puntate “The attack” sull’assalto al Campidoglio americano del 6 gennaio del 2021. Il primo e il secondo li trovate qui.
Meno due ore
Verso mezzogiorno, in Campidoglio, la deputata repubblicana Liz Cheney entrò nella saletta del Partito repubblicano, un’anticamera subito fuori l’aula della Camera dove si ritrovano i parlamentari. All’interno, lungo il muro, c’erano dei tavoli con sopra delle pile di fogli. I deputati repubblicani erano in fila per firmarli. Cheney andò a vedere cosa stessero firmando. Si stavano registrando come co-sponsor per la contestazione dell’elezione di Joe Biden in sei stati chiave. C’è bisogno della firma di un solo deputato o senatore per determinare la sospensione della seduta congiunta delle camere e l’apertura del dibattito sullo stato contestato. Ciononostante, molti repubblicani volevano offrire una prova tangibile del proprio sostegno a queste contestazioni, e così a decine misero la firma. “Cosa non si fa per il Gesù arancione” (Orange Jesus, nomignolo affibbiato a Trump fin dalla campagna elettorale, ndt), borbottò uno di loro mentre firmava.
Fuori la situazione stava peggiorando. Alle 12:29 un poliziotto del Campidoglio disse di aver sentito un colpo di taser esplodere vicino al Senato. E alle 12:22, la Patk Police comunicò di aver fermato una persona con un fucile sulla 17esima strada, vicino al sacrario della Seconda guerra mondiale, non lontano da dove Trump stava parlando nel parco dell’Ellipse. Il telefono di Cheney squillò. Era suo padre, l’ex vicepresidente Dick Cheney, che l’aveva sentita nominare da Trump nel discorso. Temeva per l’incolumità di Liz. Discussero dell’opportunità di smorzare i toni nell’intervento che lei aveva intenzione di fare in sostegno della vittoria di Biden. “E’ giusto che ci sia un condizionamento a ciò che farai?”, le chiese il padre. Dopo un po’ furono d’accordo che avrebbe dovuto insistere. “Non lasciare che una minaccia del genere ti impedisca di fare ciò che è giusto”, disse Cheney a sua figlia.
Alle 12:36, il vicepresidente Mike Pence arrivò in Campidoglio. Mentre il corteo di macchine si avvicinava, uno dei membri del suo staff rimase colpito dall’entità della folla. La squadra di Pence non immaginava che la situazione si sarebbe fatta violenta. Nessuno degli uffici competenti aveva informato il vicepresidente o il suo staff di cosa avrebbero potuto aspettarsi. Pence aveva portato con sé la moglie Karen e la figlia Charlotte, e in Campidoglio li raggiunse suo fratello Greg, che era un deputato repubblicano dell’Indiana. Il vicepresidente non li aveva voluti al suo fianco per celebrare una giornata storica sapeva che avrebbe avuto bisogno di loro per essere sostenuto emotivamente.
Mentre Pence entrava in Campidoglio, il suo staff inviò la lettera al Congresso. L’inappellabilità delle sue conclusioni scatenò un’ondata di reazioni violente nell’entourage di Trump, e anche oltre.
A metà del discorso di Trump, verso le 12:45, agenti della polizia del Campidoglio, dell’Fbi e dell’Atf (Alcohol, Tobacco, Firearms, altra agenzia federale, ndt) furono mandati a indagare su una bomba artigianale lasciata fuori dalla sede del Comitato nazionale del Partito repubblicano e su pacchi sospetti rinvenuti alla Corte Suprema e vicino alle sedi del Comitato nazionale democratico – tutti edifici vicini al Campidoglio. Tutte queste attività contribuirono a deviare l’attenzione degli agenti che erano a guardia del Campidoglio. Un agente del dipartimento per la Sicurezza nazionale, incaricato di controllare la folla che cresceva sempre più, si trovava in un suv nero sul lato est del Campidoglio, vicino a una fila di furgoni degli artificieri della polizia del Campidoglio. All’improvviso moltissimi agenti saltarono sui furgoni. Metà di loro partì in direzione sud. Tanti altri si diressero a ovest. L’agente si rese conto che il suo suv era rimasto uno dei pochi mezzi sul posto e che poco più di una decina di poliziotti si frapponevano tra il Campidoglio e il numero crescente di manifestanti.
L’agente chiamò Donell Harvin, il capo dell’intelligence del dipartimento per la Sicurezza nazionale, e lui gli spiegò che gli artificieri erano stati chiamati a intervenire su un pacco sospetto ritrovato vicino al palazzo del Rnc, il Comitato nazionale repubblicano. I due ripensarono alle simulazioni fatte il 30 dicembre, e a come gli analisti avevano immaginato uno scenario in cui qualcuno avrebbe potuto usare degli ordigni artigianali per distrarre le forze dell’ordine prima di un attacco al Campidoglio. “Sta succedendo davvero?”, chiese l’agente a Harvin.
Dal parco dell’Ellipse Trump continuava a infervorarsi, ma qualcuno cominciava a staccarsi dalla folla per dirigersi verso il Campidoglio. Alle 12:46, la polizia del Campidoglio cominciò ad applicare le procedure di prevenzione. Alcuni agenti furono mandati a bloccare le vie laterali come misura precauzionale contro possibili sfondamenti di automobili. Di fatto questo creò un canale protetto per i manifestanti, dritto dritto fino in Campidoglio.
Poco prima dell’una del pomeriggio, nella sede dell’agenzia per la Sicurezza nazionale, circa sei chilometri a sud del Campidoglio, Harvin e i suoi analisti stavano osservando una gran quantità di immagini in diretta riprese da alcuni dei soggetti la cui presenza in città più li preoccupava. Da un’angolazione si potevano vedere i rivoltosi che spingevano verso le balaustre del palco dove si sarebbe svolta la cerimonia di insediamento di Biden. Harvin corse nella sala operativa. Sembrava che la folla stesse assaltando il Campidoglio.
Un dipendente del comune indicò la Cnn, che stava mostrando le immagini di Pence e del Congresso riuniti all’interno. “Non lo stanno facendo vedere in televisione”, disse. “Lo faranno vedere presto”, ribatté Harvin.
All’1:03, la polizia del Campidoglio trovò un furgone rosso vuoto, con degli adesivi dell’Alabama, pieno di armi, tra cui una carabina d’assalto M4, cartucciere piene di munizioni, e materiale sufficiente a confezionare undici bottiglie molotov. Intanto Trump stava finendo il suo discorso nel parco dell’Ellipse, e il proclama del leader risuonò in tutta la città come una chiamata alle armi. “Se non lotterete come dannati, non vi ritroverete più il vostro paese”, disse. “Ora marciamo su Pennsylvania Avenue – Io amo Pennsylvania Avenue – e andiamo in Campidoglio”.
E poi, all’1:10, disse alla folla di mettersi in marcia e “provare a dare (ai parlamentari) quell’orgoglio e ardimento di cui hanno bisogno, affinché possiamo riprenderci il nostro paese”.
Meno 60 minuti
Douglas Jensen non era andato a Washington con il proposito di fare irruzione nel Campidoglio, ma obbedì all’appello di Trump a marciare lungo Pennsylvania Avenue. Jensen non dormiva dal giorno prima. Si avviò verso la cupola bianca ed era deciso ad arrivare all’interno del Campidoglio e vedere in prima persona quello che aveva soprannominato “l’assalto” – la proclamazione della legge marziale e l’arresto dei parlamentari che volevano certificare la vittoria di Biden.
Jensen pensava che Pence sarebbe stato il primo a essere arrestato. Quando ricevette un messaggino da un amico che gli diceva che Pence aveva appena “battuto il martelletto” per aprire la seduta congiunta delle Camere, Jensen rispose con le fotografie dei sostenitori di Trump che stavano affluendo in massa dal monumento a Washington verso il Campidoglio, e un breve messaggio: “Sta per cambiare tutto ;)”.
