Commemorazione dell'assassinio di JFK, Foto di Olycom  

Il foglio del weekend

American Tragedy. Il delitto a sfondo politico negli Stati Uniti

Marco Bardazzi

Torna il pericolo dell’omicidio eccellente. Un rischio alimentato dai toni della lotta tra repubblicani e democratici, mai così polarizzata. Il caso dell’attentatore al giudice Brett Kavanaugh e la sanguinosa scia dei precedenti, culminata con JFK

I nomi di Lee Harvey Oswald e John Hinckley li riconosciamo subito più o meno tutti, per la macabra notorietà che hanno acquisito uno sparando al presidente Kennedy e l’altro al presidente Reagan. Oswald è entrato nella Storia, perché l’ha cambiata, mentre Hinckley si è guadagnato al massimo una nota a piè di pagina nei racconti sugli anni Ottanta e molto più spazio nei trattati sulle malattie mentali. Il nome Nicholas John Roske invece non dice niente a nessuno. Eppure poteva entrare anche lui nella Storia criminale americana, con il triste primato di aver ucciso un giudice della Corte suprema. 

 

In un paese dove quattro presidenti su 46 sono stati ammazzati, due sono stati feriti gravemente e quasi tutti hanno corso pericoli o ricevuto innumerevoli minacce, e dove sono stati uccisi o feriti candidati alla Casa Bianca, leader dei diritti civili, senatori e deputati, giudici federali, l’attentato ai giudici della massima autorità giudiziaria mancava ancora all’elenco. L’8 giugno scorso per poco non ci è riuscito il ventiseienne Roske, che era volato dalla California al Maryland per uccidere Brett Kavanaugh, uno dei tre giudici nominati alla Corte suprema dall’ex presidente Donald Trump. Roske è stato arrestato davanti alla casa di Kavanaugh da agenti federali che la tenevano discretamente sotto sorveglianza. Con sé aveva una pistola Glock-17, un coltello da combattimento, spray al pepe e fascette di plastica per immobilizzare una persona. Dalle indagini è emerso che puntava a eliminare due, forse tre giudici della maggioranza conservatrice della Corte, per impedire loro di emettere la sentenza che ha cancellato il diritto costituzionale all’aborto (poi arrivata a fine giugno).

 

Con Roske le cose sono finite bene, ma il suo caso è l’ennesimo campanello d’allarme sul possibile ritorno dell’America a una sua antica e tragica tradizione: il delitto a sfondo politico. Negli ultimi anni ci siamo quasi assuefatti alla dolorosa catena di stragi nelle scuole e nei luoghi di culto americani, da parte di killer armati fino all’inverosimile. Ma la polarizzazione che sta vivendo il paese e l’irresponsabile “chiamata alle armi” dall’una e dall’altra parte come strumento di lotta politica, rischiano di moltiplicare il numero dei John Roske che girano per l’America. Assassini solitari alla ricerca non della strage indiscriminata, ma di un Hvt (High-Value Target, l’obiettivo ad alto valore, nel gergo militare e investigativo americano). E prima o poi qualcuno riuscirà a centrarlo.

 

Un promemoria di questo pericolo sempre presente negli Stati Uniti è stato, il 12 agosto, l’accoltellamento di Salman Rushdie durante un dibattito nel nord dello stato di New York. La matrice in questo caso è più vicina al terrorismo islamico, ma l’America nella sua storia criminale ha visto spesso mescolare politica, geopolitica e religione, nella confusione che quasi sempre domina la mente di chi decide di uccidere un personaggio importante. L’assassino di Robert F. Kennedy era un giovane palestinese, Sirhan Sirhan, che nel corso degli anni ha fornito varie versioni sul movente del proprio gesto, ma quasi sempre legate allo stato del conflitto israelo-palestinese in quel 1968 drammatico e carico di tensioni. Sirhan sta ancora scontando l’ergastolo in un carcere in California, ogni tanto qualcuno va a intervistarlo e nel tempo il movente si è fatto più banale: “Ero arrabbiato e ubriaco”, è la sintesi del non-motivo per cui decise di eliminare il candidato alla Casa Bianca e cambiare, ancora una volta, il corso della Storia. Il suo delitto spianò la strada all’elezione di Richard Nixon e a tutto quello che Nixon si è portato dietro.

