"Bombe diplomatiche" tra Stati Uniti e Iran in Siria. Perché adesso l'accordo sembra vicino
E' la settimana di massimo scontro sul campo e, contemporaneamente, di massima distensione dei rapporti diplomatici: le due cose sono correlate.
Sia gli ufficiali americani che quelli iraniani dicono pubblicamente che la controparte ha "finalmente fatto importanti concessioni”. L'ultimo indizio arriva dagli israeliani.
Roma. Tre soldati americani feriti e quattro miliziani “affiliati” all’Iran (di cui almeno due pasdaran) uccisi in 24 ore: non era mai successo da quando alla Casa Bianca c’è Joe Biden. Questa settimana gli americani e gli iraniani hanno ricominciato a bombardarsi in Siria e su questo, da tre giorni, speculano gli analisti che seguono i negoziati per tornare a un accordo che limiti il programma nucleare di Teheran.
Iniziamo dagli eventi sul campo che si svolgono a Deir ez-Zor, nel nord ovest della Siria: i pasdaran colpiscono gli americani al Green Village. Tre soldati restano feriti. Nella notte tra il 23 e il 24 arriva la prima risposta: muoiono due combattenti ventenni dei Guardiani della rivoluzione, sui canali Telegram dei pasdaran compare il messaggio: “Possano essere maledetti gli Stati Uniti e tutti coloro che stanno dietro al Jcpoa (il nome in gergo tecnico dell’accordo nucleare). I nostri morti sono dei martiri”, in allegato ci sono le foto. La notte successiva c’è stato un nuovo attacco americano e un altro la mattina di giovedì.
E’ la settimana di massimo scontro sul campo in Siria e, contemporaneamente, di massima distensione dei rapporti diplomatici tra i due paesi. Il motivo per cui l’accordo oggi sembra vicino è che sia gli ufficiali americani che quelli iraniani dicono pubblicamente che la controparte ha finalmente fatto “importanti concessioni”. E’ un segnale, serve a preparare l’opinione pubblica interna al giorno in cui arriverà la firma ed è un comportamento insolito soprattutto da parte dell’Iran. Gli ultraconservatori che hanno sempre evitato di esporsi a favore del Jcpoa, da giorni ripetono che, in sostanza, gli americani avrebbero ceduto. Il “falco” Mohammad Marandi ha già messo le mani avanti: “L'idea di una ‘risposta ferma’ dagli Stati Uniti è falsa. L'Iran ha ottenuto molto”. Ieri gli ayatollah, durante la preghiera del venerdì, hanno ripetuto concetti simili. Un giornalista iraniano che invece è sempre stato a favore dell’accordo ma, fino agli sviluppi delle ultime settimane, lo considerava ormai naufragato, dice al Foglio: “Le cose sono cambiate e i segnali sono chiari, mi aspetto che la firma arrivi prima della prossima Assemblea generale dell’Onu (il 13 settembre)”. Il parlamentare iraniano Jalil Rahim Jahanabadi dice che dobbiamo aspettarcela “entro dieci giorni”.
La settimana scorsa Teheran ha consegnato agli Stati Uniti – attraverso i diplomatici europei – un risposta scritta e, questa settimana, gli Stati Uniti hanno corrisposto la loro. Teoricamente è l’ultimo passaggio.
Per quanto possa sembrare controintuitivo, anche i fatti siriani vanno nella direzione di una firma imminente. I pasdaran detestano l’ipotesi di un programma nucleare limitato dai controlli indipendenti e di un patto con l’occidente, il bombardamento contro le posizioni statunitensi sembra un tentativo di complicare le cose. La risposta americana con tre raid in quarantotto ore è la prova che l’accordo, se davvero ci sarà, è limitato a una questione specifica e non ha effetti collaterali in campo militare come un comportamento più tollerante nei confronti delle milizie sciite alleate dell’Iran nella regione. E’ una rassicurazione agli alleati.
Ultimo indizio: persino gli israeliani, che sono sempre stati contrari al patto sul nucleare di Teheran, hanno aggiustato il tiro nell’ultima settimana. Il 18 agosto il primo ministro Yair Lapid diceva “anche solo negoziare con l’Iran è un segno di debolezza” e “per come la vediamo noi, l’accordo non rispetta le promesse e gli standard posti dallo stesso Biden, cioè impedire all’Iran di avere l’atomica”. Questa settimana il consigliere alla Sicurezza nazionale israeliano Eyal Hulata è stato a Washington e ieri c’era anche il ministro della Difesa Benny Gantz. Adesso Lapid dice: “Gli Stati Uniti (nel rispondere agli iraniani) hanno tenuto conto delle nostre richieste” e secondo il sito israeliano Walla News, solitamente ben informato, gli israeliani “hanno apprezzato la risposta ben più dura del previsto”.
Anche questa volta, può ancora andare storto qualcosa. Soprattutto: in nessuno dei due paesi il Jcpoa ha la maggioranza in parlamento (in Iran decide comunque la Guida suprema, ma negli Stati Uniti l’Amministrazione Biden ha promesso al Senato che ci sarebbe stato un voto, e nel 2024 ci sono le presidenziali). Considerando questi fatti, secondo gli analisti l’accordo non avrebbe comunque speranza di arrivare vivo al 2025.