Sei mesi di guerra

Il Karma di Kyiv contro la vendetta di Mosca

Micol Flammini

La Russia rincorre le sconfitte subìte, vuole riabilitare la sua immagine, interna e internazionale, e ascolta i falchi che vogliono un conflitto più brutale. Gli avvertimenti americani 

L’invasione russa dell’Ucraina iniziava sei mesi fa e questo triste anniversario coincide con un altro  sicuramente gioioso, in tempi normali: i trentuno anni dell’indipendenza dall’Unione sovietica. Quest’anno però non si festeggerà, a Kyiv sono stati messi in mostra alcuni dei carri armati russi distrutti dall’esercito ucraino, ma le celebrazioni pubbliche  sono pericolose: sono un bersaglio. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky le ha dovute annullare per tutta la nazione e il dipartimento di stato americano ha aumentato il livello di allerta dicendo di avere informazioni sull’intensificarsi degli sforzi russi per lanciare attacchi contro infrastrutture civili e strutture governative. L’ambasciata degli Stati Uniti ha esortato gli americani a lasciare l’Ucraina, parole che riportano alle settimane precedenti al 24 febbraio, giorno di inizio dell’invasione. Zelensky ha invitato alla cautela ma ha anche lanciato un messaggio ai russi, diretto come mai prima d’ora ha promesso bombardamenti molto potenti se Mosca attaccherà le città ucraine nel giorno dell’indipendenza. Doveva essere una guerra lampo, ma si è trascinata per sei mesi, metà di un anno, con i russi che hanno ridimensionato le loro mire sul campo e hanno trasformato una guerra di conquista, di “liberazione” secondo le parole di Mosca, in una guerra di vendetta. 

 

I russi non si aspettavano una risposta ucraina decisa e organizzata, non si aspettavano il sostegno occidentale e ora sono nelle condizioni di dover vendicare ogni attacco subìto, ogni base militare saltata in aria, ogni carro armato trainato da un trattore, ogni nave affondata, ogni ponte abbattuto, ogni piccola sconfitta in una guerra fatta anche di immagini che circolano ovunque. Le foto delle spiagge della Crimea con i turisti messi in fuga dalle esplosioni sono una ferita per Mosca che ha sempre detto che la penisola era un posto sicuro, era Russia. Ora deve riabilitare la sua immagine in patria, dove è complesso continuare a mentire ai russi, e fuori: i fallimenti del secondo esercito più forte del mondo li hanno visti tutti. Il fine non è più colpire per conquistare, ma per vendicarsi. 


Ieri sono stati celebrati a Mosca i funerali di Daria Dugina, figlia del filosofo russo Aleksandr Dugin, sostenitore dell’invasione e di una linea sulla guerra ancora più dura. Alle celebrazioni erano presenti vari funzionari del Cremlino, politici di spicco, c’era anche Evgeni Prigozhin, il finanziatore delle milizie mercenarie della Wagner che combattono tutte le guerre del Cremlino inclusa quella in Ucraina. Alcuni hanno preso la parola e hanno promesso che la morte di Dugina sarà vendicata con la vittoria in Ucraina: la versione russa è che a far saltare in aria la macchina siano stati i servizi di Kyiv. Il funerale, con la bara aperta e dentro la salma incredibilmente intatta nonostante l’esplosione,  è diventato un comizio in cui si è affermata la linea dura dei falchi che chiedono a Putin una guerra più brutale, più dura, con obiettivi più ambiziosi. Dugina è stata definita una martire sacrificata sull’altare della vittoria, e martire è un termine che spesso usano i terroristi per descrivere i loro morti. Gli ucraini i loro soldati caduti e i civili uccisi li chiamano “eroi”. 

 

Mentre la Russia arranca dietro alla sua vendetta, si trascina sul campo di battaglia, rosicchiando pezzi di territorio – ha occupato il 20 per cento dell’Ucraina – Kyiv contrattacca, colpisce dove un tempo non pensava mai di poter arrivare e probabilmente è riuscita ad allontanare per ora uno dei piani che Mosca si era prefissata: i referendum per annettere i territori occupati. Non rivendica le azioni militari contro obiettivi strategici in territorio russo, dice che l’esercito ucraino non c’entra: “E’ il karma”. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)