 

Le tensioni e i timori di gesti violenti nelle ultime settimane sono andati crescendo. È di pochi giorni fa l’allarme lanciato dal direttore dell’Fbi Christopher Wray, che ha rivelato di essere stato minacciato di morte insieme ai suoi agenti dopo il blitz che le forze dell’ordine hanno compiuto nel resort di Trump in Florida, a Mar-a-Lago, alla ricerca di documenti forse sottratti illegalmente dalla Casa Bianca. Il continuo incitamento di Trump ai propri seguaci a colpire “nemici” come Wray (peraltro nominato dallo stesso presidente repubblicano) ha già avuto effetti clamorosi in passato, come l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. In quell’occasione l’obiettivo non era solo cercare di bloccare la formalizzazione della vittoria elettorale di Joe Biden. Come hanno dimostrato le audizioni della commissione d’inchiesta del Congresso, c’era chi puntava anche a un Hvt, al delitto politico eccellente: catturare e impiccare il vicepresidente Mike Pence, accusato di essere un “traditore”. 

 

Se Trump scalda gli animi a destra, anche la sinistra più radicale rischia di rendersi complice involontaria di una qualche tragedia, per come sta esasperando alcuni temi. Primo tra tutti l’aborto. Che la sentenza con cui è stata cancellata la storica decisione Roe v Wade (che garantiva il diritto costituzionale all’interruzione di gravidanza) abbia indignato molti, soprattutto nel fronte progressista, è naturale e legittimo. Ma l’intensità della reazione rischia di portare a casi estremi come quello del giovane Roske, convinto che fosse necessario farsi “giustizia da solo”. 
Le abitazioni private dei giudici conservatori della Corte, a Washington e dintorni, sono da settimane oggetto di picchettaggi e manifestazioni di protesta e sono controllate da un cospicuo apparato di sicurezza. Quanto sia alta la tensione, lo dimostra un episodio che riguarda anche l’Italia. Nei giorni scorsi l’estensore della sentenza sull’aborto, il giudice Samuel Alito, è stato a Roma per partecipare a un seminario organizzato dall’Università cattolica americana di Notre Dame. Nell’occasione, come aveva fatto in passato, ha approfittato anche per un giro nel sud Italia, sulle tracce delle proprie origini lucano-calabresi. In passato aveva fatto viaggi simili passando inosservato. Stavolta le autorità hanno deciso di affiancargli una decina di uomini e donne di scorta, tra personale della sicurezza americano e delle forze dell’ordine italiane. 

 

Il bersaglio principale delle ire dei killer solitari americani è sempre stato il presidente, per tutto quello che l’inquilino della Casa Bianca incarna come figura e come potere. Hollywood ha prodotto svariati film su complotti e uccisioni di finti presidenti, ma è una finzione cinematografica che si basa purtroppo sulla realtà. 

 

Quando gli Stati Uniti erano ancora giovani, nel 1835, ci fu il primo tentativo di eliminare a colpi di pistola un presidente in carica: si trattava di Andrew Jackson, che non è passato alla Storia come prima vittima presidenziale solo perché le armi dell’imbianchino Richard Lawrence, che voleva ammazzarlo all’uscita dal Capitol, si incepparono entrambe. E visto che Lawrence aveva scelto come vittima il presidente più irascibile che l’America abbia avuto prima di Trump, tutto quello che ne ricavò fu di essere mandato all’ospedale dallo stesso Jackson, che lo massacrò con il proprio bastone da passeggio. 

 

Non fallì invece nel 1865 John Wilkes Booth, autore di uno dei delitti politici più importanti della Storia: l’uccisione del presidente Abraham Lincoln, che aveva superato indenne vari tentativi di omicidio e vinto la Guerra civile. Simpatizzante della Confederazione del sud, sconfitta dai nordisti di Lincoln, Booth riuscì a infilarsi nel palco presidenziale di un teatro di Washington e a uccidere il presidente mentre assisteva a una rappresentazione. 
Altri due presidenti, James Garfield nel 1881 e William McKinley nel 1901, furono assassinati mentre erano in carica, prima di arrivare al delitto politico più celebre e discusso dei nostri tempi: quello di JFK. La morte di Kennedy a Dallas per mano di Oswald è diventata il paradigma dell’omicidio “eccellente”, per la modalità con cui fu eseguita, per la mitologia costruita sulla figura del giovane presidente e anche per le innumerevoli teorie cospirative che l’hanno accompagnata. 

 

Ai quattro presidenti uccisi vanno aggiunti quelli che l’hanno scampata. Due tra loro, Theodore Roosevelt e Ronald Reagan, uscendo vivi per un soffio dopo essere rimasti feriti (Roosevelt dopo l’attentato visse per anni con una pallottola conficcata nel petto, a qualche millimetro dai polmoni). In entrambi i casi, gli assassini erano degli psicopatici con motivazioni a dir poco confuse. John Flammang Schrank, il barista che sparò a Roosevelt nel 1912, disse che glielo aveva ordinato in sonno il deceduto presidente McKinley. Hinckley, l’uomo che sparò a Reagan all’uscita di un hotel di Washington, affermò che con il suo gesto voleva attirare l’attenzione dell’attrice Jodie Foster, per la quale aveva perso la testa (il 15 giugno scorso Hinckley è tornato definitivamente in libertà, dopo decenni passati tra carceri e istituti psichiatrici).