Vicino al Campidoglio c’era un folto gruppo di Proud Boys che ascoltava in diretta il discorso di Trump. Non era facile sentire le parole del presidente con tutto il rumore della folla, ma quando Trump incitò i manifestanti a dirigersi verso il Campidoglio, la notizia si sparse immediatamente. I Proud Boys lo presero come un ordine. Si mostravano come dei rivoluzionari, si scambiavano informazioni sulla app Zello, simile a un walkie-talkie. “1776!”, gridò un uomo. “1776!”, risposero gli altri manifestanti. “Quale Campidoglio? Il nostro Campidoglio”, scandivano.
Gli agenti di polizia sentivano persone che urlavano “Vaff… Biden” e “Pelosi è una pedofila”, riferendosi alle accuse infondate di pedofilia che si erano ampiamente diffuse tra i seguaci di QAnon. Da dentro i vetusti uffici dell’Fbi su Pennsylvania Avenue, gli agenti e gli analisti seduti alle proprie scrivanie potevano sentire forti e chiari gli slogan dei sostenitori di Trump che marciavano sul Campidoglio. “Fbi traditori!”, gridavano. “Vaff… Fbi!”.
Più si avvicinava al palazzo del Campidoglio, più la folla si agitava e appariva fuori controllo. L’unica presenza visibile di una qualche sicurezza erano degli agenti di polizia in lontananza. I manifestanti buttavano giù barriere dopo barriere, praticamente indisturbati. Alle 12:55, la polizia del Campidoglio ordinò a tutte le unità disponibili di convergere sulla fiancata ovest del palazzo per intervenire contro i tentativi di irruzione, e gli agenti che erano dentro ricevettero l’ordine di chiudere a chiave alcune porte. I manifestanti si scontrarono con violenza con i pochi poliziotti che avevano trovato sulla scena.
Era ormai l’una quando il capo della polizia del Campidoglio Steven Sund si rese conto che le cose non stavano andando bene: “Stanno massacrando i miei uomini sotto i miei occhi”.
Mentre la polizia perdeva rapidamente il controllo fuori dal Campidoglio, i parlamentari erano riuniti nell’aula della Camera per la seduta congiunta, cominciata alle 13. Era iniziato il conteggio procedurale dei voti, in ordine alfabetico stato per stato. Ma la conta fu presto interrotta da una contestazione di parte repubblicana alla dichiarazione di voto dell’Arizona.
C’era un’agitazione crescente tra i parlamentari che, nel rispetto delle direttive sul distanziamento contro il coronavirus, erano seduti nella galleria superiore. La deputata democratica della Pennsylvania Susan Wild volse lo sguardo verso le porte della galleria che davano sul corridoio. Intravedeva degli agenti di polizia che si muovevano di corsa verso l’ingresso. Wild era sempre più nervosa.
Altri parlamentari si agitavano sulle sedie mentre sui loro account Twitter scorrevano in diretta le immagini di quel che stava accadendo all’esterno. La scena appariva sempre più violenta. All’1:28 la deputata democratica di Washington Pramila Jayapal mandò un messaggio a suo marito Steve Williamson: “Questa cosa è davvero pazzesca. Hanno sfondato i cordoni di polizia. Sta per scoppiare il caos, e sarà violento”.
All’1:30 circa, il capitano Carneysha Mendoza si trovava a casa, in un sobborgo del Maryland. Aveva appena tirato fuori dal forno il polpettone e si stava mettendo a tavola con suo figlio di 10 anni, Christian, che poi avrebbe passato il resto della giornata con la babysitter. Mendoza guidava l’unità antisommossa della polizia del Campidoglio, e avrebbe dovuto prendere servizio in Campidoglio alle 3 del pomeriggio.
Ma mentre si sedeva a tavola, il suo telefono squillò. Era un collega, un altro capitano. La situazione era grave. Qualche minuto dopo, un’altra telefonata: “Dovresti proprio venire qui”. Mendoza uscì con ancora la tuta da ginnastica indosso e si mise in auto verso Pennsylvania Avenue. Riuscì a superare il traffico e mostrando il tesserino riuscì a passare oltre un posto di blocco e ad arrivare al Campidoglio.
A quel punto già centinaia di persone avevano invaso il Campidoglio. La gente si arrampicava sugli alberi, saltava sulle transenne, montava sui muri e cercava delle scale, alla ricerca di qualsiasi sistema per poter entrare nel palazzo. Zaffate di spray urticante si spandevano sulla folla, creando una nube acre. “Sfondate i cancelli!”, urlò un uomo, la voce che sovrastava il rumore della folla. “Non ci fate paura! Non torniamo indietro! Ecco cosa vi tocca quando cercate di fregare il popolo americano!”. Stava scoppiando la rivolta.
Trump non si unì alla manifestazione dei suoi seguaci. Anche se aveva detto che sarebbe andato al Campidoglio, il Secret service o lo staff della Casa Bianca non avevano messo a punto le misure necessarie perché potesse farlo. Alcuni dello staff si informarono se ci fossero stati dei cambi di programma, ma non ce n’erano.
All’1:19 il presidente era di ritorno alla Casa Bianca. Qui si infuriò con il suo staff per come era stato organizzato il comizio nel parco dell’Ellipse. Trump è sempre stato attentissimo al colpo d’occhio e alla scenografia, e in quel caso sosteneva che il pubblico avrebbe dovuto disporsi in un altro modo. Ma nello stesso tempo continuava a vantarsi senza sosta di quanta gente fosse venuta. Si mise nella sala da pranzo adiacente allo Studio ovale per guardare i notiziari sugli eventi della giornata, e intanto continuava a inveire con chi gli stava intorno su quanto Pence fosse stato sleale a presiedere la seduta in cui si sarebbero certificati i voti dei collegi elettorali.
All’1:45 i rivoltosi scoprirono che il percorso che portava al lato del Campidoglio dove si trova il Senato era privo di sorveglianza. Alcuni uomini in tenuta da guerriglia si erano messi lì a indirizzare le persone verso quell’ingresso, dopo aver buttato giù almeno altre tre file di fragili barriere mobili. Un agente nero della polizia del Campidoglio si diresse sul posto da solo. La sua radiolina gracchiava. “Oh, è sbarrato”, borbottò sorpreso, scuotendo la testa. Diede un’occhiata alla calca di bianchi che si ingrossava sempre più davanti a lui, e se ne andò.
All’1:50 il comandante della polizia di Washington annunciò che era in corso una rivolta in Campidoglio. Fuori dal palazzo, alcuni dei rivoltosi si erano messi a discutere con una decina di poliziotti che tentavano a fatica di mantenere le posizioni sulla scalinata. “Guardate che per voi non va a finire bene”, diceva uno degli uomini agli agenti. “Guardate solo quanta gente c’è. Andate via adesso, prima che si metta male. Lasciate perdere”. I poliziotti facevano delle smorfie ma continuavano a divincolarsi per tenere a bada i rivoltosi. Ma furono sopraffatti in pochi minuti. Si era aperta la via verso le porte d’ingresso. “Prendeteli!”, urlava la gente, caricando. “Trump! Trump! Trump! Trump! Trump!”.
All’1:59, i primi rivoltosi avevano raggiunto le finestre e i portoni del Campidoglio e cercavano di fare irruzione all’interno. Alle 2:05 si registrò la prima vittima: Kevin Greeson, un sostenitore di Trump dell’Alabama, fu colpito da infarto subito fuori il palazzo del Campidoglio.
A quel punto, la seduta congiunta era stata sospesa per permettere alle due camere di riunirsi separatamente e dibattere le obiezioni dei repubblicani alla dichiarazione di voto dell’Arizona. Nell’aula del Senato, mentre Pence presiedeva dal podio e il senatore repubblicano dell’Oklahoma James Lankford stava esponendo la sua opposizione alla certificazione del voto, il senatore repubblicano dello Utah Mitt Romney ricevette un messaggino dal suo assistente Chris Marroletti: “Sono entrati in Campidoglio”.
