Una miniatura dello stadio dell’Education City di Doha che ospiterà i Mondiali, inaugurato nel 2020 (LaPresse) 

Stadi di tensione. A tre mesi dall'inizio del Mondiale, un libro ne svela i segreti

Giorgio Coluccia e Federico Giustini

Operai sfruttati, malpagati, morti di caldo e di troppo lavoro. Eppure il business del calcio ha cambiato qualcosa perfino in Qatar

Pubblichiamo un estratto del volume “Calcio di Stato - Il mondiale in Qatar e non solo: come lo sportwashing sta cambiando la geopolitica del pallone” di Giorgio Coluccia e Federico Giustini (Lit Edizioni, 247 pp., 16,50 euro)


 
Potrebbe sembrare soltanto una coincidenza. Ma il 2010, oltreché l’anno dell’assegnazione del Mondiale 2022, è stato anche l’anno in cui il Qatar ha cominciato a dover fare i conti con le sue leggi sul mercato del lavoro, vigenti dal 1963. Un processo preparatorio lento e indispensabile per un Paese chiamato a mettere in piedi una rassegna iridata quasi da zero, non solo dal punto di vista degli stadi, ma anche per tutte le infrastrutture necessarie, dagli alberghi di lusso alle autostrade, dall’espansione dell’aeroporto internazionale di Hamad alla nuova metro di Doha, per una spesa complessiva vicina ai 150 miliardi di dollari. Tutto questo ha comportato una fortissima richiesta di forza lavoro sul mercato, un flusso migratorio che ha fatto lievitare la popolazione addirittura del 50 per cento in pochi anni, come emerge dai numeri del censimento del locale Ministry of Development and Planning: dai 1.699.435 di aprile 2010, ai 2.611.522 di ottobre 2016, fino a superare il tetto dei tre milioni di abitanti già agli inizi del 2021, quando però la domanda si era drasticamente ridotta visto che il 90 per cento delle infrastrutture calcistiche risultava già completato. 

  

Il 2010 è stato anche l’anno in cui il Qatar ha cominciato a dover fare i conti con le sue leggi sul mercato del lavoro

 

La legge del 2010 disciplinava nel dettaglio il sistema della kafala, la cosiddetta sponsorizzazione, che assoggettava totalmente i lavoratori migranti rispetto al datore, impedendogli di lasciare il Paese o di cambiare lavoro senza il necessario permesso. In lingua araba kafala ha un doppio significato: da un lato esprime la garanzia per conto di qualcuno per gli affari economici (daman), dall’altro lato vuol dire “prendersi cura di”, riferito a soggetti non indipendenti o non autonomi (kafl), come nel caso di persone arrivate da altri Paesi con l’intento di lavorare. Il patrocinio da parte del datore diventava così fondamentale nell’applicazione delle condizioni contrattuali per l’impiego dei lavoratori migranti, dal momento che uno straniero necessitava di uno sponsor (kafeel) per superare le frontiere. Non era il governo ad assegnargli uno status giuridico, bensì il datore stesso, responsabile di tutte le condizioni formali, dal permesso di soggiorno alla cessazione del rapporto, dal cambio di sponsor a qualsiasi altra autorizzazione. Uno sbilanciamento assoluto tra le parti, che vedeva i lavoratori stranieri sottomessi sia dal punto di vista economico, in riferimento al pagamento del salario, sia da quello legale, in quanto dalla loro condizione dipendeva la possibilità di risiedere nel Paese ed esercitare le più comuni facoltà. Come spesso denunciato da Human Rights Watch, l’organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, emerge “un lampante cortocircuito perché chi stabilisce i doveri poi abusa puntualmente dei diritti, punta a fare soltanto i propri interessi ricorrendo a pratiche illegali e intimidatorie, come la confisca del passaporto, la denuncia alle autorità statali, la sospensione dello stipendio o l’imposizione di balzelli del tutto arbitrari. Secondo una mentalità ormai retrograda, i lavoratori stranieri sono considerati una redditizia forza lavoro a basso costo”.

