Sei mesi di guerra
Le esercitazioni militari russe e la neutralità cinese quasi scomparsa
Manca meno di una settimana all’inizio delle esercitazioni militari russe sul fronte orientale, le Vostok. La Cina parteciperà: da quattro anni la partnership militare è sempre più forte, e la dipendenza dal business globale non basta a dire che un conflitto non ci sarà
Manca meno di una settimana all’inizio delle esercitazioni militari russe sul fronte orientale, le Vostok, e la Cina ha già annunciato la sua partecipazione. Secondo il ministero della Difesa cinese l’intervento fa parte degli accordi bilaterali tra Mosca e Pechino e “non ha niente a che fare con l’attuale situazione internazionale e regionale”, ma ovviamente non è soltanto questo. E’ un messaggio politico chiaro. L’ha detto qualche giorno fa al tabloid in lingua inglese Global Times Song Zhongping, popolare esperto militare cinese noto per aver sostenuto che il massacro di Bucha fu una messa in scena degli ucraini. La prima volta che la Cina partecipò alle colossali esercitazioni militari russe sul fronte orientale era il 2018. Le Vostok si tengono a rotazione, e quello fu il primo momento in cui si capì chiaramente quanto sia il Cremlino sia Zhongnanhai, la zona di Pechino che ospita la leadership cinese, stessero puntando su una partnership anche militare e non solo ideologica. All’epoca le Forze armate cinesi parteciparono inviando 3.200 tra ufficiali e soldati, 900 veicoli militari e trenta aerei, e poi ci furono altri momenti di condivisione: le esercitazioni militari congiunte tra Russia e Cina, a ottobre del 2021, e di nuovo a marzo 2022, poi le trilaterali con l’Iran nell’oceano indiano. L’equilibrio nei messaggi da mandare è piuttosto evidente: Mosca e Pechino hanno più volte mandato un messaggio diretto all’America e a uno dei suoi più importanti alleati nel Pacifico, il Giappone. Lo scorso ottobre il passaggio, per la prima volta nella storia, di navi da guerra russo-cinesi nello stretto di Tsugaru si è ripetuto cinque mesi dopo in una sostanziale trasformazione dello status quo – e delle provocazioni militari russo-cinesi – che hanno fatto preoccupare non poco i giapponesi. Lo stretto di Tsugaru è il passaggio tra l’isola principale del Giappone, l’Honshu, e l’isola più settentrionale, l’Hokkaido, che dopo la Seconda guerra mondiale fu lasciato alle acque internazionali per permettere il passaggio di navi da guerra americane con bombe nucleari. Quello stesso passaggio, vicinissimo alle acque territoriali nipponiche, adesso è usato con inquietante regolarità dalle navi da guerra russo-cinesi.
Alle esercitazioni Vostok parteciperanno anche paesi come la Bielorussia, la Mongolia, il Tagikistan e una delegazione di circa 75 uomini delle Forze armate indiane. Non è la prima volta che l’India partecipa ai giochi di guerra russi ed è un segno del tentativo del governo di Narendra Modi di mantenere una certa neutralità nel conflitto. Una neutralità che però si affievolisce sempre di più se si parla di Cina: sta lentamente svanendo infatti il mito di Pechino guidata solo da ragioni di business e di profitto economico. In un articolo su Foreign Affairs pubblicato ieri, Dale C. Copeland, politologo esperto di commercio internazionale, scrive che se è vero che sia la Cina sia la Russia sono dipendenti economicamente dal resto del mondo (anche quello che vorrebbero combattere), allo stesso tempo questo non è più un motivo per scongiurare un conflitto. “Per capire come il commercio possa aumentare, e non ridurre, le possibilità di conflitto militare, è necessario attingere alle intuizioni della teoria realista”, scrive Copeland. Il rafforzamento economico va di pari passo con il rafforzamento militare, ma la crescita del commercio internazionale ha come effetto l’aumento della “vulnerabilità di una grande potenza alle sanzioni commerciali e agli embarghi, dopo essere diventata dipendente dall’importazione di risorse e dall’esportazione di beni da vendere all’estero. Questa vulnerabilità può spingere i leader a costruire navi per proteggere le rotte commerciali e persino a entrare in guerra per garantire l’accesso a beni e mercati vitali”.
I conservatori inglesi