Il Campidoglio è stato violato
Alle 2:11, i primi rivoltosi erano riusciti a entrare nel palazzo usando dei bastoni e uno scudo protettivo della polizia per rompere i vetri di una finestra. Romney uscì dall’aula e si diresse verso il suo piccolo ufficio privato ma alle 2:12 incontrò l’agente della polizia del Campidoglio Eugene Goodman, che arrivava di corsa da un corridoio del secondo piano fuori dall’aula del Senato. Goodman fece cenno a Romney di tornare indietro per evitare i rivoltosi. “Sono molti vicini. Sarà più al sicuro dentro”, disse Goodman a Romney, che, scosso, rientrò nell’aula del Senato.
Alle 2:13, Pence fu fatto evacuare in gran fretta dalla sua scorta e portato via di corsa, insieme ai suoi familiari, attraverso una porta laterale nel suo ufficio del cerimoniale che era lì vicino. Pence e i suoi scamparono il pericolo per un soffio: esattamente un minuto dopo i rivoltosi si precipitavano per le scale e arrivavano su quello stesso pianerottolo urlando il suo nome. Il Senato sospese la seduta.
In quegli stessi istanti, Goodman si imbatté in un gruppo al primo piano. Si mise sulla porta urlando ai rivoltosi di tornare indietro. Jensen, che era tra i capofila e aveva portato dentro il Campidoglio un coltello tascabile, si fece incontro al poliziotto sul varco della porta. Goodman gli diede uno spintone sul petto e approfittò dell’attimo di sorpresa per fare un passo indietro e raccogliere un bastone che era per terra. Goodman ripeteva a Jensen di retrocedere, ma Jensen continuava ad avanzare. Goodman si girò per correre su per una rampa di scale e Jensen gli andò dietro.
Sul pianerottolo Goodman si girò e fece per colpire Jensen col bastone. “Fermati!”, gridò Goodman. “Colpiscimi pure, sono pronto”, disse Jensen. “Mi farò colpire per il mio paese”. Goodman si girò di nuovo per correre via. “Secondo piano!”, gridò nella radiolina mentre faceva le scale due gradini alla volta, avvertendo gli altri agenti che la folla era in movimento. Jensen gli correva dietro, sollevando e abbassando le braccia.
Alle 2:14 Goodman arrivò al secondo piano. Si girò di nuovo per fronteggiare Jensen e il gruppo di rivoltosi. A pochi passi da lui c’era una fila di porte che davano sull’aula del Senato, e a meno di trenta metri c’era l’ufficio in cui si nascondeva Mike Pence. Goodman guardò alla sua sinistra, verso l’ufficio. Poi diede uno spintone sul petto di Jansen e si diresse verso la destra, dove era in attesa un cordone di polizia. Jensen lo seguì, e così fece il gruppo di rivoltosi che era con lui. “A cosa vi serve fermarci proprio qui?”, chiese Jensen a uno degli agenti, come si può vedere in un video ottenuto dal Washington Post, mentre le urla dei rivoltosi riecheggiavano tra le pareti di marmo. “Più in là non andrete”, dichiarò il poliziotto. “Allora andate ad arrestare il vicepresidente!”, disse Jensen.
Alle 2:15 circa le chiamate di allarme degli agenti si moltiplicavano sulla radio del capitano Carneysha Mendoza. “Rotonda del Campidoglio”. “10-33”: questo era il segnale convenzionale di massima allerta del dipartimento, che indicava quando un agente era in pericolo. Mendoza si girò e corse verso l’angolo sud-est del Campidoglio. Voleva arrivare alla Rotonda. Entrò da un ingresso del piano terra che nel suo dipartimento era noto come la Memorial Door, la porta del memoriale, per la targa affissa sul muro in onore di due agenti uccisi nel 1998.
Mendoza aprì una porta di vetro interna e si trovò faccia a faccia con una folla di circa duecento rivoltosi che le bloccavano l’accesso alla Rotonda. Si girò per tornare all’uscita e trovare un accesso più sicuro ma in quei pochi secondi la folla era ormai arrivata lì fuori. Mendoza li sentiva colpire le porte e urlare. Era in trappola. Non aveva i dispositivi di protezione, e così con le mani in alto cominciò a farsi largo tra la folla urlando – come aveva insegnato ai suoi agenti delle squadre antisommossa: “Andate indietro! Indietro! Indietro!”.
Mendoza riuscì a passare da un corridoio e a raggiungere un cordone di poliziotti che tentavano di bloccare l’orda di rivoltosi vicino alla Rotonda, per non farli penetrare ancor di più nell’edificio. Si inserì nel cordone cercando di aiutarli, ma la polizia stava già cedendo. Le si incastrò un braccio tra la ringhiera e un muro, ma un sergente la aiutò a divincolarsi.
Alle 2:19, la polizia del Campidoglio inviò via e-mail un messaggio urgente a tutto lo staff del Congresso: “A causa di una minaccia alla sicurezza nell’edificio, fate immediatamente quanto segue: spostatevi nel vostro ufficio o nell’ufficio più vicino a voi. Portate con voi equipaggiamenti di sicurezza e ospiti. Chiudete a chiave le porte e state lontani dagli ingressi esterni e dalle finestre. Se vi trovate in uno spazio comune, trovate un posto dove nascondervi e mettetevi al riparo. Non fate rumore e silenziate i dispositivi elettronici. Appena sarete in un luogo sicuro, mettetevi subito in contatto con il vostro ufficio delle comunicazioni di emergenza. Nessuno può entrare o uscire dall’edificio finché non sarà data indicazione dalla polizia del Campidoglio. Se vi trovate in un edificio al di fuori dell’area interessata, restate lontani dalle operazioni di polizia. Attendete ulteriori istruzioni”.
Nell’ala della Camera dei rappresentanti, alle 2:20 la presidente Nancy Pelosi, democratica della California, stava presiedendo la seduta quando la scorta la prelevò dal podio e la riunione fu improvvisamente sospesa.
Alla Casa Bianca, Trump guardava lo spettacolo in diretta tv. Era compiaciuto che migliaia dei suoi sostenitori avessero preso d’assalto il Campidoglio. Alle 2:24 Trump twittò: “Mike Pence non ha avuto il coraggio di fare ciò che avrebbe dovuto per proteggere il nostro paese e la nostra Costituzione, dando agli stati la possibilità di certificare i fatti reali, non quelli fraudolenti e inaccurati che sono stati chiamati a ratificare. Gli Stati Uniti vogliono la verità!”.
In quello stesso istante, la scorta faticava a mantenere Pence al sicuro, in quello che si stava rivelando come un incredibile momento di tensione tra gli agenti e il loro protetto. Tim Giebels, caposcorta di Pence, aveva chiesto per due volte al vicepresidente di farsi portare via, ma Pence si era rifiutato. “Non lascio il Campidoglio”, aveva detto Pence a Giebels. Temeva che l’immagine del suo corteo di auto che lasciava il palazzo potesse dare un segnale di incoraggiamento agli insorti. Giebels glielo chiese per la terza volta, alle 2:26, e a quel punto era un ordine: “Sono dentro il palazzo”, disse l’agente speciale a Pence. “La stanza in cui si trova lei non è più sicura. Ci sono finestre con i vetri. Devo portarla via. Lo farò”.
Il vicepresidente, i suoi familiari e gli assistenti furono portati attraverso un percorso sicuro giù per le scale fino a un’area protetta nei sotterranei, dove i rivoltosi non sarebbero potuti arrivare. Lì era parcheggiata la limousine blindata di Pence e Giebels gli chiese di salirci. “Tim, non salgo in macchina”, gli rispose Pence. “Mi fido di te, Tim, ma tu non guiderai quell’auto. Se salgo, voi vi mettete in moto. Io non salgo su quell’auto”. Il vicepresidente e il suo entourage raggiunsero una zona sicura nei sotterranei del Campidoglio, dove avrebbero atteso che la rivolta si placasse.
