lezioni da oltreoceano
La sorpresa sul voto può arrivare il mese prima. Così insegnano gli Stati Uniti
Il colpo di scena dei 30 giorni precedenti alle urne. L’October surprise ha invertito spesso l’esito delle presidenziali americane. Come sarà il settembre italiano in attesa del fatidico 25?
Una drammatica escalation della guerra in Ucraina. Una pesante crisi dei mercati internazionali, legata al prezzo dell’energia. Lo spread fuori controllo. Un improvviso nuovo picco del Covid. Un dibattito tv disastroso. Oppure un qualche scandalo o un’inchiesta giudiziaria.
C’è qualcosa che potrebbe cambiare in poche settimane in maniera netta l’andamento dei sondaggi per le elezioni politiche del 25 settembre? Esiste la possibilità di una “September surprise”, qualcosa di paragonabile alla “sorpresa d’ottobre” che fa parte della mitologia delle elezioni presidenziali americane? Difficile dirlo, ma visto che l’Italia vota per la prima volta nella storia della Repubblica in autunno per il rinnovo del Parlamento, vale la pena tenere presenti le lezioni americane. Anche perché i sondaggi fotografano ancora una vasta gamma di indecisi, intorno al 40 per cento. La stragrande maggioranza finirà per non andare a votare e sceglierà l’astensione, ma c’è un 10-15 per cento che ancora deve chiarirsi le idee: una grande “sorpresa” potrebbe influenzarli.
Negli Usa, soprattutto per le elezioni presidenziali, il mese decisivo e quello dove possono avvenire fatti che cambiano lo scenario è ottobre, visto che si vota il primo martedì di novembre. L’inedita campagna elettorale italiana cominciata in piena estate potrebbe invece fare i conti con una “sorpresa di settembre”. Per ipotizzare possibili eventi capaci di alterare significativamente la percezione degli italiani sullo stato del paese e cambiare il loro orientamento di voto, bisogna ragionare con l’approccio degli analisti militari o dei “risk manager” delle grandi aziende: gente pagata per ipotizzare scenari catastrofici.
Quasi tutte le ipotesi che emergono sono del tipo che nessuno, a prescindere dalle idee politiche, si augura di veder accadere. E la principale, improbabile ma non impossibile “September surprise” di questo 2022, potrebbe essere un’evoluzione, in peggio, della guerra in Ucraina. Un’estensione del conflitto alla Nato, o il ricorso ad armi di tipo nucleare o chimico. Qualcosa che riporti la guerra in primissimo piano e porti gli elettori ad andare a votare il 25 settembre avendo in mente soprattutto la sicurezza e il futuro delle loro famiglie.
In America qualcosa di simile era successo nelle elezioni presidenziali del 2004, già fortemente caratterizzate dal tema della sicurezza dopo che nei tre anni precedenti il paese si era trovato sotto attacco l’11 settembre 2001 e si era lanciato in due guerre, in Afghanistan e Iraq. Il 29 ottobre 2004, a pochi giorni dal voto, Osama bin Laden fece circolare un video nel quale si assumeva la responsabilità degli attentati dell’11 settembre e rilanciava le minacce all’America. L’effetto fu un “Bush bounce”, un rimbalzo nei sondaggi a favore del presidente George W. Bush, che poi vinse le elezioni contro John Kerry.
La definizione “October surprise” fu utilizzata per la prima volta nella campagna elettorale del 1980, che vedeva contrapposti il presidente in carica Jimmy Carter e lo sfidante repubblicano Ronald Reagan. In quel caso la sorpresa fu solo ipotizzata: era legata al timore dei repubblicani che negli ultimi giorni della campagna si risolvesse, in qualche modo, la lunga crisi degli ostaggi americani intrappolati a Teheran dai seguaci dell’Ayatollah Khomeini. La svolta non ci fu, Carter perse le elezioni e gli iraniani liberarono gli ostaggi il giorno in cui il presidente lasciò l’incarico e Reagan si insediò al suo posto.
Di sorprese elettorali ce n’erano state però molte altre anche in precedenza. La più celebre è forse quella della conferenza stampa che Henry Kissinger, segretario di Stato dell’amministrazione Nixon, tenne il 26 ottobre 1972, dodici giorni prima del voto in cui il presidente repubblicano si giocava la rielezione. In quell’occasione Kissinger pronunciò una frase diventata celebre, parlando della guerra in Vietnam di cui stava trattando l’epilogo: “We believe that peace is at hand” (crediamo che la pace sia a portata di mano). In realtà la pace arrivò molti mesi dopo, ma quel “peace is at hand” di Kissinger aiutò Nixon a vincere.
