petrolio dissidente
La fine dell'autonomia di Lukoil, tra dimissioni e morti sospette
Il colosso petrolifero è l'unica tra le principali aziende russe a non essere controllata dal Cremlino. La morte del presidente del Cda è l'ultima di una corposa lista di oligarchi che, dall’inizio della guerra, sono morti in circostanze poco chiare
La retorica del Cremlino dice che i nemici della Russia devono avere paura, ma da quando è iniziata quella che ancora viene chiamata “operazione militare speciale” anche i membri del sistema di potere russo non hanno di che stare tranquilli. Ravil Maganov, presidente del consiglio di amministrazione di Lukoil, è morto ieri cadendo da una finestra del sesto piano di un ospedale di Mosca.
Il comunicato della società dice che Maganov è “morto a seguito di una grave malattia”, altri media russi affermano su Telegram che era stato ricoverato per problemi cardiaci, e poi gli era stata diagnosticata una depressione. Il caso si aggiunge a una corposa lista di oligarchi dell’industria energetica russa che, dall’inizio della guerra, sono morti in circostanze poco chiare.
Lukoil si era distinta per aver chiesto al Cremlino, dopo appena dieci giorni dall’inizio della guerra, la conclusione del “conflitto armato in Ucraina” in favore dell’apertura di un “negoziato diplomatico”. A stupire fu non solo il comunicato, un caso unico nel sistema russo, ma anche le parole usate in cui si parlava esplicitamente di “conflitto” e non di “operazione militare speciale” come da indicazioni del regime. Un mese e mezzo dopo, il presidente e fondatore della società, Vagit Alekperov, è stato sanzionato dal Regno Unito e ha rassegnato le dimissioni dalla società che dirigeva da trent’anni e che sotto la sua direzione è diventata uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo. Alekperov è uno dei pochi oligarchi ancora al potere che non nasce con l’ascesa di Vladimir Putin: era viceministro dell’industria petrolifera nell’Unione Sovietica di Mikhail Gorbaciov ed è stato un protagonista della transizione all’economia di mercato.
Maganov era in Lukoil dal 1993 ed era un suo stretto collaboratore, partecipava spesso a riunioni dei produttori petroliferi russi e del ministero dell’Energia per decidere azioni congiunte nell’ambito dell’Opec+, di cui la Russia è entrata a far parte dopo un lavoro diplomatico iniziato nel 2016 per affiancarsi all’Arabia Saudita come attore globale del settore.
Lukoil è una delle tre principali aziende russe insieme a Gazprom e Rosfnet, altra società petrolifera, ma di queste tre è l’unica non a controllo statale. A capo di Rosfnet però c’è Igor Sechin, amico stretto di Vladimir Putin fin dai tempi di San Pietroburgo, un uomo che gli analisti di Stratfor hanno definito come “il braccio armato dell’Fsb nel settore energetico russo”. Quando all’inizio degli anni 2000 Yukos, all’epoca il colosso petrolifero russo, perse gran parte del suo valore in borsa dopo la condanna a nove anni di carcere del suo proprietario Mikhail Khodorkovsky (nemico politico di Putin), gli asset più importanti vennero rilevati da Rosneft, accrescendo ulteriormente il potere di Sechin.
Lukoil invece è più autonoma, e opera con un orientamento più simile a quello di una multinazionale. Attraverso la controllata Lukoil Overseas è coinvolta nella realizzazione di 16 progetti per l’esplorazione e lo sviluppo di strutture e giacimenti in paesi centro-asiatici, mediorientali, europei, africani e sudamericani. Possiede sette società di lavorazione del petrolio nell’Europa orientale e diverse raffinerie in Bulgaria, Romania e Italia – l’Isab di Priolo Gargallo in Sicilia – oltre a una partecipazione del 45 per cento in un complesso di raffinazione nei Paesi Bassi. Tutto questo però sembra destinato a cambiare radicalmente negli assetti di potere della nuova Russia di Putin.
Prima della guerra alcuni analisti, per semplificare, dicevano che Mosca usa il gas come uno strumento geopolitico, il petrolio serve a finanziare lo stato e i metalli ad arricchire gli oligarchi. Adesso che la Russia è diventato il paese più sanzionato del mondo, è probabile che faranno un tutt’uno: gas e petrolio serviranno per finanziare il regime e i suoi gerarchi, lasciando ben poco spazio a quegli oligarchi “occidentalizzati” che Putin ha condannato e minacciato più volte nei suoi discorsi. Come quello del 16 marzo in cui disse che “il popolo russo sarà sempre in grado di distinguere i veri patrioti dai traditori, e di sputarli via come una mosca che gli è volata accidentalmente in bocca”. Parole che oggi, alla luce di un ancora misterioso volo dalla finestra di Maganov, risultano inquietanti.
Questa tendenza è un altro passo verso “l’iranizzazione” dell’economia e del sistema di potere russo. A Mosca non importa di ridurre la produzione complessiva di gas e petrolio, né di rovinare una parte degli impianti e dei giacimenti. Ciò che conta è solo continuare ad avere abbastanza risorse economiche per garantire la sopravvivenza del regime.