Nel frattempo, l’assistente di Pence, Jacob, aveva ricevuto un’email da Eastman, l’avvocato che stava facendo consulenza a Trump su come sovvertire il risultato elettorale. Accusava il vicepresidente di essere la causa delle violenze perché si rifiutava di bloccare la ratifica della vittoria di Biden.
Eastman, che aveva messo su una “unità di crisi” nelle stanze del Willard hotel insieme a Rudy Giuliani e ad altri legali di Trump, aveva scritto a Jacob, che nel frattempo si stava nascondendo dai rivoltosi con Pence e gli altri membri dello staff: “Questo ‘assedio’ avviene perché TU e il tuo capo non avete fatto quel che dovevate per rendere tutto questo pubblico, in modo che il popolo americano potesse vedere con i propri occhi ciò che stava accadendo”.
Eastman disse che il suo messaggio era una risposta a un’email in cui Jacob gli aveva detto che a causa dei suoi consigli legali “del c….” Pence e il suo team si trovavano adesso “sotto assedio”.
I presidenti di Senato e Camera erano stati anch’essi evacuati dalla polizia del Campidoglio e condotti in località segrete. Ma molti parlamentari erano rimasti in aula per alcuni minuti prima di venire condotti al sicuro nel palazzo Hart, dove hanno sede gli uffici del Senato. Il senatore Lindsey Graham si infuriò all’idea che i senatori fossero costretti a lasciare la propria aula. Si mise a gridare contro il sergente d’armi del Senato (un funzionario di nomina elettiva incaricato di mantenere l’ordine durante le sedute, ndt). “Che state facendo? Fate rientrare i senatori! Avete le armi. Usatele”. Il senatore della South Carolina fu molto chiaro. “C’è un motivo per cui avete le armi”, ripeté. “Usatele”.
Il capo della commissione Intelligence del Senato, il senatore democratico della Virginia Mark Warner, chiamò il vicedirettore dell’Fbi, David Bowdich – lo stesso funzionario che appena due giorni prima aveva assicurato a Warner che l’Fbi aveva sotto controllo la questione 6 gennaio. Warner era furibondo con Bowdich e gli chiese di venire immediatamente in Campidoglio per informare i membri della commissione Intelligence, che se ne stavano rannicchiati negli uffici del palazzo Hart. Bowdich rispose che non poteva, perché stava ancora coordinando le operazioni d’emergenza dell’Fbi. Più tardi, quello stesso giorno, Bowdich ebbe una conversazione privata con Warner, dopo che il caos era terminato. Ma ci sarebbero volute settimane perché il loro rapporto si ricucisse.
30 minuti dopo
Moltissimi parlamentari si trovavano ancora all’interno dell’aula della Camera, preoccupati e incerti sul da farsi. Molti persero rapidamente coraggio quando videro gli agenti della polizia del Campidoglio che erano insieme a loro cominciare a cercare affannosamente chi di loro avesse le chiavi per chiudere le porte dall’interno. “Sembrava ne sapessero meno di noi su quel che stava accadendo”, disse Jayapal, la deputata democratica di Washington. “Nessuno si sentiva protetto, ma eravamo bloccati lì dentro”.
Il cappellano della Camera cominciò a pregare ad alta voce. Un agente disse che lo schienale dei sedili dei parlamentari è antiproiettile e che se i rivoltosi fossero riusciti a fare irruzione nell’aula, loro si sarebbero dovuti nascondere lì dietro. “Se necessario, accucciatevi sotto le sedia”, disse il poliziotto. “State pronti. Mantenete la calma”.
La polizia del Campidoglio chiese ai parlamentari di indossare le maschere antigas perché fuori stavano lanciando lacrimogeni. L’ordine fu accolto da una schiera di sguardi attoniti perché i membri del Congresso non erano stati addestrati a usare le maschere antigas. Alcuni di loro non sapevano neanche dove si trovassero le maschere. Il deputato democratico della Califormia Raul Ruiz, medico di pronto soccorso, aiutò Wild, la deputata della Pennsylvania, a rompere la cerniera, rimuovere la protezione di stagnola dentro la busta e prendere la maschera. Il deputato repubblicano dell’Arizona Paul Gosar, un accolito di Trump che subito prima dell’attacco aveva sollevato obiezioni sulla ratifica dei risultati dell’Arizona, aveva difficoltà con la sua maschera, e così la collega Liz Cheney gli andò vicino e lo aiutò a tirarla fuori dalla busta e a indossarla.
Cheney si imbatté anche nel deputato repubblicano dell’Ohio Jim Jordan, un altro sostenitore di Trump che aveva cercato di sovvertire il risultato delle elezioni. Lui le disse: “Dobbiamo far uscire le signore da questa ala. Lascia che ti aiuti”. Cheney gli rispose: “Stai lontano da me. Siete voi i f….ti colpevoli di tutto questo”.
In aula scoppiò il caos mentre i poliziotti cominciavano a urlare contro i rivoltosi che stavano battendo sulle porte subito sotto le gallerie. “Sdraiatevi a terra”, ordinarono gli agenti ai deputati, che si abbassarono di corsa e cominciarono a strisciare verso le uscite.
Alle 2:44 si sentì uno sparo risuonare dagli androni. Un agente della polizia del Campidoglio aveva ucciso Ashli Babbitt mentre tentava di forzare le porte che davano sull’aula della presidenza, adiacente all’aula della Camera. All’interno dell’aula, i parlamentari pensarono al peggio e si resero conto all’improvviso che l’orda avrebbe potuto travolgere anche loro. Jayapal pensò che i rivoltosi stessero sparando dentro l’aula.
La deputata democratica del Delaware Lisa Blunt Rochester consolava la sua amica Val Demings, democratica della Florida. Si misero a pregare insieme. Terri Sewell, deputata democratica dell’Alabama, chiamò sua madre.
Capita la gravità della situazione, il deputato democratico del Michigan Daniel Kildee chiamò la sua famiglia e cominciò a dire addio ai suoi cari. C’era la possibilità che non ne sarebbe uscito vivo. Kildee ha poi detto che l’esperienza gli ha causato un profondo trauma.
Quando Wild guardò di nuovo il telefono ci trovò decine di messaggi da suo figlio e da sua figlia che stavano guardando i notiziari da casa. Si sorprese capace di fare una chiamata su FaceTime ai suoi ragazzi di 28 e 25 anni. Suo figlio le chiese: “Come puoi dirci che stai bene se riusciamo a sentire da qui i colpi di pistola e i vetri che vanno in frantumi?”. Dopo aver riattaccato con i suoi figli, Wild si fissò sull’idea che avrebbe potuto morire e diventare una “fonte di preoccupazione” per i suoi figli. Disse a sé stessa: “Susan, ce la farai a uscire di qui. Uscirai di qui perché i tuoi figli hanno bisogno che tu ce la faccia”. Poco dopo Wild era stesa a terra. Il deputato democratico del Colorado Jason Crow le teneva la mano.
All’improvviso, dal lato opposto alle porte più vicine a dove si erano rifugiati i deputati cominciarono dei forti rimbombi. In Jayapal scattò l’istinto di sopravvivenza e impugnò il bastone che l’aiuta a camminare con la mano destra, la più forte, in modo da poter colpire chiunque le venisse vicino. “Cominciavo a pensare di poter morire”, disse. “E se fosse successo non sarei morta senza lottare”.