L’occasione migliore per le sorprese d’ottobre negli Usa sono i dibattiti tra i candidati presidenti e vicepresidenti. Difficile immaginare che qualcosa di disastroso possa avvenire in un dibattito tra candidati in Italia, ammesso che Letta, Meloni, Calenda e Conte trovino il modo di confrontarsi in tv prima del voto del 25 settembre. I dibattiti però sono momenti pericolosi e anche grandi opportunità per una svolta dell’ultimo minuto, se uno li sa gestire. Senza dubbio sapeva gestirli Reagan, che da ex attore dava il meglio di fronte alle telecamere. A lui è legato il ricordo della più celebre sorpresa d’ottobre in un dibattito.
Nel 1984 Reagan era alla ricerca di un secondo mandato presidenziale, ma aveva 73 anni e all’epoca era considerato troppo vecchio per restare alla Casa Bianca (in pochi decenni le cose sono cambiate molto: Joe Biden ha 79 anni e Donald Trump nel 2024, nel caso di un secondo mandato, ne avrebbe 78). Lo sfidante democratico era il brillante Walter Mondale, allora cinquantaseienne, che nel primo dibattito presidenziale aveva messo in seria difficoltà un Reagan stanco e confuso.
A due settimane dal voto, Mondale era in forte crescita nei sondaggi e il secondo dibattito era decisivo. I giornali e le tv da giorni insistevano sul tema dei troppi anni del presidente e sul suo stato di salute. La questione ovviamente emerse nel dibattito, con l’intervistatore che incalzava Reagan sulla capacità di portare il peso della presidenza. Sfoderando il suo tipico sorriso, Reagan spiazzò tutti: “Non intendo fare dell’età un tema di questa campagna elettorale. Non sfrutterò, per fini politici, la giovane età e l’inesperienza del mio avversario”. Si scatenò un applauso, rise e applaudì anche Mondale, pur accorgendosi che in quel momento stava perdendo le elezioni. Reagan ottenne un secondo mandato e cambiò la Storia, cominciando dal 1985 a confrontarsi con un altro avversario “giovane e inesperto”: il cinquantatreenne Mikhail Gorbaciov.
Scandali e rivelazioni dell’ultim’ora sono la materia prima delle possibili sorprese preelettorali. Ne sa qualcosa Arnold Schwarzenegger. Nel 2003, quando decise di svestire i panni di “Terminator” per provare a indossare quelli del politico repubblicano in corsa per la poltrona di governatore della California, i giornali si scatenarono alla ricerca di vicende imbarazzanti nella sua vita privata. Le trovarono, ma le tennero a lungo nel cassetto, tirandole fuori al momento giusto per una “October surprise” in un’elezione che insolitamente si teneva non a novembre, ma il 7 ottobre (era un voto speciale previsto dalle leggi della California, una sorta di sondaggio per decidere se mantenere il governatore in carica o sostituirlo con lo sfidante).
Il 2 ottobre il Los Angeles Times pubblicò una lunga inchiesta con testimonianze di donne che dicevano di aver subito da Schwarzenegger palpeggiamenti e attenzioni non richieste. Il giorno dopo fu il New York Times a rincarare la dose, raccontando di simpatie di gioventù per Hitler da parte dell’aspirante governatore. Di tempo per reagire e difendersi Schwarzenegger ne ebbe poco, ma riuscì comunque a battere il governatore in carica, il democratico Gray Davis.
Più o meno lo stesso (scarso) effetto lo ottennero, nel 2016, le rivelazioni d’ottobre su Donald Trump e le registrazioni in cui lo si sentiva fare commenti pesanti a sfondo sessuale su come “trattare le donne”. Quella era la campagna elettorale nella quale si erano pesantemente infiltrati i servizi segreti russi, che cercarono in ogni modo di costruire una “October surprise” contro Hillary Clinton e di influenzare l’andamento del voto con una raffica di fake news. Un rischio che esiste anche nelle elezioni italiane, dove un’eventuale sorpresa di settembre potrebbe anche essere studiata a tavolino in un ufficio di Mosca o San Pietroburgo.
