La nuova normalità
La Cina sempre più aggressiva preoccupa America e Giappone
Pechino ha annunciato la fine dell'esercitazioni militari intorno a Taiwan, ma restano i timori che la pressione nei cieli e nelle acque intorno all’isola non si fermerà
Bangkok. Annunciando la conclusione delle imponenti esercitazioni militari intorno a Taiwan e che “ogni missione è stata completata con successo”, ieri l’Esercito popolare di Liberazione ha anche confermato i timori che la pressione di Pechino nei cieli e nelle acque intorno all’isola non si fermerà. “Le forze armate continueranno a tenere d’occhio i cambiamenti nello Stretto di Taiwan, a svolgere attività di addestramento e preparazione al combattimento, a organizzare pattugliamenti regolari, a difendere in modo risoluto la sovranità nazionale e l’integrità territoriale”. Come già notavano gli analisti a Washington, a Taipei, a Tokyo e nelle altre capitali della regione, la leadership della Repubblica popolare potrebbe voler sfruttare questa crisi come un pretesto per modificare lo status quo, oltrepassare alcune linee rosse e “normalizzare” la propria presenza sempre più vicino all’isola.
Dopo la prima visita a Taiwan di uno speaker del Congresso americano in un quarto di secolo, nei giorni scorsi le Forze armate della Repubblica popolare hanno lanciato esercitazioni militari a “fuoco vivo” senza precedenti intorno a Formosa. Mentre l’esercito cinese simulava un attacco e un blocco dei collegamenti con Taiwan – un modo con cui Pechino può rivendicare di avere il controllo sull’isola, anche senza la necessità di un’invasione – decine di navi da guerra e di aerei militari oltrepassavano la linea mediana dello Stretto: minando così un confine mai riconosciuto dalla Cina, ma che era stato disegnato alla metà degli anni Cinquanta per evitare incidenti.
In questi giorni alcuni missili di tipo DongFeng sono passati per la prima volta sopra i cieli Formosa e concluso la loro traiettoria nelle acque orientali dell’isola – cinque sono anche caduti nella Zona economica esclusiva del Giappone, a poche decine di chilometri dall’isola di Yonaguni, tra le proteste di Tokyo – mentre droni militari cinesi hanno sorvolato l’isola di Kinmen e l’arcipelago delle Matsu che sono sotto il controllo di Taipei, ma vicinissime alla provincia cinese del Fujian. Con l’obiettivo di minare il morale dei taiwanesi, la Repubblica popolare è anche tornata ad usare tattiche di disinformazione e di guerra ibrida. Secondo il ministero della Difesa di Taipei, sono circolate almeno 272 fake news e “informazioni dal contenuto controverso”. “L’Esercito popolare di Liberazione non ha invece violato le dodici miglia nautiche da Taiwan, jet militari non hanno sorvolato l’isola, non è stata mobilitata la guardia costiera che avrebbe avuto un ruolo chiave in caso di blocco effettivo”, notava su Twitter l’ex analista della Cia John Culver. “Questo potrebbe essere visto come un segno di moderazione da parte della Cina, ma anche come passi di un’escalation che si riservano di mostrare la prossima volta in modo ancor più minaccioso”.
Nel primo Libro bianco su Taiwan in oltre due decenni, i palazzi del potere di Pechino hanno ieri messo nero su bianco anche come dovrà essere la “riunificazione” dell’isola che non è mai stata governata dal Partito comunista cinese. Con molte parole e il solito linguaggio paludato, Pechino è tornata a spiegare che l’annessione di Taiwan “è indispensabile per la realizzazione del rinascimento della Cina” entro il 2049: l’espressione al centro della retorica di Xi Jinping fin dalla sua ascesa al potere e che promette di realizzare per il centesimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare cinese. Per gestire i rapporti con questa vibrante democrazia pluralista dell’Asia orientale, Pechino promette anche di usare la formula “un paese, due sistemi” che avrebbe già dovuto garantire “un alto livello di autonomia” a Hong Kong. Sappiamo come è finita. In una manciata di anni sono state calpestate tutte le libertà dell’ex colonia britannica, chiusi diversi media indipendenti, decine gli attivisti pro-democrazia dietro le sbarre e nelle scuole sono stati adottati programmi “patriottici”. Mentre i sondaggi evidenziano che solo l’11 percento dei taiwanesi sostiene l’unificazione tra i due lati dello Stretto, la Cina non ha escluso l’uso della forza per prendere l’isola anche se – si spiega nel Libro bianco – come “ultima risorsa”.
Descrivendo le esercitazioni militari della Repubblica popolare intorno a Taiwan come “salami slice” verso un nuovo status quo, il Pentagono ha però chiarito questa settimana di non vedere come imminente un’invasione dell’isola. “E’ chiaro”, ha spiegato Colin Kahl del Dipartimento della Difesa, “che Pechino sta cercando di creare una sorta di nuova normalità con l’obiettivo di mettere pressione su Taiwan e anche sulla comunità internazionale vista l’importanza dello Stretto per l’economia globale”. Esercitazioni lunghe e regolari nelle acque intorno a Taiwan minacciano infatti di avere ripercussioni per le congestionate rotte marittime tra l’Europa e le più grandi economie dell’Asia orientale. Secondo i dati Bloomberg, circa la metà dei container e l’88 per cento delle navi più grandi del mondo sono transitate per le acque strategiche dello Stretto dall’inizio dell’anno.
Negli ultimi mesi, più volte la Cina ha rivendicato “sovranità e giurisdizione” nello Stretto di Taiwan, sfidando così la posizione di Washington e degli alleati dell’America che definiscono quel corridoio marittimo come “acque internazionali”. Con il generale Douglas MacArthur che definiva Taiwan “una portaerei inaffondabile”, l’isola ha un valore cruciale nella difesa del Giappone, della Corea del sud e delle Filippine. E’ in questo contesto, che ieri il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha nominato – nell’ambito di un più ampio rimpasto del governo – il nuovo ministro della Difesa, Yasukazu Hamada, che a fine luglio era stato in visita a Taipei dove aveva incontrato, con altri parlamentari giapponesi, la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen. In passato, Hamada aveva anche enfatizzato l’importanza del Quad (il dialogo quadrilaterale tra le democrazie marittime dell’Indo-Pacifico: Stati Uniti, Giappone, India e Australia) per mandare “il giusto messaggio” a una Cina sempre più assertiva nella regione.