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il reportage

Viaggio Kandahar, dove l'Afghanistan è ancora in guerra con i propri fantasmi

Federico Lodoli e Carlo Gabriele Tribbioli

Nel centro spirituale del paese, la culla della tradizione afghana, gli antichi costumi dei Pashtun incontrano la sharia. E’ da questa combinazione che, nel 1994, sono nati i talebani: il loro ritorno qui è considerato una conquista. Le chiavi della moschea e il jihad

Kandahar, Afghanistan. “Fermi, aspettate prima di scendere dalla macchina”, ci urla Anas, il nostro fixer, mentre parla con i capi di un villaggio rurale all’ombra della rocca di Zor Shar, l’antica Kandahar. Non appena gli uomini ci hanno visto arrivare, sono entrati in agitazione. Temono per le “loro donne”, dicono. Anas gli garantisce che vogliamo solo visitare il sito archeologico che testimonia il passaggio di Alessandro Magno, fondatore di Kandahar nel 329 a.C. Secondo alcune fonti, il nome della città deriverebbe dall’epiteto che il conquistatore si è guadagnato in queste terre: Iskander, il distruttore. Anas raggiunge un compromesso con i capi villaggio. Dopo pochi minuti, dagli altoparlanti che di solito annunciano il richiamo alla preghiera, una voce diffonde un monito in tutto il villaggio. “Stanno dicendo alle donne di chiudersi in casa. Quando saranno sparite dalle strade, potremo visitare la cittadella”, commenta Anas scuotendo la testa.

 

Kandahar è la capitale dell’Impero afghano, il centro spirituale del paese, la culla della tradizione, dove gli antichi costumi dei Pashtun incontrano la sharia. E’ da questa combinazione che, nel 1994, sono nati i talebani. E da queste terre hanno conquistato il paese due volte: nel 1996 e nel 2021. Come mostra la reazione degli uomini che ci hanno visto arrivare a Zor Shar, però, non si può dire che a Kandahar i talebani abbiano imposto leggi estranee ai codici locali. Al contrario, qui la sharia è di casa anche perché si innesta sulla cultura conservatrice dell’etnia dominante. “Rispetto a Kabul qui la struttura tribale si sente molto di più”, ci racconta un giornalista locale che preferisce rimanere anonimo. “Kandahar è l’antica capitale dei re Pashtun, la tribù più tradizionale tra quelle afghane”.

La città moderna viene fondata da Ahmad Shah Durrani nel 1761, un capo tribù divenuto padre della nazione, che da Kandahar regna su un impero sconfinato. Il suo mausoleo è nel cuore della città. “Ma dopo alcuni contrasti con altri capi tribù, il figlio Timur Shah ha spostato la capitale a Kabul. Questo ha creato una rivalità tra le due principali città del paese”, continua il giornalista. Sotto questa luce, la vittoria dei talebani oggi appare quasi una rivalsa del sud contro il nord, che considera gli abitanti di Kandahar provinciali e illetterati. 

A Kandahar si respira un’altra aria rispetto alla capitale. Kabul è una metropoli caotica incastonata tra le montagne a 1.800 metri di altezza. La capitale del sud è isolata, lontana dagli altri centri urbani, circondata da una piana desertica che le dà l’aspetto di una grande oasi. All’aria fresca di Kabul si sostituisce un’aria torrida, piena di sabbia, dominata da colori gialli e ocra. Per gli ampi viali l’atmosfera però è più calma. Non c’è il livello di militarizzazione che esiste a Kabul, i check point sono pochi e per le strade si vedono meno armi. “Non ne hanno bisogno perché si sentono al sicuro. Il consenso per i talebani qui è ampio”, ci spiega ancora il giornalista.

 

Il potere dei talebani trova il suo fondamento nelle tradizioni locali. I segni sono visibili soprattutto per quel che riguarda le donne. Se a Kabul provano ancora a protestare e possono andare in giro con il volto scoperto, qui a Kandahar la loro presenza è cancellata. Non possono essere in strada se non accompagnate da uomini  e le poche che si incrociano al mercato sono rese invisibili dai burqa grigi e marroni come i colori degli edifici. “Ufficialmente non c’è obbligo di portare il velo integrale”, ci dice il giornalista, “ma a Kandahar le donne lo indossano tutte. E’ la tradizione patriarcale Pashtun che favorisce l’islam: nascondere il volto è parte di quella cultura. Anche durante la Repubblica sono poche le donne che qui hanno abbandonato il burqa.”