 

Di psicopatici come Hinckley è piena l’America e prevedere quando e come possano colpire è impossibile. Ma il clima attuale del paese rischia di risvegliare invece gli istinti d’odio dei killer che agiscono per motivi politici o per folli progetti di “supremazia razziale”. E anche di questi il paese abbonda, come ha scoperto più volte nella propria storia macchiata di sangue. Basta ricordare il caso di James Earl Ray, l’uomo che con un fucile uccise Martin Luther King nel 1968 al Lorraine Motel di Memphips, in Tennessee, cambiando anche in questo caso la storia della lotta per i diritti civili. Ray è sempre stato un personaggio difficile da categorizzare, anche per le continue ritrattazioni che ha fatto in carcere, ma la matrice del suo gesto è stata senza dubbio razziale e con forti venature politiche. 

 

Al giornalista William Huie raccontò – anche in questo caso poi smentendo tutto – che si aspettava di trascorrere poco tempo in carcere dopo il delitto perché era sicuro che il governatore dell’Alabama George Wallace, un noto segregazionista, sarebbe diventato presidente e lo avrebbe perdonato. Aveva fatto male i calcoli. Una tragica ironia del destino costrinse Wallace ad abbandonare le aspirazioni presidenziali perché spararono anche a lui. Nel 1972, mentre era in corsa alle primarie per la nomination dei democratici alla Casa Bianca, durante un comizio in Maryland fu avvicinato da Arthur Bremer che gli sparò quattro colpi di rivoltella alla pancia. Wallace rimase paralizzato per il resto della vita e lasciò la politica, mentre Bremer si rivelò un aspirante killer “bipartisan”: voleva uccidere un pezzo grosso, era indeciso tra il presidente Nixon e Wallace e scelse quello più facile da colpire.  

 

La lista dei cadaveri eccellenti e di Hvt sopravvissuti per un soffio potrebbe proseguire a lungo, andando ad includere delitti molto diversi tra loro: da Malcolm X ucciso da un terzetto di sicari, a John Lennon ammazzato sotto casa a New York dal fan Mark David Chapman (che a breve potrebbe uscire di prigione). Quello che preoccupa gli apparati di sicurezza americani è però il livello di tensione politica degli ultimi tempi e il rischio che siano gli stessi protagonisti della vita pubblica a scatenare gli istinti di qualche mente malata come quella di Nicholas John Roske.

 

Giorni fa un sedicente “patriota” di nome Ricky Schiffer si è presentato con fucile automatico e giubbotto antiproiettile negli uffici dell’Fbi a Cincinnati ed è stato ucciso dagli agenti dopo una sparatoria. È emerso che aveva legami con il mondo dei protagonisti dell’assalto al Capitol e che era irritato per la perquisizione a Trump a Mar-a-Lago. Servirebbe un generale abbassamento dei toni, che nessuno è intenzionato a fare nel pieno della campagna per le elezioni di Midterm di novembre. 
Oppure servirebbe trascorrere una giornata in Arizona a casa di Gabrielle Giffords. Fino al 2011 era uno degli astri nascenti del Partito democratico, deputata del Congresso con ambizioni che potevano diventare anche presidenziali. Oggi è una signora che passa il tempo in casa a leggere, riposarsi e a gestire con il marito Mark Kelly – un ex astronauta che pilotava gli Shuttle – i mille postumi lasciati da un proiettile che le ha attraversato il cranio e il cervello. 

 

L’8 gennaio 2011, mentre stringeva le mani agli elettori nel parcheggio di un supermercato di Tucson, Giffords fu raggiunta da uno delle decine di proiettili esplosi dalle armi di Jared Lee Loughner, un ragazzo con la testa piena di droghe e teorie della cospirazione. Per cercare di uccidere la deputata, senza alcun movente coerente, Loughner colpì in tutto 19 persone, uccidendone sei tra cui un giudice federale e una bambina di nove anni. 
Gabrielle Giffords ogni tanto partecipa a eventi pubblici dei democratici e cerca di ammonire sui rischi che corre un paese pieno di armi. Ma ridurre il numero di pistole e fucili automatici aiuta, ma non basta: oggi in America ci sarebbero anche e soprattutto da disarmare le parole.