I deputati cominciarono a discutere su dove andarsi a mettere nel caso in cui la folla avesse abbattuto le porte. Crow propose che tutti i parlamentari si togliessero le spillette identificative in modo che i rivoltosi non potessero individuarli come i politici che volevano uccidere. Ma togliersi la spilletta non sarebbe bastato a proteggere tutti. Anche se erano tutti in pericolo, a rischiare più degli altri erano i parlamentari di colore, la cui identità li rendeva un obiettivo ben visibile per quella massa quasi completamente bianca.
“Molti di noi non possono nascondere il proprio aspetto”, ha detto Jayapal. “Non possiamo correre a nasconderci in mezzo a un gruppo di repubblicani, e non possiamo semplicemente toglierci la giacca per mischiarci in una folla di bianchi, il che stava diventando una dinamica sempre più evidente man mano che vedevano levarsi bandiere confederali con degli orribili messaggi razzisti”.
E man mano che i rivoltosi si facevano largo nell’aula della presidenza erano sempre più evidenti il loro odio e il loro infervoramento. Quando l’agente della polizia del Campidoglio Harry Dunn intimò loro di lasciare il palazzo, qualcuno gli urlò: “Ci ha invitato il presidente Trump!”. “Nessuno ha votato per Biden!”. In uno slancio politico raro per il suo lavoro, Dunn rispose: “Io ho votato per Joe Biden. Il mio voto non conta? Sono nessuno?”.
A quel punto i rivoltosi cominciarono a lanciare epiteti razzisti contro Dunn, che è nero. “L’avete sentito ragazzi?”, disse una donna. “Questo n…gro ha votato per Joe Biden!”. Una ventina di persone cominciarono a urlare: “Boo! F…tuto n…gro!”.
45 minuti dopo
Le autorità di pubblica sicurezza erano in difficoltà. Nelle settimane precedenti al 6 gennaio, man mano che all’Fbi arrivavano segnali crescenti delle minacce di violenza dai forum online dell’estrema destra e dai canali dei social media, Bowdich, il vicedirettore dell’agenzia, aveva deciso di predisporre tre unità tattiche pronte all’azione – una squadra di teste di cuoio a Washington, una di Baltimora dislocata appena fuori il distretto, e un team specializzato in soccorso di ostaggi a poca distanza. Quel giorno arrivarono tutti al Campidoglio, ma erano squadre piccole, specializzate, non il genere di dispiegamento di forze necessario per fronteggiare la marea di una rivolta.
“I nostri agenti dell’Fbi possono essere dei contabili, dei legali, dei chimici”, ha detto l’ex portavoce del dipartimento di Giustizia Marc Raimondi. “Non sono addestrati a fronteggiare un tumulto o un congestionamento del traffico. Ovviamente è gente versatile, ma se ti affidi al dipartimento di Giustizia come risposta rapida contro una rivolta, qualcosa è andato decisamente storto”.
Il ministro della Giustizia Jeffrey Rosen, il più alto in grado tra le autorità di pubblica sicurezza, era solo nel suo ufficio. Aveva dato il permesso alla maggior parte del suo staff di lavorare da casa, immaginando che le chiusure delle strade, la manifestazione e l’allarme per possibili disordini avrebbe reso difficile raggiungere il centro città, oltre alle già esistenti preoccupazioni legate al coronavirus. Ma adesso, con l’assedio che montava, Rosen si trovò a far fronte a una valanga di telefonate, saltando avanti e indietro tra l’apparecchio sulla scrivania in una mano e il cellulare nell’altra.
La presidente della Camera Nancy Pelosi e il leader della minoranza in Senato Chuck Schumer, deputato democratico di New York, chiamarono Rosen dal luogo protetto dove si erano rifugiati, chiedendogli di inviare urgentemente dei rinforzi in Campidoglio. Rosen li rassicurò che aveva già dato ordine che tutti gli agenti federali nelle vicinanze accorressero sul posto. “Chiami il presidente!”, urlò Schumer a Rosen. “Gli dica di richiamare i suoi! Gli dica di twittare che si devono fermare!”.
Rosen – che appena qualche giorno prima aveva respinto un tentativo di Trump di licenziarlo per sostituirlo con un funzionario fedele che avrebbe assecondato le folli accuse del presidente sulle frodi elettorali – riteneva improponibili gli appelli di Schumer. Quel giorno Rosen parlò con degli alti funzionari della Casa Bianca, tra cui il consigliere Pat Cipollone, ma mai con il presidente.
Frustrati dalle risposte a loro avviso troppo deboli di Rosen alle loro richieste, Schumer e Pelosi diffusero un comunicato congiunto in cui facevano urgente richiesta a Trump di richiamare i rivoltosi.
Alcuni parlamentari che non erano riusciti a raggiungere Rosen cominciarono a chiamare chiunque conoscessero che avesse lavorato al dipartimento di Giustizia – qualsiasi cosa pur di sentire una voce all’altro capo del filo e chiedere aiuto. E a volte era difficile per gli alti funzionari del dipartimento capire dalle immagini caotiche che passavano in televisione cosa stesse davvero accadendo. Il numero due di Rosen, Richard Donoghue, andò in Campidoglio per cercare di capire meglio la situazione e per coordinarsi con i parlamentari e le forze di sicurezza.
Contemporaneamente, erano in corso conference call urgenti tra polizia, esercito, funzionari comunali e parlamentari. Prima delle 2 del pomeriggio, il capo della polizia del Campidoglio Steven Sund aveva chiamato il maggior generale William Walker, comandante della Guardia nazionale di Washington, chiedendo aiuto immediato. Walker aveva passato la richiesta al Pentagono, dove solo il ministro della Difesa Christopher Miller avrebbe potuto dare il via libera. Ma mezz’ora dopo non era ancora arrivata alcuna approvazione. Alle 2,30 circa, il capo dell’esercito, Walter Piatt, disse che sconsigliava dal punto di vista militare l’intervento della Guardia nazionale. Sostenne che l’immagine di soldati che circondavano il Campidoglio avrebbe fatto una brutta “impressione”. Più tardi Piatt testimoniò che l’esercito non aveva respinto le richieste. L’arma voleva semplicemente che venisse adottato un piano ben definito prima di compiere quello che i vertici ritenevano un passo molto grave, con lo spiegamento in Campidoglio di uomini armati della Guardia nazionale.
Intanto il ministro Miller, il capo di stato maggiore, generale Mark Milley, e il segretario all’Esercito Ryan McCarthy si stavano consultando al Pentagono su come mobilitare la Guardia nazionale.
Prima delle 3, in aiuto della ormai sovrastata polizia del Campidoglio arrivarono in soccorso unità di forze di sicurezza federali e delle zone circostanti. I membri di un’unità antisommossa altamente specializzata della polizia di Washington ordinarono a un autobus delle linee metropolitane di Washington di avvicinarsi al Campidoglio. Agenti della contea di Prince George, nel Maryland, arrivarono per aiutare a riprendere il controllo del lato nord della West Terrace, mentre i poliziotti delle contee di Montgomery e Arlington, in Virginia, issarono una scala sul lato ovest del palazzo. Gli agenti della polizia di stato della Virginia affrontavano i rivoltosi sotto le balconate del mezzanino sul lato ovest.
Alle 2:52 arrivarono in Campidoglio le prime teste di cuoio dell’Fbi. In totale 520 agenti federali da un miscuglio di organismi diversi avevano risposto a una richiesta urgente di aiuto in Campidoglio da parte del ministero della Giustizia. Si era supplito con grandi numeri alla mancanza di gestione della crisi.
Poco dopo le 3 del pomeriggio, in assenza del ministro Miller, McCarthy approvò a voce la totale mobilitazione della Guardia nazionale di Washington. Ma i membri della Guardia nazionale in servizio erano poche centinaia e privi di direttive, così la polizia dovette continuare a fronteggiare da sola i rivoltosi. Alcuni militari della Guardia nazionale che erano già in servizio in altri punti della città, con i cappellini mimetici e privi di attrezzature di protezione visto che erano stati inviati in una missione di rischio limitato, già prevista e concordata da tempo con l’ufficio del sindaco Muriel Bowser, vennero richiamati nella caserma di Washington, per prepararsi all’intervento.
