Dall'America all'Europa, prove di divorzio dalla Cina
Berlino non ha ancora imparato la lezione russa ma prova a staccarsi da Pechino. Il modello americano
L'Amministrazione Biden sta aumentando le misure per la messa in sicurezza della sua produzione tecnologica interna. Il vicecancelliere Robert Habeck vuole iniziare un lento e graduale processo di “diversificazione” degli investimenti da spostare verso partner “più affidabili”
Il ministero dell’Economia tedesco sta studiando un pacchetto di misure per limitare la sua dipendenza economica dalla Cina. La notizia, pubblicata l’altro ieri da Reuters che citava alcune fonti anonime, ha provocato qualche ora dopo la reazione del ministero degli Esteri cinese, che ha fatto sapere: “Ci auguriamo che la Germania adotti una politica razionale e pratica, invece di darsi la zappa sui piedi”. E’ stata la guerra della Russia in Ucraina ad aver accelerato il processo di allontanamento della Cina dalla coalizione occidentale e dal mercato globalizzato. La dipendenza dei paesi europei e di gran parte degli alleati asiatici dall’energia russa è un tema da tempo dibattuto, ma di recente è diventata sempre più urgente anche la sfida posta da una futura dipendenza dalla Cina, con la quale il settore più critico non è quello energetico, ma quello tecnologico. L’America sta aumentando le misure per la messa in sicurezza della sua produzione interna: nei giorni scorsi l’Amministrazione Biden ha deciso di rimandare ancora una volta la decisione sull’eliminazione dei dazi imposti da Trump sulle importazioni dalla Cina nel periodo più intenso della guerra commerciale tra Washington e Pechino. Allo stesso tempo il governo americano ha intensificato il processo di separazione economica dalla Cina nel settore tecnologico made in Usa.
Per esempio, le aziende americane che ricevono i finanziamenti del piano di sviluppo della capacità di produzione dei chip (il Chips Act, la legge che Biden ha firmato lo scorso mese, con un fondo da 50 miliardi di dollari) non potranno stabilire impianti in Cina per i successivi dieci anni. Anche l’esportazione dei chip verso Cina e Russia è stata ulteriormente regolamentata, per via del loro potenziale dual-use nella Difesa. Quella americana è una visione a lungo termine, che tenta di disarmare la Cina nel suo esercizio di influenza politica e coercizione economica: la dipendenza delle grandi economie industrializzate per i suoi prodotti tecnologici somiglia moltissimo alla dipendenza dell’Europa dall’energia russa.
Dopo il boicottaggio economico cinese contro la Lituania, dopo l’allineamento ideologico (e militare) che si va rafforzando tra Pechino e Mosca, anche dentro all’Ue è iniziata la lenta realizzazione di un problema che potrebbe arrivare, prima o poi, in caso di uno scontro con la Cina. Il paese più esposto al rischio è proprio la Germania, la locomotiva dell’Ue che dipende più di ogni altro paese dalla Cina, soprattutto per i metalli industriali e le terre rare, necessari per l’energia green delle turbine eoliche, i veicoli elettrici e i semiconduttori la cui domanda è destinata ad aumentare. Pechino ha il monopolio assoluto delle terre rare, la loro estrazione, la loro lavorazione e l’export verso l’Ue. Se domani Russia e Cina chiudessero l’export di energia e prodotti tech verso la Germania, la produzione industriale tedesca si fermerebbe. E’ per questo che il ministero dell’Economia di Berlino, guidato dal vicecancelliere Robert Habeck, vuole iniziare un lento e graduale processo di “diversificazione” degli investimenti da spostare dalla Cina a partner “più affidabili”. E le misure potrebbero includere “la riduzione o addirittura l’eliminazione delle garanzie per gli investimenti e le esportazioni in Cina e la rinuncia alla promozione di fiere e corsi di formazione per manager”. Sarebbe una svolta gigantesca per la Germania, visto che per decenni si è parlato di “modello Merkel” nei rapporti con Pechino, sinonimo di: dialogo costante sul business, anche a costo di sacrificare quello sui diritti. Ma oggi il mondo è cambiato.