La centralità di Trump nella politica americana è dura a morire
Mai una simile polarizzazione è stata vissuta come questione di vita o di morte della nazione. Per i prossimi due anni, sarà un otto volante per la riconferma o l’abbattimento del totem rappresentato dall'ex presidente. Oltre Donald si è ormai generato il grande vuoto
Mentre giorno dopo giorno cresce la protesta attorno al raid dell’Fbi nella residenza e nel golf club di Donald Trump in Florida, il ministro della Giustizia Merrick Garland, ammettendo d’essere il promotore del provvedimento senza precedenti, ha inviato agli americani un messaggio chiaro: vi prego di credere, ha detto alla nazione, che se abbiamo agito così vistosamente, avevamo le ragioni necessarie a giustificare un’azione di tale gravità, vista l’emozione e la rabbia che ha destato sia tra i sostenitori che tra gli avversari dell’ex presidente.
Gli agenti spediti dal Dipartimento e dotati di mandato di perquisizione cercavano qualcosa che era stato ripetutamente richiesto a Trump e al suo staff, che non è mai stato riconsegnato agli Archivi di stato dove avrebbe dovuto essere conservato e che concerne informazioni altamente sensibili e potenzialmente pericolose per la nazione. Ovvero: siamo andati a cercare documenti che non stanno dove dovrebbero e che costituiscono una seria minaccia se finissero nelle mani sbagliate. Il Washington Post parla di dossier sul nucleare, ma intanto è già in atto la partita a scacchi tra gli emissari del mandato e chi l’ha ricevuto, ovvero il team Trump, su chi per primo deciderà di rendere pubblici i contenuti dell’atto giudiziario.
Sono prevedibili svariati colpi di scena a breve termine. Ma ciò che invece estende l’ombra di questo affare sul lungo termine, ovvero fino alle presidenziali 2024, è il dispiegarsi della drammaturgia di questa vicenda, i toni divisivi che ha assunto in un’opinione pubblica già straziata da rabbiose contrapposizioni e la sensazione di supremo affronto o di spallata finale assestati a Trump. Tutti motivi per cui, mai come adesso, l’ex presidente incarna il perfetto centro gravitazionale, l’unica bussola della scena politica americana, che a questo punto, semplicemente, non può più prescindere da lui. Non c’è candidatura, non c’è faccia nuova che tenga, non c’è Ron DeSantis o Liz Cheney (in odore di possibile annuncio di discesa in campo per la Casa Bianca): tutto è focalizzato, concentrato, iconizzato da Trump, dal mettersi dalla sua parte e dalla parte degli strepiti con cui invoca l’America di proteggerlo, o da quella di coloro ormai disposti a infrangere regole e convenzioni pur di non restituire il potere al più contraddittorio personaggio nella storia della politica Usa. Tutto il resto è contorno, il paese non parla d’altro, gli schieramenti s’infittiscono e s’incattiviscono.
Mai una simile polarizzazione è stata vissuta come questione di vita o di morte della nazione. Nemmeno il berlusconismo nella sua fase più acuta ha sfiorato una simile personificazione dello scontro, laddove in una singola figura sembrano convivere due profili antitetici al punto d’essere diabolicamente complementari. Per i prossimi due anni, sarà un otto volante di Trump sì-Trump no, un vivere e morire per la riconferma o l’abbattimento del totem. Oltre di lui si è ormai generato il grande vuoto, l’assenza di dibattito dell’idee. Questa teatralizzazione del martirio di Trump, il suo disperato all in nelle stesse ore in cui con disinvoltura si rifiuta di rispondere sui pasticci finanziari combinati nello stato di New York, sono la descrizione di un parossismo collettivo destinato a ricomporsi solo con la fragorosa esplosione che annienterà Donald Trump o lo trasformerà, una volta per tutte, nel Big bang politico dopo il quale è un mistero cosa attenda l’America.
Stefano Pistolini