60 minuti dopo
Sempre verso le 3, Paul Hodgkins, che aveva visto Trump parlare sul parco dell’Ellipse, si fece largo verso quella che poi capì essere l’aula del Senato. La polizia aveva chiuso a chiave le porte, ma per sbaglio ne aveva lasciata aperta una che dava sulla galleria, e alcuni dei rivoltosi la usarono per entrare. Dal vero l’aula sembrava più piccola di come appariva in televisione. Dentro c’era una ventina di altri sostenitori di Trump. “Ragazzi, per favore non sfasciate niente qui dentro”, disse Hodgkins ai suoi compatrioti.
Hodgkins passò tra i banchi dei senatori e si fece un selfie per documentare la propria presenza in quello che gli appariva come un momento irripetibile della sua vita. “Mi sembrava di sognare”, disse.
Hodgkins arrivò fin alla cavea dell’aula, imbracciando la bandiera di Trump proprio accanto al banco in cui Mike Pence era seduto appena 40 minuti prima per ratificare la vittoria di Biden. “Preghiamo in questo spazio sacro”, dichiarò, mentre gli altri uomini chinavano il capo, lo “sciamano di QAnon” Jacob Anthony Chansley, che se ne stava dietro al banco con un megafono in pugno, a torso nudo e con la faccia dipinta. “Grazie, padre celeste, per averci fatto la grazia di questa opportunità… Grazie, padre celeste, per averci dato la possibilità di difendere i nostri diritti divini e inalienabili… Grazie per aver riempito quest’aula di patrioti che amano te e Cristo…”.
Hodgkins si batté due volte il petto con la mano destra, mentre con la sinistra afferrava la bandiera. La issò in segno di omaggio mentre la preghiera terminava e il gruppo diceva: “Amen”.
Il fatto che Trump avesse rifiutato di fermare l’assedio e le sue reiterate offese a Pence erano oggetto di discussione tra i parlamentari repubblicani, alcuni dei quali in privato si dicevano sconvolti dalla totale assenza d’empatia da parte del presidente verso il suo numero due. “Non avevano fatto niente per impedirlo, però era una cosa che li disgustava”, ha osservato un deputato repubblicano descrivendo un sentimento comune a molti dei suoi colleghi.
Alcuni parlamentari repubblicani tentarono di raggiungere Trump, nella speranza di convincerlo a dire ai suoi sostenitori che dovevano tornare a casa. Alla Casa Bianca arrivarono decine di telefonate da parlamentari che imploravano Trump di far ritirare la folla. Molti ribadivano la propria fedeltà al presidente, e alcuni promisero persino che non avrebbero ratificato il risultato elettorale, ma raccontarono di come si stessero nascondendo insieme al proprio staff negli uffici, sotto le scrivanie, e di aver visto gente che infrangeva i vetri delle finestre e urlava di voler uccidere i politici.
Lindsey Graham, il senatore della South Carolina che era uno degli amici più intimi di Trump al Congresso, chiamò più volte Ivanka Trump dando dei suggerimenti su quel che il presidente avrebbe potuto dire. “Dovete far uscire di qui questa gente”, disse Graham alla figlia del presidente. “Questa cosa sta andando fuori controllo. Si mette male. Dovete dire a queste persone di ritirarsi. Fateli andare via”.
Quel pomeriggio il presidente non rispose alla maggior parte delle telefonate e ricevette solo pochi dei suoi consiglieri. Alcuni di loro discutevano su cosa – o persino se – Trump avrebbe dovuto twittare a proposito della rivolta, ma lui chiarì di non sentirsi responsabile e che i suoi sostenitori non avrebbero mai causato una tale violenza.
A un certo punto, il consigliere per la Sicurezza nazionale di Pence, Keith Kellogg, disse a Trump: “Deve twittare qualcosa… Una volta che la folla si è messa in moto non la si può fermare. E’ difficile riprendere il controllo quando la marea è montata. Ma deve affrontare la situazione, dica qualcosa”.
Alcuni membri dello staff si radunarono nella zona subito fuori lo Studio ovale, dove c’era la scrivania della segretaria di Trump, nella speranza che il presidente li facesse entrare e chiedesse loro consiglio. Ma Trump non era seduto al Resolute desk. Era rintanato nella sua sala da pranzo privata, dove era costantemente accesa la televisione, e i suoi consiglieri non volevano disturbarlo lì.
L’ex governatore del New Jersey Chris Christie, amico e confidente di Trump, tentò invano di parlare con il presidente, e così provò a fargli arrivare un messaggio attraverso la televisione. Chiamò la trasmissione di George Stephanopoulos che era in diretta sulla Abc. Anche due consigliere della Casa Bianca che si erano appena dimesse, l’ex consulente Kellyanne Conway e l’ex responsabile delle comunicazioni Alyssa Farah, inviarono messaggi a Trump attraverso degli intermediari.
Farah chiamò e mandò dei messaggi al suo ex capo Mark Meadows, praticamente implorando il chief of staff della Casa Bianca di rilasciare lui una dichiarazione o un messaggio televisivo se proprio il presidente non voleva farlo. Scrisse in un messaggio: “Se nessuno dice niente, qualcuno morirà”. Meadows non rispose.
Un consigliere del sindaco Bowser chiamò Conway riferendole che il comune di Washington aveva chiesto la mobilitazione della Guardia nazionale, e che erano preoccupati che l’Amministrazione Trump si opponesse, sperando che lei potesse aiutarli. Il sindaco chiamò anche Meadows sollecitando l’invio della Guardia nazionale.
Fin da quando i rivoltosi avevano rotto le barricate fuori dal Campidoglio, alcuni dei consulenti più fidati del presidente – tra cui sua figlia e Meadows – avevano cercato di convincerlo a dare l’ordine di ritirata ai suoi sostenitori. (segue nell’inserto VI)
Pensavano che il suo tweet delle 2:38 in cui diceva alla gente: “Siate pacifici!” non avesse colto nel segno. “Per favore sostenete la nostra polizia del Campidoglio e le forze dell’ordine. Sono davvero dalla parte del paese. Siate pacifici!”.
Ivanka Trump faceva avanti e indietro tra il suo ufficio al secondo piano dell’ala ovest, dove stava guardando la rivolta in diretta televisiva, e la sala da pranzo del presidente, dove lui pure guardava la televisione.
Cercò di convincere suo padre a usare parole più incisive per porre fine all’insurrezione. Ma proprio quando pensava di averlo messo nella giusta predisposizione mentale, Meadows la chiamava per dirle che il presidente non era ancora convinto. “Devi tornare qui. Dobbiamo riprendere il controllo della situazione”, disse più volte Meadows a Ivanka Trump.
I tentativi di arrivare a Trump provenivano da tutte le parti. Negli stessi minuti il leader della minoranza repubblicana alla Camera, Kevin McCarthy, chiamava il presidente praticamente implorandolo di condannare la rivolta.
Alle 3:13 Trump twittò di nuovo, ma per chi gli stava intorno il messaggio risultò ancora inadeguato alla gravità della situazione. “Chiedo a tutti quelli che si trovano al Campidoglio di rimanere pacifici. Niente violenze! Ricordatevi, NOI siamo il Partito della Legge e dell’Ordine – rispettate la Legge e i nostri fantastici uomini e donne in divisa. Grazie!”.
Ivanka Trump ritwittò il messaggio di suo padre alle 3:15 e si rivolse ai rivoltosi come a dei “patrioti americani”. Dopo pochi minuti e una valanga di critiche, cancellò il messaggio. “Patrioti americani – qualsiasi violazione della sicurezza o mancanza di rispetto verso le nostre forze dell’ordine è inaccettabile. La violenza deve fermarsi subito. Per favore siate pacifici”.