   

È intervenuto sul sistema della kafala nel settembre del 2020, dopo oltre un decennio. Il vicolo cieco degli operai  

    

Per lunghi periodi il requisito della sponsorizzazione è stato un punto fermo in tutta l’area delle monarchie del Consiglio di cooperazione del Golfo arabo. Solo dagli anni Duemila è stato abolito dal Bahrain o ammorbidito in senso liberale dal Kuwait e dagli Emirati Arabi. A fronte di molteplici pressioni internazionali, iniziate con l’assegnazione del Mondiale, anche il Qatar è intervenuto pesantemente sul sistema della kafala nel settembre del 2020, dopo oltre un decennio, e pochi operai hanno potuto usufruire del nuovo regime, essendo stato approvato a soli due anni dal fischio d’inizio iridato. I lavoratori migranti arrivati in prevalenza dall’Asia meridionale, da Nepal, India, Bangladesh e Filippine, ma anche dall’Africa, soprattutto da Ghana e Kenya, si sono a lungo ritrovati in un vicolo cieco che prevedeva un’espressa autorizzazione da parte del datore per cambiare lavoro o per abbandonare il Qatar. L’alternativa era essere considerati fuggitivi, commettendo a tutti gli effetti un reato penale. Poi dall’autunno del 2020 il Ministry of Administrative Development, Labour and Social Affairs ha rimodellato il quadro giuridico ed è stata cancellata la clausola del No Objection Certificate, indispensabile per ottenere il consenso dei datori per cambiare occupazione prima della fine del contratto. Rispetto all’assenso necessario vigente in precedenza, rimane soltanto l’obbligo di fornire un preavviso scritto di un mese durante i primi due anni di contratto e di due mesi dal secondo anno in poi. Essendo stato abolito anche il permesso di uscita dal Paese da parte del datore, si tratta sicuramente di grandi conquiste, arricchite dall’introduzione – sempre nel settembre del 2020 – di un salario minimo per tutti i lavoratori, indipendentemente dal settore di occupazione e della loro nazionalità. I nuovi contratti in vigore da marzo 2021 dovranno prevedere almeno una retribuzione mensile minima pari a 1.000 riyal (275 dollari), che deve a salire a 1.800 riyal (quasi 500 dollari) nel caso in cui il datore non fornisca vitto e alloggio. 

   

“Ai lavoratori migranti è stato confiscato il passaporto,  i turni di lavoro vanno da 66 a 77 ore settimanali”

   