E’ da Kandahar che oggi il leader supremo dei talebani, Habitullah Akhundzada, governa il paese. Lo fa senza mai mostrarsi. Tutti sanno che è qui ma nessuno sa dove. Di lui non ci sono foto né video. Intorno alla sua figura c’è il mistero più assoluto. Non si sa neanche se sia ancora in vita. L’Emiro si manifesta solo con editti che rifiutano i diritti umani, che minacciano chiunque interferisca nella sharia, che bloccano sul nascere ogni minimo segno di distensione. A marzo è bastata una sua parola per impedire la riapertura delle scuole femminili. Nell’ultimo anno sembra che Akhundzada non sia mai andato a Kabul. Proprio come il Mullah Omar negli anni del primo Emirato. Dopo aver conquistato la capitale nel 1996, è qui che il fondatore dei talebani è tornato per essere nominato Amir al-Mumineen: la guida dei fedeli. Un celebre video lo immortala nel momento in cui, sul tetto di Kirka Sharif, la moschea che da trecento anni ospita il mantello di Maometto, riceve la reliquia del profeta dall’anziano custode. “Sì, l’ho dato io al Mullah Omar. E’ stato un momento fondamentale. Era importante per noi essere lì. Quando lo ha mostrato al popolo, la gente piangeva”. 

 

Da più di trent’anni, Gul Lalai Akhunzada ha le chiavi della moschea: “Il terzo luogo sacro dell’islam dopo la Mecca e Medina”, ci racconta davanti all’edificio dalle mura decorate di bianco e azzurro. “Siamo in tre ad avere le chiavi. Ognuna apre uno solo dei tre lucchetti. Per aprire la porta dobbiamo essere tutti e tre qui, nello stesso momento, altrimenti non è possibile”. Prima di diventare il custode di questo luogo sacro, come molti Pashtun di Kandahar, anche Akhunzada ha combattuto contro i sovietici: “Il Jihad è importante per l’islam, nessuno vuole che un invasore venga nella propria terra. I nostri combattenti sono potenti perché siamo Pashtun e perché abbiamo la fede in Allah. Il coraggio dei Pashtun è benedetto dall’islam”.

 

Il legame tra la tradizione Pashtun e la fede in Allah è alla base del consenso che gli studenti coranici riscuotono nella popolazione di Kandahar, anche e soprattutto in tempi di guerra. I talebani si presentano come gli autentici rappresentanti di una sintesi identitaria che nel Jihad trova la sua espressione e la sua difesa. “Il coraggio dei Pashtun e lo zelo nell’islam ci permettono di combattere. Quando un Pashtun salva la sua casa, salva il suo paese e la sua fede. Permetteresti a qualcuno di entrare in casa tua? Permetteresti a qualcuno di invadere il tuo paese? La tua risposta è no! E anche la nostra risposta è no! Noi siamo Pashtun e questo è il nostro onore”. E’ ciò ci raccontano tutti i talebani che intervistiamo in città. 

 

Uomini come Hafiz Ahmadullah Sahar, che ha combattuto per vent’anni e oggi siede da vincitore sulla poltrona di capo della sicurezza della città. Dopo aver passato un’infinita serie di controlli, lo incontriamo dentro il quartier generale della polizia: “Noi siamo musulmani e abbiamo l’obbligo di fare il Jihad. Siamo stati educati per questo. Abbiamo combattuto l’America perché ha occupato il nostro paese, non ha rispettato la nostra religione e la nostra cultura. Noi Pashtun difendiamo il paese da qualunque invasore. La mia famiglia è da sempre nel Jihad. I miei nonni hanno combattuto contro i britannici e li hanno cacciati. Mio padre ha combattuto contro i russi. Poi mi ha detto: ‘Ora tocca a te fare il Jihad contro l’America’. All’epoca ero uno studente, avevo 24 anni e mi sono unito”. Gli chiediamo se, in questi venti anni di guerra, c’è stato mai un momento in cui ha pensato che non avrebbe vinto: “Il Jihad non è una questione di vittoria o sconfitta, di vivere o morire. Noi combattiamo perché è così: dobbiamo farlo e lo facciamo fino all’ultimo”.

Per il comandante talebano il Jihad è una guerra permanente, a cui tutti i Pashtun sono preparati. Un compito che attraversa le epoche e le generazioni, dove il kalashnikov viene passato come un testimone di padre in figlio. Fino alla prossima guerra, quando a combattere saranno i figli di quelli che oggi sono diventati padri. Quando gli domandiamo se, nel caso di una nuova invasione, direbbe a suo figlio di combattere come suo padre ha fatto con lui, il comandante risponde senza esitare: “Certo. E’ la legge del Jihad, è la legge della famiglia, è la legge dei Pashtun”.

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