Meadows e altri consiglieri erano riuniti per trovare il modo di convincere Trump a dire quel che tutti pensavano dovesse essere detto. Jason Miller, uno dei massimi consiglieri di Trump, abbozzò due tweet con lo stile di Trump. Sperava che il presidente accettasse di pubblicarne uno. “Le mele marce, come gli Antifa o altri pazzi sinistroidi, si sono infiltrati nelle proteste pacifiche di oggi contro le frodi elettorali. La violenza non è mai accettabile! I sostenitori di MAGA devono obbedire alla nostra polizia e alla legge e lasciare subito il Campidoglio!”. E ancora: “I media fake news che hanno incitato le rivolte violente e radicali di quest’estate ora stanno cercando di addossare la colpa di azioni violente ai pacifici e innocenti sostenitori di MAGA. Noi non siamo così! La nostra gente deve andare a casa e lasciare che i criminali subiscano le conseguenze!”.
Entrambe le dichiarazioni erano bellicose e distorcevano la realtà sviando le vere responsabilità della rivolta, ma comunque incitavano i suoi sostenitori a mettere fine all’insurrezione. Trump non ne inviò nessuno. Quel che faceva, invece, era rimuginare sulle sue recriminazioni: su quello che vedeva come il tradimento di Pence, sui media che incolpavano lui e i suoi sostenitori delle morti e della distruzione che stavano avvenendo nel Campidoglio e, soprattutto, sul fatto che il suo tentativo definitivo di rovesciare i risultati elettorali stava per fallire.
La seconda ora
Era ormai volato via tutto il pomeriggio, con i rivoltosi che si spingevano all’interno del Campidoglio in numero sempre più elevato e con ferocia crescente. Gina Bisignano, proprietaria di un centro estetico in California, a Beverly Hills, incitava dal megafono la folla violenta. A un certo punto disse: “Gente, ci servono maschere antigas! Ci servono le armi. Ci servono patrioti forti e arrabbiati che diano una mano ai nostri ragazzi. Quelli non vogliono andarsene”.
E aggiunse: “Non ci toglierete il nostro Trumpy-bear! (l’orsacchiotto commemorativo della presidenza Trump, ndt) Non ci toglierete i nostri voti e la libertà per la quale sono morti i nostri uomini”.
Più tardi Bisignano sostenne che le violenze di quel giorno furono istigate dagli Antifa travestiti da sostenitori di Trump. Eppure c’era proprio lei lì ad incitarli, immortalata da un video. Bisignano disse poi anche di essere andata a Washington perché sosteneva Trump, credeva che gli avessero rubato le elezioni e non voleva essere una “perdente”.
Si erano ormai fatte le 4 del pomeriggio e le forze dell’ordine non avevano ancora ripreso il controllo del Campidoglio. I politici più alti in grado di Camera e Senato erano stati evacuati a Fort McNair, una caserma dell’esercito nel sud-ovest di Washington lungo il fiume Anacostia.
I leader più importanti rimasti nell’area del Campidoglio erano la repubblicana Liz Cheney e il capo del caucus democratico Hakeem Jeffries di New York, ed erano stati in costante contatto per tutto il pomeriggio. Cheney vide Jeffries davanti a un’aula di commissione messa in sicurezza sull’altro lato della strada rispetto al palazzo del Campidoglio. Sollevò la questione dell’impeachment di Trump. “Senti, dobbiamo cominciare a procedere”, disse alla sua controparte democratica. “Immediamente”.
Quando, alle 4:05, Biden apparve in televisione da Wilmington, in Delaware, Trump non aveva ancora parlato pubblicamente della crisi o dato indicazione ai suoi di smobilitare. I senatori dei due partiti guardavano il discorso dall’aula blindata all’interno del Campidoglio, e applaudivano. “Finalmente sentivamo di avere un leader che diceva quel che andava detto”, raccontò in seguito il senatore repubblicano Mitt Romney.
Dopo Biden, alle 4:17 Trump postò su Twitter un video delle proprie dichiarazioni sull’assedio. Aveva iniziato a registrarlo nel giardino delle rose prima che Biden parlasse, e i suoi consiglieri erano contrariati dal fatto che il democratico, avendo parlato per primo, fosse apparso più autorevole. Il messaggio di Trump era ambiguo. Cominciò il discorso ripetendo la menzogna dell’elezione truccata. Disse ai suoi sostenitori di “andare a casa” ma aggiunse immediatamente: “Vi vogliamo bene. Siete molto speciali”.
Durante la registrazione Trump non aveva seguito la traccia scritta per lui dai suoi speechwriter e ci vollero almeno tre tentativi prima di arrivare a una versione che i suoi consiglieri ritenessero sufficientemente decente da poter essere resa pubblica. “Era davvero la migliore fra tutte”, disse poi un membro dello staff della Casa Bianca.
Non appena le tv ebbero trasmesso il video di Trump, alle 4:27, un’ondata di rivoltosi attaccò la polizia che era a guardia delle arcate della West Terrace. La polizia cercava di aiutare un manifestante che era rimasto schiacciato vicino alle arcate quando un altro rivoltoso afferrò un poliziotto e lo fece cadere a terra. “Vaffa…”, urlò qualcuno al poliziotto. “Ti ammazzo c…o!”.
Il poliziotto era steso con la schiena a terra nel mezzo dell’arcata e cercava di respingere i colpi con un bastone. C’è un video che mostra Jeffrey Sabol arrivare all’improvviso con un casco in testa e strappare il bastone al poliziotto, che fu costretto così a difendersi con le sole mani.
Proprio in quel momento, un altro rivoltoso stava picchiando i poliziotti sotto l’arcata con una gruccia di metallo. Con la gruccia in mano, l’uomo salì su una piccola cancellata, afferrò un secondo poliziotto e lo tirò giù di testa per le scale e in mezzo alla folla. Sabol era proprio lì, con le mani sulla schiena del secondo poliziotto. Poi un terzo rivoltoso picchiò il secondo poliziotto con l’asta di una bandiera americana. Ci sono immagini dell’agente che giace a faccia in giù in mezzo alla folla.
Sabol è stato fotografato mentre preme sulla nuca del poliziotto inerme il bastone rubato poco prima. Più tardi Sabol si sarebbe definito un “patriota guerriero” che stava difendendo il poliziotto dai suoi compagni insorti. Ma disse di non ricordare se a colpire il secondo poliziotto era stato proprio lui perché – dicono i verbali del tribunale – “era preso da un attacco di rabbia e i dettagli sono confusi”. I legali di Sabol sostennero in seguito in un ricorso che l’uomo “nega con veemenza” di aver colpito il poliziotto con il bastone. Anche l’agente a cui Sabol aveva rubato il bastone fu trascinato verso la folla, dove gli venne strappato il casco, fu picchiato e calpestato. Gli furono poi applicati dei punti di sutura alla testa.
Al dipartimento di Giustizia, Rosen stava guardando dagli schermi tv le immagini delle violenze. Era orripilato dalle devastazioni fisiche e morali che si stavano scatenando contro una delle più importanti istituzioni americane.
Le ultime ore
Poco alla volta, gli agenti della polizia del Campidoglio e i loro rinforzi fecero qualche progresso nel contenere le violenze e controllare gli insorti. Pence era al sicuro nel suo nascondiglio sotterraneo, insieme con il suo chief of staff Marc Short che quella sera chiamò Meadows per avvertirlo che il vicepresidente intendeva continuare con la certificazione dei risultati elettorali non appena il Campidoglio fosse stato completamente messo in sicurezza e il Congresso si fosse di nuovo riunito. “Penso sia la cosa giusta da fare”, rispose Meadows a Short.
Né Pence né Short parlarono con Trump quel giorno, e l’unico a comunicare con il presidente fu il capo della minoranza della Camera, Kevin McCarthy. “A cosa sarebbe servito?”, disse uno dei consiglieri dell’allora capo della maggioranza in Senato, il repubblicano del Kentucky Mitch McConnell. “Trump non sarebbe stato d’aiuto”.