Secondo l’ILO, International Labour Organization, l’agenzia dell’ONU che si occupa di promuovere la giustizia sociale e i diritti dei lavoratori, “la riforma smantella efficacemente il sistema della kafala e segna il primo passo di una nuova era per il mercato del lavoro in Qatar, un Paese che dipende fortemente dai due milioni di lavoratori migranti, i quali costituiscono il 95 per cento della forza lavoro, con il 40 per cento di questi impegnati nell’edilizia, e non più assoggettati a settimane lavorative di 70 ore, con paghe che si aggirano attorno a un euro all’ora”. Prima di giungere alle riforme più recenti, per lunghi periodi i media e diverse organizzazioni non governative hanno denunciato “le condizioni disumane dei lavoratori”. La francese Sherpa ha depositato una denuncia formale nei confronti del colosso delle costruzioni transalpino Vinci, riuscendo a convincere gli operai a esporsi in prima persona per raccontare abusi e soprusi subiti dal loro arrivo in Qatar. Una novità quasi assoluta, visti i timori dei diretti interessati a palesare le rispettive rimostranze per paura di ritorsioni e conseguenze sul lavoro. Ma nella nota ufficiale di Sherpa del 22 novembre 2018 si legge a chiare lettere che “sei ex dipendenti indiani e nepalesi presentano una denuncia contro Vinci Construction Grands Projets (VCGP), la sua controllata qatariota Qatari Diar Vinci Construction (QDVC) e i loro rappresentanti per le condizioni di lavoro forzato, di riduzione in schiavitù incompatibile con la dignità umana. [...] Dalle indagini svolte emerge che ai lavoratori migranti è stato confiscato il passaporto, che i turni di lavoro vanno da 66 a 77 ore settimanali a fronte di una retribuzione inadeguata e a frequenti minacce di licenziamento o espulsione verso il Paese di provenienza. Il salario minimo per i lavoratori migranti è inferiore al 2 per cento del salario medio del Qatar e i denuncianti sono pagati tra 50 centesimi e 2 euro per ora lavorata, oltre a dormire in stanze anguste e affollate, con strutture sanitarie del tutto insufficienti”. In questo senso la già citata introduzione del salario minimo rappresenta una conquista rispetto al punto di partenza, ma secondo le organizzazioni internazionali risulta incompleta se non accompagnata dallo sradicamento degli abusi salariali a lungo posti in essere, nonostante il Qatar nel 2015 abbia adottato un Wage Protection System per monitorare “dall’alto”, attraverso un software, il pagamento degli stipendi ai lavoratori. Risultati alla mano, un sistema lacunoso e inefficiente, come ribadito dall’International Labour Organization, solerte nel richiedere “misure più incisive per garantire i salari, come una legislazione sui pagamenti rapidi, l’introduzione di procedure giudiziarie snelle, sistemi di monitoraggio dei pagamenti in subappalto e sistemi di responsabilità solidale, oltre al divieto di polizze non ufficiali”. Tra quest’ultime spicca sicuramente il pay-when-paid, che consente ai subappaltatori di ritardare i pagamenti ai lavoratori fino a quando non ricevono i pagamenti dagli appaltatori.

  

12 morti a settimana. L’ambasciatrice del Nepal a Doha ha definito l’emirato “una prigione a cielo aperto”

  

Questo quadro fa il paio con i numeri rivelati dal quotidiano britannico The Guardian, che non lasciano spazio all’immaginazione: in media 12 operai morti a settimana, all’incirca 6500 vite sacrificate nei cantieri dal 2010 al 2021. Oltre alla scarsa prevenzione sui luoghi di lavoro, il vero nemico degli operai è stato il caldo asfissiante, le temperature bollenti che in Qatar nei mesi più caldi raggiungono anche i 50°. Un’inchiesta del medesimo quotidiano nel settembre 2013 ha portato alla luce la morte di almeno 44 operai nepalesi, per l’ondata rovente registrata tra il 4 e l’8 agosto di quell’anno, a causa di attacchi di cuore, insufficienze cardiache o decessi improvvisi nel sonno per lo stress termico sopportato. Il corrispondente da Kathmandu Pete Pattisson, recatosi più volte a Doha per documentare la situazione, ha raccontato di “alloggi minuscoli destinati a dodici operai, stipati in pessime condizioni igieniche. In quei giorni, in cui almeno uno di loro moriva puntualmente, la situazione sembrava degenerare e trenta nepalesi hanno cercato rifugio presso la loro ambasciata a Doha per sfuggire a brutali condizioni”. L’ambasciatrice del Nepal in Qatar, Maya Kumari Sharma, ha definito l’emirato “come una prigione a cielo aperto, dove gli stadi e tante opere di contorno sono state completate in tempi record, ma a fronte di un prezzo salatissimo. Per lunghi periodi si è parlato di impianti refrigerati e della necessità di disputare il Mondiale tra novembre e dicembre in modo da evitare i mesi più caldi ai calciatori, ma nessuno ha mosso un dito per le condizioni dei nostri lavoratori, costretti anche per dieci ore di fila a lavorare nel bel mezzo del deserto”.

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