una critica
Il presidente degli storici americani sbaglia. Contro il "presentismo"
James Sweet come in “Buio a mezzogiorno”. Ha attaccato due giudici conservatori della Corte suprema, guardando al passato con gli occhi del presente, per poi ritrattare. Da quest'esperienza, quattro lezioni
Per chi l’avesse scordato, Buio a mezzogiorno racconta il dramma di Rubashov, bolscevico della prima ora, che vede la rivoluzione tradita, è messo sotto processo e finisce per confessare colpe non commesse, come gli chiedono di fare gli agenti del Numero Uno, Stalin. Accetta di morire fucilato perché, come dice al vicino di cella nel suo ultimo messaggio e testamento spirituale, l’onore è fare il proprio dovere senza tante fisime. L’accademia americana nei giorni passati ci ha offerto la versione farsesca di questo dramma koestleriano. Invece delle torture e delle esecuzioni, tempeste di tweet; invece della dottrina stalinista, le nuove politiche identitarie. L’accademia oggi è una sorta di Lubianka per ominicchi. Racconterò prima i fatti, e ne trarrò le lezioni che possiamo trarne.
Il 17 agosto il presidente degli storici americani, James Sweet, pubblica sulla rivista dell’associazione un saggio dal titolo “È la Storia Storia?”; con un macchinoso sottotitolo “Politica identitaria e teleologie del presente”. Il pezzo discute, con estrema circospezione, il rischio del “presentismo” nella ricerca storica, cioè del metodo di vedere il passato dal punto di vista del presente ed esclusivamente ai fini (“identitari”) delle esigenze politiche correnti. Tocca poi, in una esposizione estremamente confusa, alcune possibili limitazioni del progetto 1619 (spiegherò subito dopo cosa sia). Per carità, limitazioni non del progetto di per sé – si affretta a precisare – ma in quanto opera storica piuttosto che giornalistica. Dopo questo colpetto al cerchio dà diversi colpi alla botte, criticando senza pietà due giudici conservatori della Corte suprema. Chiude il pezzo con un appello a fare ricerca storica con integrità.
Alcuni elementi per mettere questo intervento nel contesto. Il progetto 1619 è un’iniziativa giornalistica (il termine pare legittimo visto che è stata lanciata dal New York Times) della storica Nikole Hannah-Jones per rivedere di sana pianta la storia degli Stati Uniti. La tesi del progetto è che la storia degli Stati Uniti comincia veramente nel 1619, con l’arrivo dei primi schiavi nella colonia della Virginia, e che tutto quello che è seguito è stato il tentativo di difendere la schiavitù, compresa la guerra di indipendenza, intrapresa, secondo la Hannah-Jones per impedire agli inglesi di bloccare quella profittevole istituzione. Al pezzo ha fatto seguito immediatamente una tempesta di tweet, che chiedevano pronti interventi per mettere a silenzio le modeste critiche avanzate da Sweet. È bastato questo per far cambiare idea al presidente che il 19 agosto, appena due giorni dopo, pubblica una lamentosa ritrattazione. Il tono è insopportabile; cito le ultime righe come esempio: “Spero di redimermi in conversazioni future con tutti voi. Sto ascoltando e imparando”.
Ed ecco la prima lezione di questo evento: non si è mai abbastanza rivoluzionari per Numero Uno. La critica velata della tesi della Jones presentata in quel pezzo non è una novità. Come analisi storica, la tesi del progetto è stata criticata anche pesantemente da storici professionali. Però tutti i critici erano, così come lo è il presidente Sweet, di provata fede democratica. E come potrebbe essere altrimenti? Il 97 per cento degli storici americani si dichiara di convinzione democratica. La percentuale dei contributi politici ai partiti delle 40 migliori istituzioni universitarie è dal 90 al 95 per cento al Partito democratico. Pure, l’accademia americana, che è un coro con una sola musica, non è ancora abbastanza a sinistra della classe politica. Infatti, il progetto 1619 sta diventando parte della versione ufficiale del regime, fino a entrare nel curricolo nelle scuole, senza se e senza ma.
La seconda lezione. Si parla (almeno io ne ho parlato) con allarme della fine della libertà di parola negli Stati Uniti. Ma questo episodio non illustra un rischio per la libertà di parola, ma di una sua condizione preliminare, la libertà di pensiero e di indagine. Poter parlare liberamente è utile se si ha qualcosa di interessante da dire; senza la libertà di ricercare liberamente nuove idee la libertà di parola è inutile.
Terza lezione. Di pentimenti umilianti se ne erano già visti tanti, da politici, personaggi dello spettacolo e dello sport, e da comuni cittadini. Ma nel caso degli accademici, il cilicio è sempre più spinoso, le lacrime sono sempre più amare, il saio sempre più ruvido, le scuse sempre più contrite, la cenere sempre più scura. Questa non è una sorpresa. La classe dominante ha creato un esercito di funzionari, intellettuali organici, che sanno solo ripetere la dottrina ufficiale. Non c’è da sorprendersi che poi le voci di dissenso siano rozze, o ignoranti. Chi fa terra bruciata a destra di Hannah-Jones poi non si può lamentare che Trump sia rozzo. Cos’altro può venir fuori da una comunità di intellettuali tutti allineati sulla stessa dottrina?
Quarta e ultima lezione. I mercati reagiscono. I giovani, si sa, sono idealisti ma non dementi e vedono benissimo che una disciplina storica al servizio della politica porta poco lontano nel mondo del lavoro, e infatti i dati della stessa associazione degli storici fanno vedere che i dipartimenti di storia hanno avuto la contrazione più forte fra tutte le discipline negli ultimi anni, meno 34 per cento, mentre informatica si è allargata del 60 per cento. Quando si parla di università per tutti, forse è meglio tener conto di cosa ci viene insegnato.
Aldo Rustichini
professore di Economia all'Università del Minnesota
Cosa c'è in gioco