Quelle del 2016 furono elezioni americane ad altissimo tasso di sorprese, oltre a essere passate alla storia per le attività di data mining e le manipolazioni via social gestite da realtà come Cambridge Analytica. Lo stesso giorno di ottobre delle rivelazioni su Trump, Wikileaks iniziò a pubblicare migliaia di mail sottratte a John Podesta, un esponente di spicco dei democratici, mettendo in difficoltà lo staff della Clinton. La candidata presidente era in testa nettamente nei sondaggi, ma per tutto il mese di ottobre il “rumore di fondo” legato a presunte rivelazioni provenienti dalle mail – in realtà prive di alcun rilievo penale – cominciò a minare la sua corsa alla Casa Bianca. Il colpo di grazia arrivò il 28 ottobre, a dieci giorni dal voto, quando il direttore dell’Fbi James Comey annunciò che era necessario indagare più a fondo sulle mail che spuntavano da vari computer di esponenti democratici. Alla fine tutta la storia si sgonfiò, non c’era nulla su cui indagare, ma servì a interrompere la crescita di Hillary nei sondaggi negli ultimissimi giorni della corsa e ad aprire la strada per la vittoria, a sorpresa, di Trump.
Una sorpresa di settembre in Italia dietro la quale si intravedano le impronte digitali dei russi è possibile, ma è difficile immaginare che riesca a spostare nettamente l’orientamento al voto degli italiani. Volendo guardare agli eventi con il distacco degli analisti e dei risk manager, è più probabile che i russi, con la loro gestione delle forniture di gas o con una escalation militare, finiscano per condizionare le elezioni italiane per gli effetti di un qualche scossone economico-finanziario.
Un possibile paragone è una sorpresa – stavolta non a ottobre, ma a settembre – che sconvolse le elezioni presidenziali americane del 2008 e forse ne condizionò l’esito. Nei primi giorni di settembre di quell’anno, il repubblicano John McCain era passato per la prima volta a condurre i sondaggi nella sua sfida con Barack Obama. McCain, come Reagan anni prima, era considerato un po’ troppo anziano e malandato per diventare presidente, soprattutto a confronto con il giovane astro nascente dei democratici. Anche per questo, il candidato repubblicano a fine agosto scelse a sorpresa come propria vice la giovane e sconosciuta governatrice dell’Alaska, Sarah Palin.
La mossa funzionò dal punto di vista dell’impatto mediatico e della mobilitazione della base più conservatrice del partito, che si riconosceva nelle posizioni “dure e pure” della governatrice che parlava di famiglia, valori, lotta all’aborto e diritto di girare armati. Durò per alcuni giorni, con la coppia presidenziale Obama-Biden che perdeva terreno nei sondaggi e il ticket McCain-Palin che saliva. Poi arrivò la “September surprise”: il fallimento di Lehman Brothers, il crollo di Wall Street, la crisi dei mutui subprime, l’America sull’orlo della bancarotta e l’avvio della peggiore recessione nella storia recente.
Per tutto il resto della campagna elettorale, il tema divenne quello della crisi economico-finanziaria. L’Amministrazione Bush era in fortissima difficoltà nel gestire l’emergenza e gli elettori indecisi non si sentirono certo incoraggiati a votare un altro repubblicano. I temi “Dio, patria e famiglia” che la Palin aveva portato al centro dell’attenzione, di colpo finirono ai margini. E l’idea che il fragile McCain potesse non finire per motivi di salute la propria presidenza, lasciando la Casa Bianca nelle mani della sconosciuta dell’Alaska nel pieno di una crisi economica mondiale, fece correre brividi sulla schiena a una larga fetta di americani.
Obama avrebbe probabilmente vinto lo stesso nel 2008, perché c’era una fortissima voglia di cambiamento dopo otto anni di Bush e perché incarnava una novità assoluta negli Usa. Ma la crisi di Wall Street fu senza dubbio una sorpresa dell’ultimo minuto che lo aiutò molto a conquistare la Casa Bianca.
Può succedere in Italia? Anche in questo caso si viaggia nell’ambito delle ipotesi che nessuno auspica, ma è evidente che un fortissimo trauma economico-finanziario a pochi giorni dal voto potrebbe far rischiare a Giorgia Meloni di venir vista come una Sarah Palin. Per di più in un momento in cui a gestire la crisi nella stanza dei bottoni, prima del voto, ci sarebbe Mario Draghi. Con tutti i confronti e le riflessioni del caso.