La zona grigia di Prato
Poliziotti e telecamere cinesi in Italia servono al loro controllo, non alla sicurezza, ci dice Adolfo Urso (Copasir)
L’inchiesta del Foglio sulla stazione di polizia cinese “virtuale” inaugurata nella città di Prato, in Toscana, ha riacceso l’attenzione sulle attività della Repubblica popolare nel nostro paese, che spesso operano in una zona grigia tra la legalità e l’illegalità. Secondo la prefettura locale si sarebbe trattato di un “errore di traduzione, linguistico” a far supporre che quella di via Orti del Pero, a Prato, sia una stazione cinese di polizia, eppure il terzo carattere cinese della denominazione ufficiale ha una traduzione inequivocabile: vuol dire “polizia”. E il sospetto che dietro alle attività puramente amministrative ci sia anche un sistema più ampio di sicurezza e controllo resta legittimo. Adolfo Urso, presidente del Copasir, dice al Foglio: “Già tre anni fa avevamo percepito che la tecnologia era prima di tutto un sistema di controllo per i paesi autoritari, oggi sappiamo che il poliziotto cinese ma anche la telecamera cinese è messa lì non per contribuire alla nostra sicurezza ma alla loro strategia che tende al controllo e alla sopraffazione”. Nella città di Prato, nel 2018, arrivarono fisicamente i poliziotti cinesi, con tanto di divisa: era il frutto di un accordo firmato tre anni prima tra le rispettive Forze dell’ordine. L’accordo prevedeva il pattugliamento congiunto delle aree frequentate da cittadini cinesi per turismo, anche se di turistico, Prato, ha ben poco, e forse questo poteva essere già sufficiente per capire che qualcosa non funzionava. Il senatore Urso, che da anni si occupa di influenze autoritarie, dice una cosa che in pochi, nel panorama della politica italiana, hanno realizzato, a differenza di gran parte dei colleghi dei paesi della coalizione democratica: “Nel 2001 ero il negoziatore italiano a Doha mentre accoglievamo la Cina e un minuto dopo Taiwan nell’Organizzazione mondiale del commercio. C’era stato l’11 settembre, l’attacco a New York era la fine del mondo come lo conoscevamo. Era un altro mondo, in cui si pensava che caduto il muro di Berlino ci fosse la possibilità di una nuova fase”.
E insomma non serve rinnegare il passato, o fare mea culpa per gli errori di un tempo: il dialogo con la Cina a quel tempo era legittimo, così come la fiducia offerta e gli accordi firmati con Pechino. Ma con l’arrivo del presidente Xi Jinping è cambiato tutto, dice Urso, e questo cambiamento è perfino accelerato nell’ultimo periodo: “Dopo la caduta dell’Afghanistan, l’attacco della Russia in Ucraina, la minaccia cinese, la grande sfida globale è cambiata. E’ vero quello che dice Macron, che ci svegliamo con la guerra ibrida che è già in atto, ma è da dieci anni che è in corso e ce ne accorgiamo solo oggi”.
Se la Cina si è trasformata in un paese ancora più autoritario, nazionalista, aggressivo, deve cambiare anche il nostro atteggiamento nei suoi confronti, dice Urso. Ieri al Senato, alla presentazione del libro “La sicurezza come interesse costituzionale: il Caso Copasir”, “c’era tutto lo stato”, dice il senatore di Fratelli d’Italia: “I governi autoritari cercano di delegittimarci. E’ per questo che anche in questa campagna elettorale dovremmo mandare un messaggio di unità, nonostante le divisioni delle idee. E’ necessario mostrare agli altri – non soltanto ai nostri sistemi avversari ma anche ai nostri alleati – che siamo un paese che può essere affidabile”. E in questo contesto, forse i poliziotti cinesi in azione in Italia non offrono esattamente un’immagine di affidabilità.
L'editoriale del direttore