Alle 4:32 l’esercito ebbe dal ministro della Difesa Miller il via libera a mobilitare in Campidoglio la Guardia nazionale. Erano passate oltre due ore dalle prime richieste in questo senso. Alle 5:40 circa 150 membri della Guardia nazionale di Washington arrivarono a sostenere l’operazione di difesa e fu imposto un coprifuoco in tutta la città a partire dalle 6 del pomeriggio. Ma nei dintorni del Campidoglio continuavano gli scontri tra polizia e rivoltosi.
Trump si fece di nuovo vivo alle 6:01 con un altro tweet che, proprio come il video dal giardino delle rose, ripeteva ancora la bugia delle frodi elettorali e diceva ai “grandi patrioti” di “andare a casa in pace e amore”. “Queste sono le cose e gli eventi che capitano quando un sacrosanto trionfo elettorale viene strappato così bruscamente e crudelmente dalle mani dei grandi patrioti che troppo a lungo sono stati trattati male e ingiustamente. Andate a casa in pace e amore. Ricordate per sempre questo giorno!”.
I video e i tweet di Trump fecero infuriare alcuni repubblicani del Congresso, anche quelli più fedeli come McCarthy e Graham. “Quello fu un pessimo tweet”, è stato il commento di Graham al messaggio che di fatto giustificava quel che era accaduto quel giorno.
Alle 6:14 la polizia e la Guardia nazionale misero in sicurezza un perimetro intorno all’ala ovest del Campidoglio e alle 7 gli agenti dell’Fbi e dell’Atf avevano finito di controllare gli interni del palazzo, andando stanza per stanza alla ricerca di insorti, armi o altre minacce per la sicurezza. Bowdich comandava la squadra dell’Fbi su un lato dell’edificio mentre Richard Donoghue, l’alto funzionario del dipartimento di Giustizia, guidava gli uomini dell’Atf nell’altra ala. Quando si incontrarono al centro fecero una breve chiamata con Pence, Miller e i leader del Congresso. McConnell e McCarthy non dissero nulla e Pence rimase praticamente in silenzio. In quella telefonata il vicepresidente disse soltanto una parola: “Grazie”.
Il Campidoglio fu finalmente messo in sicurezza. Il capitano della polizia del Campidoglio Carneysha Mendoza poteva finalmente rilassarsi. Seduta su una panca nella Rotonda, si guardò intorno e ripensò a quel che era accaduto. C’erano gruppetti di poliziotti sparsi per la sala. Avevano tutti un’aria sconfitta. Il fitbit di Mendoza registrava l’equivalente di quattro ore consecutive di allenamento – a riprova degli sforzi estremi che lei e gli altri agenti avevano dovuto sostenere.
Pence e i senatori tornarono in aula poco prima delle 8 per riprendere da dove avevano interrotto. Graham prese da parte Pence e gli disse: “Stai facendo la cosa giusta. Sono orgoglioso di te”. I due si abbracciarono. Visibilmente emozionato per il trauma di quella giornata, Pence battè il martelletto per riconvocare la seduta del Senato alle 8:06 di sera.
Quando fu il turno di Graham, il repubblicano della South Carolina si accalorò descrivendo Trump come un amico che si era allontanato, anche se solo per un momento.
Persino adesso che il Senato era tornato in funzione, le pressioni su Pence non si erano allentate. Eastman, l’avvocato consigliere di Trump, inviò verso le 9 di sera un’email al consigliere di Pence, Jacob, cercando di convincere il vicepresidente a decidersi a non ratificare il risultato delle elezioni.
In passato, Pence e il suo team avevano citato l’Electoral Count Act, la legge che stabilisce le procedure costituzionali per il conteggio dei voti nelle elezioni presidenziali, come il motivo per cui non sarebbe stato possibile rimandare agli stati la questione dei grandi elettori. Ma nell’email a Jacob, Eastman sosteneva che Pence non aveva obbedito alla lettera a quella legge perché aveva permesso che il dibattito proseguisse oltre i tempi consentiti – e di conseguenza avrebbe potuto disobbedire di nuovo respingendo i grandi elettori dell’Arizona. Jacob disse ai suoi di essere rimasto esterrefatto per quell’email e la ignorò. Non rispose a Eastman. Pence continuò a presiedere alla conta dei voti.
Per James Lankford, il trauma di quella giornata determinò un drastico cambiamento. Il repubblicano dell’Oklahoma, che per un decennio era stato direttore di un centro giovanile della chiesa battista, era uno dei 12 senatori che si erano inizialmente opposti alla ratifica dei voti provenienti dagli stati chiave. Ma dopo che il suo discorso in aula contro la conta dell’Arizona era stato interrotto dall’evacuazione forzata a seguito dell’irruzione in Senato, e dopo aver trascorso il pomeriggio a nascondersi dai saccheggiatori violenti, Lankford aveva cambiato idea. Votò per certificare il risultato. Alla fine, furono solo sei i senatori che obiettarono alla conta dell’Arizona e sette quelli che si opposero ai risultati della Pennsylvania.
Raccontò Lankford che dei 12 senatori che si erano inizialmente opposti alla ratifica, “dopo la rivolta sei rimanevano ancora di quell’idea e dicevano: ‘insistiamo ancora’. Gli altri sei, tra cui io, dicevano: ‘Non riusciremo mai a vincere questo dibattito. Già siamo solo in 12, e ora chiaramente con quello che è successo in Campidoglio oggi non potrà andare molto meglio. Dobbiamo trovare un modo per unificare il paese”.
Andò diversamente con il Partito repubblicano della Camera. Alle 9:02 Nancy Pelosi riconvocò la seduta della Camera. Con tutto quel che era accaduto, dopo le morti e le devastazioni, quasi due terzi del gruppo repubblicano – 121 membri – votarono contro il conteggio dell’Arizona. Ancora di più, 138 membri, votarono contro quello della Pennsylvania.
Concluse le operazioni nelle rispettive aule, i senatori riconfluirono nell’aula della Camera per riprendere la seduta congiunta. Alle 3:24 del mattino, il Congresso votò la ratifica del risultato elettorale. Pence, che presiedeva la seduta, proclamò formalmente Joe Biden come nuovo presidente degli Stati Uniti. Prevedendo che sarebbe stata una giornata complicata, già prima del 6 gennaio Pence aveva specificamente richiesto che il cappellano del Senato Barry Black concludesse la seduta con una preghiera. E così, alle 3:41 del mattino, il contrammiraglio della Marina in pensione Black salì sul podio per pronunciare una preghiera davanti a un organo legislativo ancora scosso dagli eventi di quella lunga giornata. E mentre i parlamentari chinavano il capo in silenzio, e con Pence in piedi alla sua destra, Black diede voce alle emozioni di tutti. “Deploriamo la profanazione del palazzo del Campidoglio degli Stati Uniti, il sangue innocente versato, la perdita di vite e l’ingorgo disfunzionale che minaccia la nostra democrazia”, disse Black.
E poi pronunciò una condanna inequivocabile della campagna che per settimane aveva infettato il corpo politico con bugie e disinformazione sulle elezioni. “Queste tragedie ci ricordano che le parole sono importanti”, disse Black. “E che il potere di vita e di morte è nella lingua”.
Hannah Allam, Devlin Barrett, Aaron C. Davis, Josh Dawsey, Amy Gardner, Shane Harris, Rosalind S. Helderman, Paul Kane, Dan Lamothe, Carol D. Leonnig, Nick Miroff, Ellen Nakashima, Ashley Parker, Beth Reinhard, Philip Rucker.
Craig Timberg
traduzione di Raffaella Menichini e di Alessia Manfredi - Copyright Washington Post
(3 - continua)
Cosa c'è in gioco