L'affidavit pubblicato 

Tra riviste, appunti e segreti di stato c'è il disastro Trump

Stefano Pistolini

Ecco cosa cercava l’Fbi a Mar-a-Lago tra disordine e scatoloni. Il documento pubblicato dal dipartimento di Giustizia

Era la cosa giusta da fare, prima che l’infezione assumesse definitivamente contorni preoccupanti. Il giudice Bruce Reinhart di West Palm Beach, Florida, lo stesso che ha autorizzato la perquisizione a casa e nel circolo di proprietà dell’ex presidente Donald Trump, ha costretto il dipartimento di Giustizia americano a rendere pubblico l’affidavit, ovvero il documento contenente una dichiarazione giurata, a motivazione della richiesta di perquisizione delle proprietà di Trump. Dopo aver concesso il benestare Reinhart ha  imposto la pubblicazione del documento, pur accettando la condizione di diffonderne una versione ampiamente editata a protezione delle identità coinvolte e delle procedure seguite. E ora, a dispetto degli omissis, la natura del documento appare chiara e lascia forse trasparire la probabile intenzione all’origine: il ministro della Giustizia Merrick Garland ha voluto mettere platealmente in evidenza la condotta del tutto inadeguata al ruolo presidenziale tenuta fino all’ultimo da Trump, denunciando la personalizzazione e il suo disprezzo dei protocolli, l’ignoranza delle procedure e soprattutto la protervia di un personaggio che si è ritenuto al di sopra delle regole. Ma se da questo documento ci si attendeva lo scoop clamoroso – solo pochi giorni fa si accennava a codici segreti nucleari, in piena atmosfera Stranamore – l’attesa è andata delusa.

   
L’affidavit insiste puntigliosamente sul fatto che Trump si è comportato come non è ammissibile, che ha fatto inscatolare tutti insieme dossier secretati e raccolte di riviste da collezione, che ha ammucchiato note di suo pugno, corrispondenza privata e file top secret, riguardanti la sicurezza nazionale e chissà quali altri scenari. Si legge: “C’è ragione di credere che molti materiali secretati si trovino nelle sue residenze e che ad essi venga ostacolato l’accesso. In base a ciò è ragionevole supporre che questi luoghi debbano essere perquisiti alla ricerca di evidenze di contrabbando e di detenzione illegale di documenti di cui la legge americana proibisce espressamente la diffusione”.  

 

La decisione del giudice Reinhart ha messo fine alla ridda di ipotesi, tra il complottistico e l’apocalittico, e al dibattito inconcludente tra dipartimento di Giustizia e team-Trump, che con l’abituale aggressività continuava a offrire versioni indecifrabili riguardo ai materiali in questione. Del resto, se ci si spinge a perquisire la residenza di un ex presidente, non si può pretendere di farlo senza trasparenza e senza chiarire, al di là di ogni dubbio, la natura delle accuse. I giorni trascorsi dal raid a Mar-A-Lago sono quelli in cui lo scontro si è fatto più acre e l’attenzione degli americani sull’argomento è divenuta parossistica, accentuata dall’impossibilità di valutare con il metro di giudizio individuale la gravità e la portata dell’indagine in corso.

 

Ma il botto finale, il petardo etico destinato a sradicare le ambizioni di revival coltivate da Trump, a una prima lettura del documento non si trova. Il messaggio è che Trump non sappia fare il presidente come la legge e la tradizione impongono: ma questo è esattamente il primo punto programmatico della sua campagna per riprendersi la Casa Bianca. Ora i tecnici si affanneranno a spiegare la ridda di plausibili motivazioni contenute nell’affidavit di Garrick, a giustificazione del supremo affronto all’ex presidente. Ma la sensazione è che lui possa cavalcare agevolmente queste diatribe, sbandierando proprio quella diversità che ha già stregato gli americani in passato e gridando beffardamente all’autogol dei detrattori.

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